Pagina:La lanterna di Diogene.djvu/268


— 260 —

con le zampine legate entro ritorte funi. Quelle piccole bocche, coi dentini da latte, si aprivano per mandar fuori un «be!» a tempo, ogni tanto: cessavano, e poi ripigliavano con un «be!» di fastidio, lungo, straziante, vibrante, come dire: «non è bello quello che qui avviene. Ieri pasturavamo le prime erbe, saltellando accanto alle nostre mamme, su la montagna. Qui dove siamo?» Poi, uno ad uno, erano afferrati dal macellaio che lavorava in un sudicio cortiletto, e, sciolti i due piedi dinanzi, i due piè posteriori erano appesi a due cavicchi, infissi in un gelso, così che il capo ne penzolava. Allora l’uomo (uno scarno, sporco uomo) faceva scomparire il coltello, lucido (perchè il sangue sull’acciaio mal si fermava) nel vello dolce, candido: e questa prima operazione avveniva senza che la vittima desse segno alcuno manifesto: poi, dopo essere scomparsa, la lama riappariva di fianco rapida, sicura: aveva reciso: dal candore della lana saltava fuori la canna della gola, e rigurgitava un fiotto luminoso, rutilante: si capiva che quel fiotto conteneva il segreto della vita.

Era un momento atteso perchè i bambini se lo additavano quel rigurgito di sangue col piccolo dito che voleva dire: «Ecco il sangue!»

Allora soltanto l’agnello si risentiva e pareva capire; e le piccole gambe sospese fa-