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moto del 1857. In un volume di poesie stampato a Firenze nel 1876, dal signor Gualberto de Marzo si leggono versi rettorici dal titolo: il profeta su le rovine di Melfi. L’ultima strofetta di una canzone dice:

Gerusalem novella, alti i cipressi,
Vedrai tallir l’ortica
Su i ruderi muscosi, e l’impudica
Cagna raspar sovr’essi,
Se pietosa una man non ti conforti
E vigor umano alle tue membra apporti.

Non conosco il poeta, ma se la poesia fu scritta nel 1851, venne pubblicata, ripeto, nel 1876: cioè venticinque anni dopo il disastro, quando Melfi si era rifatta sulle sue rovine, da non più riconoscersi. Nel 1847 Cesare Malpica, ramingando per l’Italia meridionale, aveva improvvisato un inno al Vulture e a Melfi; e nel 1856 Emilia de Cesare cantò Melfi, le sue origini, le sue glorie storiche e il terremoto del 1851, con più felice ispirazione. Sarà bene ripodurre una sola di quelle ottave:

L’egra cittade ancor dalle ruine
Risorgerà, per opra dei suoi figli,
A nuova vita su le sue colline,
Dietro gl’infausti giorni ed i perigli;
Tutto s’innova e s’avvicenda alfine
Con lento moto nei terrestri esigli:
Il viver nostro sol qual fragil vetro
Muore in eterno, e più non torna indietro! 1

Nè mancarono altri poeti ed epigrafai in italiano e in latino e prosatori, come si è detto.


  1. La Lira Peuceta, Napoli, 1856.