La maestrina degli operai/XXIV
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XXIV.
Ma un presentimento confuso che quello dovesse essere il loro ultimo incontro, e che ci fosse per aria qualche cosa di più grave di quella nuova violenza fatta a lei, la distolsero anche questa volta dal fare qualunque passo. Non solo, ma al momento di presentarsi alla scuola, ella si ritrovò assai più coraggio che non avesse sperato, forse per effetto appunto di quel presentimento, che le annunziava una fine, qualunque fosse, dei suoi affanni. Nel corridoio, mentre gli alunni entravano, il cantoniere la fermò, e le disse con la faccia inquieta: — Si riguardi, signora
maestra, perchè.... ho sentito certi discorsi: ha da essere una serataccia. — Entrò: la classe era completa, nonostante il freddo e la nebbia fittissima che copriva la campagna come un’immensa nuvola di fumo. Ella sentì un tanfo più forte del solito di pipa, di grasso di macchina e di liquori. Quando salì sul palco e si voltò verso la scolaresca, si fece un silenzio inusitato, e tutti la guardarono con un’espressione nuova di curiosità. E in fatti, il turbamento di tutta quella giornata, il pianto di poco prima, la stanchezza che da vari giorni l’opprimeva, avevano affinato e ingentilito ancora il suo bel viso di grande bambina, del quale faceva apparir più pura la bianchezza delicatissima un vestito di lana nera; e v’era nella sua persona alta ed esile come una grazia languida di malata, che la rendeva più bella delle altre sere. Girando uno sguardo rapido sulla scolaresca, vide che non mancava nessuno dei suoi tormentatori, compreso il Muroni.
Era appena seduta quando s’aperse l’uscio e si presentò il maestro Garallo. La maestra, che disperava già ch’ei mantenesse la sua promessa, si rallegrò.
Al modo com’egli entrò scotendo la grossa testa chiomata, pestando i piedi e fulminando occhiate sui banchi, c’era da prevedere che avrebbe fatto alla scolaresca un’ammonizione terribile. Salito sul palco, infatti, parve per qualche momento quasi soffocato dallo sdegno e dal peso delle parole solenni che doveva dire. Poi disse col tuono della più affabile familiarità: — Cosa ho inteso dire, figliuoli, che ci sono dei malumori fra voialtri? Questo mi dispiace.... e non dev’essere. Che diavolo! Chi ha da esser d’accordo a questo mondo, se non sono d’accordo gli operai? E poi, pare che non vi portiate abbastanza bene. Non capisco perchè. Nella mia classe stanno che è un incanto. (In quel momento si sentiva il baccano dei suoi scolari). Tanto meglio vi dovreste portar voi per rispetto e per riguardo alla signora maestra. Andiamo dunque, state buoni e non ci date dei dispiaceri.... se non ne volete avere anche voialtri. E ricordatevi bene — concluse con uno sguardo molto espressivo — che soltanto con la concordia e con l’istruzione la classe operaia potrà maturare i suoi destini.
Lanciata questa frase che nessuno capì, egli se n’andò con quattro salti. Qualcuno dei ragazzi rise; i grandi rimasero muti e indifferenti. La maestra, un po’ delusa, incominciò la lezione.
Con suo stupore, la classe stette in un silenzio insolito, e da principio essa ne fu contenta. Ma poco dopo s’inquietò appunto di quel silenzio. Vide su molti visi come un’aspettazione meditabonda di qualche cosa che dovesse accadere tra poco, e che fosse immancabile, il pensiero fisso d’un’azione concertata da un certo numero di alunni: fra i quali e il Muroni, più stravolto dell’usato, s’incrociavano continui sguardi indagatori. Perfino quel bruto di zio Maggia, così cocciutamente attento alla lezione tutte le altre sere, le pareva divagato e inquieto. Pur troppo, dunque, i suoi presentimenti non l’avevano ingannata. Ma quello che le dava più pensiero era la faccia di bronzo del piccolo Maggia, sulla quale appariva un’aria di sfida, il riso spavaldo e tristo del discolo senza coscienza e senza cuore, che si sente spalleggiato e aizzato a commettere una cattiva azione, e che ne pregusta la gioia velenosa e la gloria infame. Per la prima volta egli scansava il suo sguardo, abbassando gli occhi diabolici quando ella lo fissava, e nascondendo il sorriso malvagio dietro la mano sporca, con cui si tormentava la lanugine del labbro di sopra. Passò per la mente alla maestra che la combriccola avesse incaricato lui di farle a un certo momento un’offesa grave, per provocare Saltafinestra. Nondimeno, una gran parte della lezione passò senza disordini. Avevan forse fissato di fare il colpo verso la fine, perchè il conflitto inevitabile potesse seguire quasi immediatamente la provocazione. Non ci fu che un incidente notevole, una breve discussione letteraria fra la maestra e il Lamagna, a proposito d’una parola che questi aveva usato nel componimento. Aveva scritto: — “Entrò in quel momento un altro sfruttato.„ Alla maestra, digiuna del linguaggio socialistico, quel participio buttato là come sostantivo, per esprimere il concetto di “operaio salariato, sfruttato dal padrone„ non riusciva intelligibile; e alla spiegazione che il Lamagna le diede, ella fece qualche obbiezione puramente grammaticale, che quegli accolse con un sorriso di compatimento rispettoso. Infine, quando non mancava più che un quarto d’ora all’uscita, visto che da vari banchi si facevano dei cenni d’incitamento al piccolo Maggia, presa da timore, ebbe l’idea di prevenire quel che doveva succedere, scendendo coraggiosamente tra i banchi e avvicinandosi in aria benevola al ragazzo, per guardare il suo quaderno. Pensava che quell’atto cortese l’avrebbe forse distolto dal suo proposito. Riuscì infatti a impedire quello che era stato disegnato, ch’era di gettare un oggetto indecente sul suo tavolino; ma avvenne di peggio. Mentre essa stava china sul banco, toccando quasi col capo il capo di lui, questi le passò un braccio intorno alla vita.
Sonò una gran risata su vari banchi.
Ella si svincolò, mettendo un leggiero grido; il Muroni balzò ritto sul banco per avventarsi sul ragazzo.
— Muroni! — gridò la maestra con tutta la forza che potè raccogliere. — Stia al suo posto!
Il Muroni si rimise a sedere, addentandosi un pugno. La maestra ordinò al ragazzo d’uscir dalla scuola. Questi prese i suoi libri, e se n’andò dimenando le spalle; ma si voltò ancora sull’uscio a lanciare uno sguardo di scherno al Muroni che, digrignando i denti, gli fece un cenno con la mano tesa: — Aspetta.
La maestra tornò al suo posto, senza sangue nelle vene, e presa da un violento tremito, non tanto per raffronto ricevuto, quanto per le conseguenze immediate che ne prevedeva. Un silenzio profondo, che la impaurì, succedette nella classe. Tutti i visi s’eran fatti seri. Il Muroni aveva un’espressione d’odio e di risoluzione, da cui si capiva che nessuna parola umana l’avrebbe potuto rimuovere. Il rimanente della lezione passò per lei come un sogno angoscioso. Sentì sul viale lo zufolìo canzonatorio del piccolo Maggia, che doveva esser poco lontano dall’uscio. Avrebbe voluto mandare il cantoniere a chiamare i carabinieri, avrebbe voluto mandare a chiamare il maestro, avrebbe voluto ordinare al Muroni di rimanere nella scuola; ma non potè far nessuna di queste cose: il suo male organico, quella terribile debolezza della spina che le toglieva la volontà, il movimento, la voce, l’aveva presa dalla nuca alle reni e la paralizzava e la istupidiva e le dava il senso dell’agonia. Il tintinnìo della campanella che annunziò la fine le fece l’effetto d’una squilla che annunciasse il momento della sua morte. Si lasciò cader sulla seggiola e appoggiò il capo sopra una mano.
Il Muroni fu il primo ad uscire o piuttosto a sparire, attraversando la scuola come un fulmine. Tutti gli altri si precipitarono fuori in gran disordine, gli uni per andar a difendere il Maggia, gli altri per andar a vedere, i più prudenti per non trovarsi sul terreno della lotta. La maestra vide passar fra questi, come un’ombra, il Perotti e il suo figliuolo, ed ebbe la forza di chiamarlo: — Perotti! — per raccomandargli che s’intromettesse; ma quegli scappò senza rispondere, tirandosi dietro il ragazzo spaventato.
In quel punto sentì delle grida acute sul viale, e un momento dopo vide entrare nella scuola già vuota il cantoniere, col viso bianco, forse per rifugiarsi.
— Cos’è stato? — domandò la maestra.
— Saltafinestra ha rotto la faccia al piccolo Maggia — rispose lui, e scappò via per non ricevere l’ordine d’accorrere fuori.
Si sentiva intanto sul viale un frastuono confuso di grida e di passi concitati. La maestra uscì dalla scuola, tenendosi ai muri, e salì nella sua camera, dove udì le voci di spavento della Baroffi e della Latti dalla camera vicina. Le grida e i passi di fuori pareva che s’allontanassero. Riprendendo animo, corse ad aprir la finestra e s’affacciò. La nebbia fittissima nascondeva ogni cosa. Essa vide per terra, davanti alla scuola, al chiarore del lampione, dei cappelli sparsi e un randello. Più in là era un’oscurità densa e misteriosa, da cui uscivano delle grida come spente, che ora parevan lontane, ora vicine, come di gente che s’inseguisse girando. — Di qui! — Piglia di là! — Addosso! — Boia! — Avanti! — Bucatelo! — Tre o quattro ombre passarono correndo davanti alla scuola e disparvero dietro la chiesa. La maestra sentì dei colpi secchi e sinistri come di randellate sopra un cranio; poi un grido altissimo, lamentoso, furibondo come il ruggito d’una belva trafitta: — Assassini! — poi altre grida affannose: — Via! — Alla larga! — e vide altre ombre passar di volo nella nebbia, sotto la sua finestra, ed altre un momento dopo, in cui le parve di distinguere i cappelli dei carabinieri. Poi non vide più nulla, e seguì un silenzio di morte. Allora si spiccò dal davanzale, senza pensare a chiudere i vetri, e barcollando e premendosi una mano sul cuore, corse al suo letto e vi si lasciò cadere, sfinita.
Un momento dopo sentì entrare la Baroffi, affannata, che le fece con accento drammatico molte domande, a cui essa non rispose. Quella l’aiutò ad alzarsi, e andarono insieme all’altra finestra, che dava sul cortile, dove suonavano varie voci: apersero: udirono il maestro Garallo che incoraggiava il cantoniere ad andar a prender notizie, ripetendogli che tutto era finito. Ma quegli ricalcitrava, rispondendo: — Eh sì, mi possono ancora prendere.... come testimonio. — Il maestro bestemmiava, dandogli ogni specie di titoli, ma non il buon esempio.
Tornarono all’altra finestra. Sul viale, nella nebbia, si vedeva un andare e venire di lumi, si sentiva il mormorio di molta gente. A un tratto scoppiarono le grida e i singhiozzi disperati d’una donna. La Varetti riconobbe quella voce e s’abbandonò fra le braccia della sua amica, che la portò quasi sul letto.
Di lì a pochi minuti si rifece un gran silenzio.
La maestra Baroffi tornò alle sue domande: dovevano aver ferito o ammazzato qualcuno. — E accaduto qualche cosa nella scuola? Come è cominciata la lite? Chi è stato? ...
— Non so nulla — rispose la Varetti tremando; — non posso parlare, non mi dir nulla!
La sua amica tornò ad affacciarsi alla finestra del viale ed esclamò: — Oh Dio mio!... Hanno mandato a chiamare il parroco!
La Varetti si mise a piangere.
In quel punto picchiarono all’uscio. Erano il maestro e la maestra Garallo che domandavano il permesso d’entrare per dare e chieder notizie. La Baroffi li avvertì che tacessero, accennando la sua amica curva sul letto. Ma il maestro disse con la sua voce di basso: — Hanno ferito Saltafinestra. Ci son vari feriti.
Però, udendo pianger la Varetti, si ritirarono tutti e due per andare ad assister la Latti che s’era messa in letto, dicendo che era venuta la sua ora.
Le due donne rimasero un po’ di tempo in silenzio. Tre colpi vigorosi battuti all’uscio del cortile le riscossero tutte e due. Sentirono la voce del cantoniere che parlamentava di dentro prima di decidersi ad aprire. — Presto! — gridò una voce di donna impaziente. — Una commissione del signor parroco!
La Varetti sentì per istinto che la commissione era per lei, e indovinò quale fosse, e per uno di quei rivolgimenti istantanei che seguono nelle anime buone e nobili alla voce d’un grande dovere, si sentì fuggire tutt’a un tratto debolezza, paura, ribrezzo, e con uno slancio generoso gridò: — Vado! — e afferrato il suo cappuccio, discese correndo, seguita a fatica dalla sua compagna.
Era quello che aveva pensato. La donna veniva da parte del parroco e della madre del Muroni a supplicarla d’andare al letto del ferito.
— Son qui! — rispose la ragazza, e lasciando il cantoniere stupito del suo coraggio, senza rispondere alla Baroffi che le raccomandava di dir qualche bella parola, si slanciò sul viale con la donna.