La guerra del vespro siciliano/Prefazione
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Capitolo I | ► |
PREFAZIONE.
Questo libro si pubblicò in Palermo, non è ancora un anno, col titolo un po’ lungo e indeterminato di «Un periodo delle istorie siciliane del secol xiii.» Non ebbe altro proemio che i due primi paragrafi del primo capitolo. Ma nella presente edizione, perchè avvi qualche cosa di nuovo, mi par bene intrattenerne il lettore per poche pagine.
E per cominciare da ciò che rileva meno, avverto che ho fatto alcune correzioni di stile; senza presumere di essere pervenuto con ciò alla forma, che a me stesso sembri la migliore. Anzi io, che pur troppo ne debbo saper la cagione, veggo quanto niun altro, in molti squarci e in due o tre capitoli interi, il dettato disuguale, febbrile, spezzato come la parola di chi è tra i tormenti, tale da non correggersi che scrivendo da capo: e così avrei fatto se avessi potuto o ritardar la presente edizione, o posporre altri studi ai quali m’incalza un ardente desiderio d’illustrar le memorie della Sicilia.
Ma col favor de’ nuovi materiali, la più parte inediti, che ho rinvenuto a Parigi, e sommano a un centinaio tra diplomi e altre notizie, io ho potuto aggiungere o convalidare alcuni fatti di gran momento. Molte memorie dovean qui restare, attenenti a una dominazione che uscì dalla Francia; e che toccata quella fiera scossa della rivolta di Sicilia, ebbe ricorso nuovamente alla Francia; la trasse alla guerra di Spagna; e s’aiutò per venti anni della sua influenza politica e delle sue armi. Fattomi, con questa certezza, a cominciar le ricerche, le trovai facili pel favore de’ molti egregi Francesi e Italiani che m’aprivan le braccia in questa ospitalissima Francia, usando meco non solamente con gentilezza, ma sì con benevolenza, con sollecitudine, con affetto; i nomi de’ quali non ripeto, perchè quando si parla d’uomini sommi, anche la espressione della gratitudine può parer vanità. Mercè d’essi e degli ordini sì civili del paese, frugai gli archivi del reame di Francia, ove ognuno è culto e gentile; e ne ho tratto diplomi assai importanti. La fortuna mi portò alle mani due volumi di pregio non minore, quand’io volli affacciarmi nell’immensa miniera de’ Mss. della Biblioteca reale. Altre carte ho cavato dalle opere degli spagnuoli Feliu, Capmany, e Quintana; poche più da altri libri.
Per tal modo nel cap. II, ho potuto far menzione d’un disegno assai grave, ancorchè non mandato ad effetto, cioè una partizione delle province del reame di Puglia, proposta da Urbano IV a Carlo d’Angiò, prima della nota concessione feudale. La notizia d’un’atroce prigione di stato che Carlo tenea in Napoli, e altri particolari della sua tirannide, aumentano la descrizione ch’io n’abbozzava nel cap. IV. Il cap. V. risguardante le relazioni politiche esteriori, e l’opinion del popolo è rimaneggiato e accresciuto molto. Perchè alcune notizie pubblicate recentemente intorno al Sordello della Divina Commedia, e la relazione Ms. ch’io trovai d’una ambasceria della corte di Francia per la crociata del 1270, ritraggon sempre meglio le sembianze niente amabili di Carlo d’Angiò. È determinata la patria dello ammiraglio Ruggier Loria: è ammesso a riputazione letteraria il nome di Giovanni di Procida, per un’opuscolo di filosofia morale, ch’ei tradusse dal greco o compilò. In fine ho avuto luogo a riferire il vespro, non solamente alla reazione degli oppressi contro gli oppressori, ma anche all’antagonismo della nazion latina, che s’era sviluppato contro i Francesi per tutta l’Italia. Il mostra assai chiaramente una epistola de’ Siciliani, piena di poesia e di fuoco, dalla quale ho tolto, per accennare l’opinione pubblica del tempo, alcune frasi, di quelle vere e viventi che l’immaginazione de’ posteri invano si sforza a ritrovare.
Il medesimo documento mi ha fornito un altro fatto nel cap. VII; ch’è accresciuto ancora dalla lettera di Carlo d’Angiò, che diè contezza dalla rivoluzione a Filippo l’Ardito, e gli domandò soccorso; senza accennare il menomo sospetto di Pietro d’Aragona o d’alcuna congiura, e senza punto ingannarsi su le difficoltà del racquisto della Sicilia. Non manca qualche notizia cavata dalle nuove carte nei cap. VIII, IX, X ed XI; come le negoziazioni di Filippo l’Ardito con Genova; di Pietro d’Aragona co’ cittadini di Roma, e col re di Tunis; le preghiere che Carlo d’Angiò moribondo indirizzava al re di Francia, ec. È rimutato il principio del cap. XII per alcuni diplomi che svelan le pratiche della corte di Francia su la guerra d’Aragona. Un breve di Martino IV, tra gli altri, dà a vedere come il parlamento di Francia fosse l’arbitro di questa impresa; e con che audacia la contrastasse.
E scorrendo i cap. XIII e XIV si potrebbero osservare qua e là, altri particolari su le negoziazioni che portarono i re d’Aragona ad abbandonar la Sicilia; onde questa innalzò al trono Federigo II. Una poesia provenzale di Federigo, con la risposta d’un suo cavaliere, mi fecero aggiugnere alcuni righi nel cap. XV; come altri versi provenzali mi avean suggerito qualche parola ne’ cap. V, XII e XIII, su Carlo d’Angiò, Pietro e Giacomo d’Aragona. Nello stesso cap. notansi altri documenti su l’ammiraglio Loria; nel XVII confermansi i particolari della battaglia della Falconarìa, con una lettera di Carlo II di Napoli a Filippo il Bello, piena di lusinghe e di preghiere, per ottener novelli soccorsi dalla corte di Francia. Infine molte notizie su l’ultimo sforzo che fu affidato a Carlo di Valois, aumentano il cap. XIX; tra le quali non è da tacersi un diploma di Carlo II, che prevedea la necessità della pace con la Sicilia, e un altro intorno i dritti ch’or chiameremmo d’albinaggio, che rinnegaronsi in teoria, e rinunziaronsi in fatto, su i beni de’ Francesi dell’esercito del Valois, che venissero a morte nelle terre soggette al re di Napoli. Nuove autorità ho aggiunto alla appendice, destinata al minuto esame delle memorie storiche su la supposta congiura. Per tutto il corso dell’opera ho fatto menzione soltanto nelle note, di quei documenti, che nulla mutavano ne’ fatti raccontati. E seguendo lo stesso metodo di pubblicare i documenti inediti più importanti, ne ho aggiunto tredici a que’ della prima edizione: e sono numerati VI, VII, XIV, XXIV, XXXII e dal XXXVII al XLIV.
Tali son le differenze di questa sopra la prima edizione: ciò che non è mutato, nè mutabile io spero, è la coscienza che guidò il mio lavoro. L’intrapresi per fare un saggio di quelle istorie particolari, che sopra tutt’altre convengono a’ tempi nostri. Scelsi il vespro siciliano come il più grande avvenimento della Sicilia del medio evo: il che se si chiamasse umor municipale, sarebbe mal detto; perchè la Sicilia parmi assai grande per una città; e l’amore del proprio paese, il rammarico de’ suoi mali, e il desiderio della sua prosperità comunque possan portarla gli eventi, non si dee confondere con l’egoismo di municipio che dilaniò un tempo l’Italia; passione funesta, dileguata per sempre, io lo spero, insieme con l’ambizione di tirannide d’ogni popolo italiano sopra l’altro. Guardando il vespro da vicino, lo trovai più grande; si dileguarono la congiura e il tradimento; l’eccidio si presentò come cominciamento e non fine d’una rivoluzione; trovai l’importanza nella riforma degli ordini dello stato; nelle forze morali e sociali che la rivoluzione creò; nei valenti uomini che spinse per vent’anni tra i combattimenti e i negozi politici: vidi estendersi in altri reami, e perpetuarsi in Sicilia, e fors’anche nel resto d’Italia, gli effetti del vespro. Donde potea bene accendersi in me il severo zelo della verità istorica; e poteva io difendermi dall’inganno delle mie passioni nell’esame de’ fatti, ancorchè punto non mi sforzassi ad occultarle nelle parole.
Giovanni di Procida, per amor della patria e vendetta privata, si propone di toglier la Sicilia a Carlo d’Angiò; l’offre a Pietro re d’Aragona, che vantava su quella i dritti della moglie; cospira con Pietro, col papa, con l’imperatore di Costantinopoli, coi baroni siciliani: quando è in punto ogni cosa, i congiurati danno il segno; uccidono i Francesi; esaltan Pietro al trono di Sicilia. Tale è stata, poco più, poco meno, l’istoria del vespro siciliano: e sempre si è arrestata al caso del vespro, o tutto al più, alla mutazione di dinastia che ne seguiva. Per vero alcuni storici moderni, la più parte oltramontani, dubitarono d’una trama sì vasta, segreta, felice; ma non prendendo a investigare minutamente i fatti, perchè scorreano vastissimi tratti di storia, prevalse sempre quella credenza, ripetuta a gara da tutti gli altri storici, e da’ Siciliani soprattutto; e si continuò a fabbricare su la congiura. Io credo aver dimostrato che il vespro non nacque da alcuna congiura; ma fu un tumulto al quale diè occasione l’insolenza de’ dominatori, e diè origine e forza la condizione sociale e politica d’un popolo nè avvezzo nè disposto a sopportare una dominazione tirannica e straniera. I novelli documenti che possono sparger luce su l’origine della rivoluzione, la lettera dello stesso Carlo, quella de’ Siciliani, non poche altre bolle papali inedite, confermano certamente questa conchiusione. Al suo popolo, non ai potenti, la Sicilia dee quella rivoluzione che nel secol XIII la salvò dalla estrema vergogna e miseria, dalla corruzione servile, dall’annientamento. Al vespro di Sicilia dee il reame di Napoli una riforma di governo, che moderò per qualche tempo i suoi mali, ma non potè poi allignare. Il vespro risparmiò a tutta l’Italia molti fieri contrasti con la dominazione angioina, che potea conturbare la penisola, non mai ridarla sotto uno scettro: il vespro, per tristissimo compenso, aprì in Italia la strada alla dominazione spagnuola. Esso voltò il corso degli avvenimenti in Levante, disarmando l’ambizione di Carlo: esso per poco non mutò le sorti dell’Europa occidentale, dando occasione alla prima guerra di conquista tentata dalla Francia su la penisola spagnuola. Ma lasciando di considerare le conseguenze esteriori del movimento di questo popolo, che or somma a due milioni, e non n’era forse la metà nel secolo XIII, e restandoci agli effetti nella Sicilia stessa, importantissimi li vedremo; perchè la rivoluzione che mutò prima la forma del governo, poi la dinastia, indi la persona del principe, rimasta salda e vittoriosa al finir della guerra, tramandò alle età avvenire, in mezzo a tanti mali inevitabili, due fatti da non si dileguare sì tosto: una gran tradizione; e uno statuto politico che molto ristrinse l’autorità regia.
Quella tradizione, quelle franchige, ressero a un secolo d’anarchia feudale; a tre di governo spagnuolo; duraron tutto il secolo decimottavo, e gran tratto del decimonono. Nè alcuno troverà ch’io porti esempi, come or diciamo, liberali, quando parlo di Carlo V e di Filippo II; nè ch’io cerchi autorità sospette o leggiere, quando cito il professor tedesco Ranke, e le sue considerazioni su gli Osmanlis e la monarchia spagnuola ne’ secoli XVI e XVII. E pure in quest’opera si dimostra la pertinace resistenza della nazion siciliana contro l’autorità regia ai tempi di que’ principi sì dispotici e duri; e con che difficoltà il parlamento di Sicilia consentisse loro alcuno scarso sussidio, mentre il reame di Napoli, la Lombardia, i Paesi Bassi, la medesima Castiglia, tutta la monarchia infine, dall’Aragona in fuori, era oppressa dalle imposte, e dalla novella austerità del governo. Que’ nostri ordini pubblici restarono sotto Carlo III, quando i due reami di Napoli e di Sicilia si divisero dalla Spagna; quegli ordini furono cangiati nella forma e non certo nella sostanza, pe’ mutamenti del 1812: ed è bizzarra cosa a riflettere, che nel 1815 il congresso di Vienna, rimescolando tutte le masse minori, tarpando e scorciando, come in ogni altro stato d’Italia, le franchige della Sicilia, non seppe annullarle del tutto. Gli statuti degli 8 e 11 dicembre 1816, dettati, come pur furono in quanto alla Sicilia, dal solo potere esecutivo senza partecipazione del legislativo, unirono, egli è vero, i due reami di Napoli e di Sicilia più strettamente che ai tempi di Carlo III, dileguarono per via di fatto le forme costituzionali o rappresentative, ch’erano state in Sicilia senza interruzione infin dal secolo XI, ma par cucirono nelle nuove fogge, pochi stracci dell’antico manto di porpora; perchè non si potè fare a meno di mantener qualche ultima franchigia nell’ordine giudiziale e amministrativo della Sicilia: e franchigia è per certo, la promessa data chiaramente nello statuto dell’11 dicembre, che il re convocherebbe il parlamento di Sicilia, se dovesse accrescere i pesi pubblici oltre la somma decretata dall’ultimo parlamento.
Così veggonsi per cinque secoli e mezzo, non solamente nel dritto pubblico, ma fino nel fatto degli ordini pubblici di Sicilia, comechè sempre decrescenti, gli effetti di quel potente movimento popolare del secol XII. Se ne potrebbero al pari scerner le vestigie nell’indole del sicilian popolo d’oggi, se fosse agevole, come quella delle istituzioni, l’analisi delle cagioni naturali e sociali onde nascono i costumi d’un popolo. Ma in tale investigazione gli effetti del vespro andrebbero confusi con l’indole che produsse il vespro; della quale ognun può vedere i lineamenti nella generazione che vive. E forse perchè son nato in Sicilia e in Palermo, io ho potuto meglio comprendere la sollevazione del 1282 sì com’essa nacque, repentina, uniforme, irresistibile, desiderata ma non tramata, decisa e fatta al girar d’uno sguardo.