La freccia del parto ed altre novelle/Bugia
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BUGIA
Sull’unghia lucida, opalina, proprio in fondo verso la radice, c’era una piccola striscia bianca, che ne guastava l’elegante armonia. Pareva una vela candida su un lago tranquillo.... no, pareva una macchia, una vera macchia ignobile e plebea; e il ditino si ribellava a questo marchio degradante rizzandosi in mezzo a’ suoi compagni, provocando ad ogni istante le occhiate malinconiche della contessa.
Ella era ben sicura di non avere lavorato la terra, nè spolverati i mobili, nè spazzolati i tappeti, nè compromessa in qualsiasi altro modo l’immacolata purezza del suo anulare.
Perchè dunque quella macchia?
A furia di pensarci la contessa si ricordò di aver sentito dire dalle sue governanti, quand’era piccina, che quelle piccole striscie bianche sull’unghia indicano una bugia. Certo la contessa non aveva pregiudizii, ma era meridionale, e qualche cosa le restava delle idee che aveva succhiate col latte.
Un improvviso rossore le passò sulla fronte, si diffuse sulle guance e andò a morire nel collo sotto un alto goletto di trine arricciate alla Medici; la mano accusatrice cadde abbandonata lungo le pieghe dell’abito.
— Dunque — esclamò la contessa con un sospiro — la mia colpa è già manifesta? L’ignobile menzogna di cui sono rea mi si legge scritta sul dito? sul medesimo dito che porta il pegno della fede giurata e tradita!
Molti altri furono i pensieri della contessa; pensieri profondi, dolorosi, acerbi, nati come nascono molte volte le grandi cose, da un punto appena percettibile.
È d’uopo però dire immediatamente che la contessa esagerava le proprie colpe, e quello che a lei, anima nobile e pura, sembrava poco meno che un delitto, a molte e molte altre donne non avrebbe neppure solleticata la sensibilità di quello strano sentimento che è la coscienza.
Che cosa aveva fatto alla fine la contessa Beatrice Cucchiari? Ella era rimasta tutta una sera a contemplare la luna insieme al marchese Guido Monteviti — colle mani nelle mani. Questa è la circostanza aggravante — unica — è vero, ma fatale per la povera donna, che non aveva più trovato pace dopo quella stretta di mano.
Monteviti era un seduttore di professione, di quelli che non muojono mai quando c’è un’epidemia, ed ai quali non capita mai che cada loro un tegolo sulla scriminatura; razza di ladri in natura che rubano agli uomini di cuore lo sguardo appassionato e la voce persuasiva; commedianti nati che hanno la fronte del genio; truffatori che vivono sulla buona fede delle donne oneste, perchè (a capo e parentesi, minacciando il periodo di diventare troppo lungo).
Le donne oneste non sono solamente quelle che attraversano il loro sentiero coi piedi in mezzo ai gigli e lo sguardo in cielo. Sono pur oneste (e quanto) le donne che si pungono ai rovi, che inciampano nelle spine, che dal cielo sono costrette a rivolgere gli occhi sulla terra non sempre pura, e che forti e battagliere proseguono impavide senza cadere mai.
Beatrice avrebbe preferita la prima maniera, più comoda, più facile. Ella amava suo marito, ne era amata, e nulla le sembrava più assicurato della sua pace conjugale. Ma Dio che si piace ad affliggere (dicono) ed a provare quelli che egli ama, mandò Guido Monteviti sul sentiero della contessa.
La prima volta che Beatrice incontrò ferme su di lei le pupille corruscanti del marchese, provò un senso di malessere e di noja, un po’ somigliante a quello della sonnambula sotto l’azione del magnetizzatore.
Allora appunto ella attraversava un periodo critico, di quei periodi che capitano alle donne sensibili quando il marito si appassiona per una cava di carbon fossile, per i cavalli, per la caccia o semplicemente per l’ingrasso de’ suoi poderi. Il conte Cucchiari, sicuro dell’affetto e della virtù di sua moglie, l’abbandonava un pochino a sè stessa, sembrandogli che dopo cinque anni di matrimonio si potesse onorevolmente dare il benservito alla luna di miele. E non v’ha dubbio che su ciò l’ottimo gentiluomo s’ingannava di grosso, poichè dai quindici ai cinquant’anni la luna è sempre l’astro maggiore nel cielo delle donne.
Beatrice non aveva il benchè menomo pensiero di mancar di fede a suo marito; ma Monteviti si faceva strada, se non nel cuore, nella fantasia di lei, esagerando quelle prove di gentilezza e di devozione che servivano a dare maggior risalto all’apparente freddezza del marito, e con quest’arme perfida demoliva giorno per giorno, in segreto, la tenace virtù della contessa.
Dalle vette rigide del dovere l’incauta era già discesa sul pendìo delle concessioni, e lì, tra i fiori brillanti del sofisma voleva persuadersi che il cuore è eternamente libero, che nessun ceppo di legge, di religione o di società può imporsi alla fiamma immateriale dell’anima; che la carne ha degli obblighi, ma lo spirito no — e divideva, e sottilizzava, volendo salvare tutto e tutti, lei, suo marito e il marchese.
Ma certe volte, improvvisamente, era côlta dal rimorso, il quale prendeva spesso delle apparenze puerili e superstiziose, come ora che nella piccola striscia bianca credeva leggere in caratteri di fuoco la terribile parola: Adultera. Oh! come si sentiva infelice! È dunque per vivere in tali tormenti che si desidera l’amore? Ma ella non lo aveva desiderato; le era piombato addosso inesorabile e fatale come il destino; aveva creduto fino a quel giorno di amare suo marito e non era vero; la prima, l’unica bugia della sua vita le si smascherava così pubblicamente. Se anche ella avesse voluto negare di amar Monteviti, la macchia accusatrice era là; la vedeva tutte le ore, tutti i momenti; col volgere delle settimane si portava più in alto; già aveva troneggiato nel mezzo dell’unghia impudente e maligna; ora saliva, saliva; fra poco sarebbe scomparsa, a Dio piacendo — ma e poi?
⁂
Di contro al mare, sul terrazzo di marmo roseo dove la folta vite d’America gettava delle ombre verdi, Beatrice lavorava soletta contemplando il tramonto del sole, nè la sua corazza di raso strettamente allacciata intorno alla vita tradiva un sussulto, nè le pieghe morbide dell’abito coperto di pizzi lasciavano indovinare la benchè menoma contrazione dei due piedini immobili appoggiati allo sgabello.
Tirava l’ago placidamente a lunghi intervalli fissando attenta il lavoro e mordendosi tratto tratto le labbra. Una lieve ruga verticale le si era annidata tra ciglio e ciglio, e sola svelava l’intensità di un pensiero costante e rinchiuso.
Beatrice aveva presa una grande risoluzione. Per quanto le si schiantasse il cuore, il suo dovere le imponeva di allontanare Guido Monteviti; ella ne avrebbe fatta una malattia, sarebbe forse morta di quel cruccio lento che corrode nell’anima le sorgenti della vita, ma che importa? Si sentiva eroica.
— Che bell’abito avete oggi, contessa! esclamò dietro a lei la voce giuliva di Monteviti. Il bigio e il rosa vi vanno a meraviglia, e non è poco, ve lo giuro. La duchessa di Montegemoli, che è obbligata al rosso a perpetuità, ne morrebbe d’invidia se vi vedesse.
— Grazie, marchese; avete sempre il complimento sulla punta della lingua.
— È la sincerità nel cuore! si affrettò a soggiungere Monteviti mettendo nella sua voce una nota profonda di passione.
La contessa sospirò.
— Il cuore è spesso un cattivo consigliere.
— Io non ne ascolto altri quando sono vicino a voi.
— Fate male, marchese, fate male, perchè....
— Perchè?
— Perchè a un cuore che parla occorre un cuore che risponda.
— Contessa?
— Oh! per pietà non fatemi quegli occhi.
— Ma voi dite delle cose atroci! È veramente quello che pensate?
— È quello che devo pensare.
— Lo pensavate anche ieri?...
— Perdonatemi. Dimentichiamo il passato — fui pazza.
Egli la guardò fissamente negli occhi e fece per prenderle una mano.
— No, no, ve ne prego.
— È dunque un congedo che mi date?
La contessa esitò a rispondere; Monteviti non aggiunse altro. S’inchinò profondamente, girò sui tacchi e scomparve.
Beatrice rimase per un istante come acciecata. Questa scena breve, ridicola, triviale, così diversa dal patetico addio che ella aveva immaginato, le fece l’effetto di un’operazione chirurgica. Le sembrava che le avessero strappato qualche cosa; sanguinava in qualche parte, ma non sapeva bene dove. E lo strano è che sotto la fitta acuta del dolore momentaneo sentiva un benessere immenso, il sollievo di una lunga oppressione, come il paziente che trae un gran respiro quando gli levano di bocca il dente cariato.
Era dunque quello lì l’uomo al quale aveva posposto suo marito? Per un libertino, per un vanesio, per uno sciocco ella era stata sul punto di offuscare la sua fede intemerata di sposa — aveva potuto per un istante solo amare un Monteviti, lei che si chiamava la contessa Cucchiari! Ora capiva come si può rubare, come si può uccidere, perchè vi sono veramente nella vita dei momenti di pazzia.
Si alzò in piedi e si pose a passeggiare sul terrazzo; il sole era scomparso; l’ombra della vite si faceva più bruna; in fondo, davanti a lei, il cielo e il mare placidissimi si ricambiavano dei raggi azzurri.
Che pace dolcissima, insperata.
L’incubo era cessato, il brutto sogno era finito e non ricomincerebbe mai più. Come sentiva di amare suo marito, di averlo amato sempre anche quando stava sotto il fascino di Monteviti. La bugia era il falso amore, l’estasi della immaginazione annoiata dove il cuore non aveva nessuna parte.
Sollevò il dito anulare guardandolo agli ultimi barlumi del crepuscolo; la striscia bianca aveva raggiunta l’estremità dell’unghia. Beatrice prese le sue forbicine di lavoro e tagliò profondamente quell’unghia, come non l’aveva mai tagliata di certo.
In quel momento un domestico facendo la sua apparizione sulla porta del terrazzo, annunciò:
— È arrivato il signor conte.
— Ah! — fece Beatrice tutta allegra, arrossendo e succhiando colle labbra l’estremità dell’anulare che le doleva un poco.