La frusta teatrale/II. Lettura e contraffazione
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II
Lettura e contraffazione
Non parrebbe difficile tentare la riduzione del fatto teatrale al concetto unico di arte. La poesia drammatica è una visione del mondo dello spirito rappresentato dall’artista nell’intimità del suo animo e non è diversa di significato dalla poesia epica o lirica. Il critico o il lettore che la vuol penetrare deve rivolgersi al valore dell’espressione, trascurando il fatto contingente che l’artista direttamente si confessi o si disponga a cimenti obbiettivi.
Dicono che il teatro sia comunicazione di popolo e di poeta: e comunicazione presupporrebbe comprensione, ossia un punto, un momento comune per cui poeta e popolo siano uniti ed operino insieme e lo spettatore giunga a commuoversi tanto da diventare attore. Questa commozione potrebbe nascere soltanto da una grande idea, da un’ispirazione religiosa e se ne citano gli esempi nel dramma di Shakespeare e nella tragedia greca, attuazioni di un mito popolare, universale nel suo spirito e nel suo significato.
Ma la comunicazione che c’è tra spettatore e attore, tra pubblico e artista, è identica con quella che lega poeta e lettore, fondata anche questa sulla comprensione; ed io non saprei chi sia stato più popolare tra Eschilo, Omero e Pindaro, tra Shakespeare e Dante.
Ma, si obbietta, ci sono nel teatro elementi pratici, esigenze spirituali che hanno la loro storia e si riferiscono al fatto che l’opera d’arte si debba realizzare come azione scenica. Ora è vero che l’attenzione del pubblico rivolgesi di preferenza a questi elementi; e in tal caso i gioielli dell’attrice o i giuochi di luce del palcoscenico prevalgono su altre considerazioni interiori. Ma questo discorso non parrebbe riferirsi ad altro che all’esecuzione.
In realtà la rappresentazione scenica è soltanto lo sviluppo elevato a compito sociale, di un movimento spontaneo che accade, come bisogno di comunicazione, a chiunque, leggendo una poesia, voglia oggettivare i sogni del poeta e farsi, per così dire, una cosa sola con essi; l’attore poi dovendo essere decorosa espressione di questo bisogno, non sarebbe per nulla escluso dalla dignità del comprendere, che cercherà di ritrovare offrendo modestamente una sapiente lettura.
Chè, se il gusto moderno ha reso meccanica questa esigenza annegandola nella convenzionalità degli atteggiamenti falsi e di un verismo scenico fatto di lusso grossolano, si può parlare di una riforma del teatro solo in senso negativo per esprimere l’esigenza di liberare il campo da questa decadenza e da questa esteriorità.
Confesseremo candidamente che la rigorosa logicità delle considerazioni sin qui esposte è rimasta la sola arma non spuntata, in linea teorica, che si possa con qualche sicurezza opporre al Berrini, o al Forzano o all’Adami, da chi ancora si senta queste ascetiche disposizioni alla pazienza di un donchisciottesco sacerdozio. Forse anche per l’arte potremo ammettere i casi estremi di legittima difesa.
Perchè in realtà le intransigenze oratorie peccano tutte di inaccessibile altezza e non saprebbero con filosofica superiorità trovare aderenze armoniche con le cose. Sicché venuti a questi termini sembrerebbe tutt’altro che ozioso, anzi necessario, rifare il cammino per altre mete. I suggerimenti storici più palesi mettono in guardia contro i concetti semplicistici della filosofia dell’imitazione, che del resto agli avveduti si è svelata già come circolo vizioso e non legittima spiegazione.
Per ritrovare con qualche evidenza di storicità le origini teoriche del teatro sarebbe propizio sfruttare il concetto di contraffazione, ossia di una cercata doppiezza in cui la schietta meraviglia e l’enfasi religiosa terrebbero il luogo di ciò che si vede; e ciò che non si vede, perchè pura essenza, sarebbe il calcolo e l’artificio; come dal pulpito la predica scaltra si nasconde tra le parvenze della commozione e delle lagrime, per astuzia di commediante. L’entusiasmo compiuto sarebbe in un caso come nell’altro fittizio: e in certe scomuniche e polemiche della Chiesa contro il teatro non bisognerebbe avvertire se non gelosia di mestiere.
Ma il discorso non può rimanere entro confini così semplificati a mano a mano che questo concetto di contraffazione si verrà a ridurre e a spiegare in quello di costruzione e di individualità, e comprenderemo l’artificio nell’arte. Nè l’ampliarlo genericamente a nulla servirebbe se non si venisse a studiare per l’appunto l’attore e il suo artificio. Solo per questa via del resto l’indagine potrebbe serbarci non inutili sorprese. Dovremo dunque rassegnarci a sconsacrare con occhi troppo curiosi i più facili e fortunati miti, dovremo con la più contenuta discrezione cercare quali costruzioni si nascondano sotto le varie forme di proclamata naturalezza scenica. Infatti questa inconcussa opinione della naturalezza sarebbe appunto la prima maschera degli attori, creata, se si vuol dire con equità, non tanto dalla finzione, quanto dal bisogno di aver un riparo alla timidezza. Non dimenticheremo che l’attore è, psicologicamente, una specie di gigante fallito, di poeta caduto; e ci spiegheremo così agevolmente come egli rifugga per natura dalle responsabilità integrali e non voglia misurare tutta la sua individualità, senza lasciare dietro di sè certe prudenti riserve mentali.