La fine di un Regno (1909)/Parte III/Mario Mandalari
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MARIO MANDALARI
Crederei venir meno ad un obbligo di onore e ad un sentimento di profonda e affettuosa amicizia, se non ricordassi la vittima forse più illustre del terremoto di Messina, Mario Mandalari, il cui nome ricorre tante volte nelle pagine di questo libro. Mente colta e perspicua, e anima d’artista, il Mandalari lascia un segno durevole di sè nella storia della coltura moderna, Scrisse di tante cose; fu tra i più valorosi discepoli del De Sanctis; professore di scuole secondarie e di Università; ispettore delle scuole italiane all’estero, e per dieci anni direttore della segreteria dell’Università di Catania, dov’era riuscito ad acquistarsi la benevolenza dei professori e dei giovani, e dove si strinse con vincoli di salda amicizia ad Angelo Majorana. Da Catania fu chiamato a Roma, dove ebbe parecchi incarichi; e a Roma sperava rimanere, essendo professore pareggiato di lettere italiane all’Università; ma, nonostante il suo desiderio e i mezzi adoperati per rimanere in Roma, sì fu con lui inesorabili, e lo si mandò a Messina. Qui abitava in casa di suo fratello Lorenzo, fondatore e direttore di quel manicomio, ingegno brillante e cuor generoso anche lui. Furono sepolti amendue sotto le macerie del palazzo Grill, in via Alighieri, e sepolta con essi tutta la famiglia di Lorenzo, cioè la moglie e tre signorine nel fiore degli anni, belle e intelligenti, e una signora russa loro governante. Non si salvò nessuno; e non fu neppur tentato alcun salvataggio, perchè il palazzo Grill, rovinando, divenne, si disse, una montagna di polvere. Quanto talento, quanto cuore e quanta gioventù spenti miseramente, forse fra un’agonia raccapric| il palazzo Grill, rovinando, divenne, si disse, una montagna di polvere. Quanto talento, quanto cuore e quanta gioventù spenti miseramente, forse fra un’agonia raccapricciante!
Mario Mandalari, professore, pubblicista, conferenziere, era uno degl’ingegni più versatili e più graziosi del nostro tempo. Calabrese, nessuno conosceva meglio di lui la storia della sua terra; nessuno l’aveva meglio di lui penetrata in ogni sua parte, e nel periodo più mosso del Seicento, e nel pensiero dei suoi maggiori personaggi e scrittori. Egli attendeva da più tempo a un’opera, che ne ricorderà il nome nella storia della letteratura, la bibliografia degli scrittori della Calabria. E anche per questo desiderava non lasciar Roma, ma la volgare persecuzione non fu contenta che quando l’ebbe confinato a Messina, come direttore della segreteria di quella Università. Partì il 24 novembre: era triste, e solo si rallegrava al pensiero che sarebbe tornato a Roma nel gennaio, per cominciare le lezioni all’Università e congiungersi alla sua famiglia. Fatale, stranissima coincidenza davvero! In occasione del terremoto calabrese del 1907, il Mandalari scrisse nel Giornale d’Italia un articolo, che non si legge senza profonda commozione. Ha per titolo: La Calabria non muore: bellissima pagina di sentimentalità e di cultura storica, e che si chiude così:
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“Vittime e cadute irreparabili di monumenti e di glorie, in Calabria, sempre, quasi in ogni secolo, quasi in ogni periodo di storia. Lotta eterna de’ Bruzii con gli elementi naturali ed esterni, co’ Romani, co’ Greci, con gli Arabi, sino co’ Francesi, e, prima, con gli Spagnuoli, odiati da un filosofo, Tommaso Campanella. Di tanto in tanto ritrovamenti di oggetti antichi, di antiche iscrizioni, di pavimenti, di sculture greche, di mosaici. I vivi sono uccisi ed oppressi dai morti come nel verso di Eschilo. La terra inghiotte e conserva, ed ha in odio i viventi. E chi scrive, anche quando scrive, dopo aver meditato su quelle antiche glorie sepolte, non può rimanere indifferente alle presenti sventure. Persecuzioni eterne della natura e della storia! Più la civiltà incalza e sorge da tutte le parti, e più l’antico Bruzio rinasce, indomito e selvaggio. Nessuna regione italiana presente una serie più lunga di uomini di alto ingegno perseguitati e derisi e non veduti e non tenuti di conto. Basti citare Pomponio Leto, Parrasio, Campanella, Gravina, oggetto di sublime satira settaniana. Forse per tutte coteste ragioni Agostino Nifo volle essere Sessano, come nello stesso secolo XV, il Porcellio, nato in Napoli, disse d’esser nato in Roma!
“Ma con tutte coteste sventure la Calabria non muore!„
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Ed è morto lui, a soli cinquantasette anni, vittima del destino, nonchè di rancori e miserie morali, come i grandi calabresi ricordati nel suo ultimo articolo!...