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prefazione. | vij |
tradizione; e uno statuto politico che molto ristrinse l’autorità regia.
Quella tradizione, quelle franchige, ressero a un secolo d’anarchia feudale; a tre di governo spagnuolo; duraron tutto il secolo decimottavo, e gran tratto del decimonono. Nè alcuno troverà ch’io porti esempi, come or diciamo, liberali, quando parlo di Carlo V e di Filippo II; nè ch’io cerchi autorità sospette o leggiere, quando cito il professor tedesco Ranke, e le sue considerazioni su gli Osmanlis e la monarchia spagnuola ne’ secoli XVI e XVII. E pure in quest’opera si dimostra la pertinace resistenza della nazion siciliana contro l’autorità regia ai tempi di que’ principi sì dispotici e duri; e con che difficoltà il parlamento di Sicilia consentisse loro alcuno scarso sussidio, mentre il reame di Napoli, la Lombardia, i Paesi Bassi, la medesima Castiglia, tutta la monarchia infine, dall’Aragona in fuori, era oppressa dalle imposte, e dalla novella austerità del governo. Que’ nostri ordini pubblici restarono sotto Carlo III, quando i due reami di Napoli e di Sicilia si divisero dalla Spagna; quegli ordini furono cangiati nella forma e non certo nella sostanza, pe’ mutamenti del 1812: ed è bizzarra cosa a riflettere, che nel 1815 il congresso di Vienna, rimescolando tutte le masse minori, tarpando e scorciando, come in ogni altro stato d’Italia, le franchige della Sicilia, non seppe annullarle del tutto. Gli statuti degli 8 e 11 dicembre 1816, dettati, come pur furono in quanto alla Sicilia, dal solo potere esecutivo senza partecipazione del legislativo, unirono, egli è vero, i due reami di Napoli e di Sicilia più strettamente che ai tempi di Carlo III, dileguarono per via di fatto le forme costituzionali o rappresentative, ch’erano state in Sicilia senza