La fine di un Regno (1909)/Parte III/Una pagina postuma
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Il terremoto del 1851 a Melfi
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UNA PAGINA POSTUMA
Il terremoto del 1851 a Melfi.
Negli anni, che sono particolare argomento di questo libro, il Regno delle Due Sicilie fu rattristato da due terribili terremoti, quello del 1851 che distrusse Melfi, e danneggiò più o meno fortemente la regione del Vulture; e quello del 1857, che colpì quasi tutta la Basilicata, e una parte della provincia di Salerno. Di quest’ultimo si discorre copiosamente nel capitolo XII del primo volume; di quello del 1851 si fa un cenno, e si ricorda che il re Ferdinando II si recò sui luoghi del disastro, conducendo seco il principe ereditario, che contava quindici anni; il conte di Trapani, e parecchi alti funzionari della amministrazione civile e militare. Fu l’unico pubblico infortunio quello di Melfi, che indusse il re a recarsi sui luoghi devastati, sia per la relativa vicinanza di Melfi a Napoli, attraverso i due Principati, sia per la stagione non inclemente. Il terremoto del 1851 avvenne nel cuore dell’estate, in pieno sollione, il 14 agosto, vigilia dell’Assunta, patrona della città di Melfi; e che i Melfesi volevano celebrare in quell’anno con maggior pompa, onde avevano fatto venire un apposito concerto, e parecchia gente era convenuta dai paesi vicini. Contrariamente alle tradizioni dei grandi terremoti, quello di Melfi fu sentito alle ore 19 e mezzo italiane, nell’ora più forte della canicola, quando la maggior parte della gente dormiva, come si costuma nei paesi meridionali in quella stagione. Il caldo e la siccità imperversavano da più mesi; anzi, ricorda uno degli scrittori sincroni, nella regione devastata non pioveva dal marzo. Ad un tratto si udì un forte rombo; tremò la terra; le case e gli edificii crollarono con spaventoso fragore; e meno di un’ora dopo, una replica più forte compì l’opera di esterminio. I morti furono un migliaio: cifra enorme per una città che contava appena dieci mila anime. Forse superarono il migliaio, perchè, come notò il primicerio Araneo, raccoglitore accurato di notizie storiche della città di Melfi, non si potè accertare il numero preciso delle vittime, perchè molte non furono potute estrarre dalle rovine; e dei forestieri non fuvvi, come egli afferma, chi brigossi di ricercare i nomi.
L’impressione fu straordinaria in tutto il Regno. Da circa sessant’anni, dopo il terremoto del 1783, non vi erano più stati così immani disastri; onde si viveva nella maggiore illusione, che l’èra dei grandi terremoti fosse chiusa con la fine del secolo XVIII. Melfi ruppe le illusioni; e ancora più tragicamente le ruppe, sei anni dopo, il terremoto del 16 dicembre, il quale fece diecimila vittime; ebbe un teatro assai più vasto; avvenne di notte e sollevò un’eco di pietà in tutta Europa. Ma qual confronto fra questi due terremoti, pur così desolanti, e il cataclisma del 28 dicembre, la più grande tragedia che ricordi la storia, perchè superò quella del 1783, giudicata un’esagerazione rettorica del Colletta, e si compì sopra le due stesse riviere dello Stretto fatale! Nessuno dei vecchi e più terribili terremoti può dunque paragonarsi all’ultimo, nell’insieme e nei particolari; per la stagione e per l’ora; e solamente ebbe comune col terremoto di Melfi il fenomeno di una preventiva siccità. Il terremoto del 1851 e quello del 1857, descritti e studiati da uomini di scienza e di coltura, le cui narrazioni si congiungono a quella più tragica del Colletta, si riducono dunque a piccoli episodii innanzi all’ultimo, che ben può dirsi il maggior disastro che l’umanità ricordi! Per noi contemporanei esso rappresenta la visione più raccapricciante della nostra esistenza, anche perchè abbiamo veduto ripetersi gli stessi spettacoli di pietà e di terrore; di egoismi e di eroismi; di virtù e di ribalderie; e più di ogni altra cosa, abbiam potuto constatare la bancarotta della scienza e la disorganizzazione dei servizii pubblici: quella nel non prevenire; questa nel non provvedere a salvare migliaia di vite, nonostante le maggiori infinite risorse della viabilità e della civiltà. Dal 1783 al 1908, per 125 anni, la scienza non ha insegnato nulla, e i governi hanno imparato meno: nè so di queste due ignoranze quale sia la più funesta!...
Il terremoto di Melfi ebbe illustratori insigni ed anche retori, o scrittorelli di nessun conto. Basterà fra i primi ricordare due scienziati di gran nome, il fisico Luigi Palmieri e il geologo Arcangelo Scacchi, i quali, per incarico dell’Accademia delle scienze, andarono sul posto a indagare circa le cause del fenomeno, e scrissero una copiosa relazione, ch’è modello di sapere e di sincerità, confutando e dissipando i pregiudizii e le favole, che l’ignoranza e la paura avevano creato, e principalmente che il terremoto del 14 agosto fosse un segno del ridestarsi del vecchio vulcano. Dopo dotte comparazioni sulla geologia del Vulture, e fisici esperimenti sulle elettricità atmosferiche, e sul magnetismo terrestre, i due scienziati conclusero che il Vulture, considerato come vulcano, fu del tutto straniero al terremoto desolatore delle città circostanti.1 E per la parte di cronaca e di storia andrebbero ricordati parecchi, e in primo luogo Francesco Saverio Arabia, il quale scrisse una relazione letta all’Accademia Pontaniana, piena d’interesse e potrei anche dire esauriente, come potrebbe farla oggi un giornalista colto e accurato2. Leggendo difatti quella relazione, si ha un’idea abbastanza esatta del disastro che colpì la regione del Vulture; e di cui, se fu centro Melfi, che andò distrutta, risentirono danni gravissimi Barile, Rapolla e Rionero; e Venosa, Ripacandida, Lavello, Monteverde, Carbonara e Atella; e le città di Puglia, Candela, Ascoli e Canosa furono più o meno urtate, scosse e danneggiate. Anche l’Arabia combatte l’opinione, che del terremoto di Melfi fossero stati cagione i fuochi sotterranei del Vulture non ancora spenti, e ricorre all’autorità di Humboldt, il quale scrisse: comunemente il popolo è solito di ascrivere i grandi fenomeni a cause particolari, piuttosto che sollevarsi a idee generali, in guisa che dovunque si sentono lungo tempo i terrestri commovimenti, si teme la formazione di un nuovo vulcano. E la storia ha confermato le asserzioni della scienza per questa parte: in Europa, e più particolarmente in Italia, a nessuno dei grandi terremoti è mai succeduta la formazione di un nuovo vulcano, o il ridestarsi di un vulcano spento.
Parecchi scrittori sincroni si occuparono, dunque, del terremoto di Melfi, e vanno ricordati i cittadini melfesi: Gennaro Araneo, che registra curiosi particolari circa la visita del re; e Basilide del Zio, più di recente.3 Ferdinando II arrivò a Melfi il 15 settembre, un mese dopo il disastro, a cavallo, e sotto una pioggia torrenziale. Fu accolto come un salvatore, poichè alla rovina del terremoto eran seguite l’anarchia e le perfidie delle autorità. Il sottointendente si diè infermo; e l’intendente riferì a Napoli, e riferirono gl’ingegneri di ponti e strade, che oramai tutta Melfi era una rovina, e che bisognava abbandonare ogni idea di riedificarla, e portare invece a Rionero la sottointendenza e la diocesi. Erano intrighi, i quali — scrive l’Araneo — avrebbero avuto la loro esecuzione, se il re Ferdinando secondo, osservato oculatamente il vero stato delle cose, ed accortost degl’imbrogli, non si fosse virilmente opposto, dichiarando sn pubblico, che allora avrebbe permesso di far abbandonare Melfi, quando non vi fosse restata pietra sopra pietra. Il Del Zio completa la narrazione dell’Araneo con altri particolari, circa il viaggio di Ferdinando II, il suo ingresso a Melfi, e la baracca dove stette, non due mesi, come Si è di recente asserito, ma soli cinque giorni. Il re riparò in gran parte al disordine, perchè alla volontà sua non si osava resistere. Commosso da quello spettacolo di desolazione, disse all’intendente: assicurate i Melfitani che se la disgrazia è grande, la carità è immensa, e Melfi deve risorgere; e ad una deputazione di Rionero, andata a petulare poco generosamente, per avere la sottointendenza e la diocesi, rispose ad alta voce, e non senza sdegno: andate; non permetterò mai che la culla della Monarchia delle Due Sicilie venga distrutta e abbandonata. Melfi sarà presto riedificata e farò qualunque sacrificio per farla risorgere più bella e più grande. Visitò Rapolla, Barile e Rionero; largì soccorsi agl’indigenti; ordinò la costruzione di ottanta baracche, divisa ognuna in quattro scompartimenti eguali per quattro famiglie povere; dispose di dividersi fra i cittadini del basso ceto le terre demaniali del Vulture; ma la costruzione delle baracche lasciò molto a desiderare. Mandò via l’intendente e il sottointendente incapaci, e li sostitui con altri più zelanti, e il 19 settembre lasciò Melfi, e per la via di Ascola tornò a Napoli. La breve dimora apportò del bene a quegl’infelici, e Melfi gli deve se restò sede del circondario e della diocesi; se ebbe una Cassa di prestanze agrarie e commerciali a favore anche dei Comuni del suo distretto, e fondata col danaro raccolto dalla pubblica sottoscrizione, e con quarantamila ducati largiti dal governo. Però, sia detto per la verità, non mancarono esempii di sperpero, di ruberie, d’insipienza, di superficialità e di profitti criminosi allora, e più tardi nei nuovi tempi. Il Del Zio scrive a questo proposito parole di fuoco. Ma trionfò su tutto la maschia energia delle genti lucane; e più la passione potente e misteriosa dell’uomo per il luogo dove nasce. Non erano ancora sgombere le macerie; nè ancora cessato il pauroso tremar della terra; nè distrutta la paura, che il Vulture coi suoi pretesi fuochi sotterranei minacciasse nuove rovine, che i cittadini di Melfi ripresero a fabbricare il focolare domestico, vicino al quale dormono da più di mezzo secolo tranquilli e relativamente sicuri. La città fu rinnovata, e del disastro del 14 agosto rimane la memoria nei libri e nella tradizione dell’arte. Nicola Palizzi dipinge on po’ accademicamente parecchie scene di quel terremoto; e vi è pure una tela assai caratteristica nel museo di San Martino, che rappresenta Fərdinando II fra la popolazione di Melfi. Devo una fotografia di questo ultimo quadro al mio carissimo Ireneo del Zio, fratello di Floriano e di Basilide: i tre Del Zio, che rappresentano a Melfi tutto un tesoro di cultura, di bonarietà e di semplicità. Essi perdettero in quel terremoto parenti e amici; il loro padre fu salvo, benchè gravemente ferito alla testa; Floriano era studente a Napoli; e Ireneo, piccino e alunno del Seminario, fu vivo per miracolo, secondo afferma egli stesso. La famiglia Aquilecchia, fra le più doviziose della città, mori quasi tutta.
Anche le muse sciolsero carmi per il terremoto di Melfi, ma nessuno di questi può paragonarsi, per altezza d’ispirazione e sincerità di sentimento, al salmo di Niccola Sole, scritto per il terremoto del 1857. In un volume di poesie stampato a Firenze nel 1876, dal signor Gualberto de Marzo si leggono versi rettorici dal titolo: il profeta su le rovine di Melfi. L’ultima strofetta di una canzone dice:
Gerusalem novella, alti i cipressi, |
Non conosco il poeta, ma se la poesia fu scritta nel 1851, venne pubblicata, ripeto, nel 1876: cioè venticinque anni dopo il disastro, quando Melfi si era rifatta sulle sue rovine, da non più riconoscersi. Nel 1847 Cesare Malpica, ramingando per l’Italia meridionale, aveva improvvisato un inno al Vulture e a Melfi; e nel 1856 Emilia de Cesare cantò Melfi, le sue origini, le sue glorie storiche e il terremoto del 1851, con più felice ispirazione. Sarà bene ripodurre una sola di quelle ottave:
L’egra cittade ancor dalle ruine |
Nè mancarono altri poeti ed epigrafai in italiano e in latino e prosatori, come si è detto.
Note
- ↑ Della regione vulcanica del monte Vulture e del terremoto del 14 agosto 1851, Napoli, Gaetano Nobile, 1852.
- ↑ Poesie e Prose di Francesco Saverio Arabia, Salerno per Raffaello Migliaccio, 1855.
- ↑ Melfi e le agitazioni del Melfese — Melfi, tipografia Liccione, 1905.
- ↑ La Lira Peuceta, Napoli, 1856.