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li per quattro famiglie povere; dispose di dividersi fra i cittadini del basso ceto le terre demaniali del Vulture; ma la costruzione delle baracche lasciò molto a desiderare. Mandò via l’intendente e il sottointendente incapaci, e li sostitui con altri più zelanti, e il 19 settembre lasciò Melfi, e per la via di Ascola tornò a Napoli. La breve dimora apportò del bene a quegl’infelici, e Melfi gli deve se restò sede del circondario e della diocesi; se ebbe una Cassa di prestanze agrarie e commerciali a favore anche dei Comuni del suo distretto, e fondata col danaro raccolto dalla pubblica sottoscrizione, e con quarantamila ducati largiti dal governo. Però, sia detto per la verità, non mancarono esempii di sperpero, di ruberie, d’insipienza, di superficialità e di profitti criminosi allora, e più tardi nei nuovi tempi. Il Del Zio scrive a questo proposito parole di fuoco. Ma trionfò su tutto la maschia energia delle genti lucane; e più la passione potente e misteriosa dell’uomo per il luogo dove nasce. Non erano ancora sgombere le macerie; nè ancora cessato il pauroso tremar della terra; nè distrutta la paura, che il Vulture coi suoi pretesi fuochi sotterranei minacciasse nuove rovine, che i cittadini di Melfi ripresero a fabbricare il focolare domestico, vicino al quale dormono da più di mezzo secolo tranquilli e relativamente sicuri. La città fu rinnovata, e del disastro del 14 agosto rimane la memoria nei libri e nella tradizione dell’arte. Nicola Palizzi dipinge on po’ accademicamente parecchie scene di quel terremoto; e vi è pure una tela assai caratteristica nel museo di San Martino, che rappresenta Fərdinando II fra la popolazione di Melfi. Devo una fotografia di questo ultimo quadro al mio carissimo Ireneo del Zio, fratello di Floriano e di Basilide: i tre Del Zio, che rappresentano a Melfi tutto un tesoro di cultura, di bonarietà e di semplicità. Essi perdettero in quel terremoto parenti e amici; il loro padre fu salvo, benchè gravemente ferito alla testa; Floriano era studente a Napoli; e Ireneo, piccino e alunno del Seminario, fu vivo per miracolo, secondo afferma egli stesso. La famiglia Aquilecchia, fra le più doviziose della città, mori quasi tutta.
Anche le muse sciolsero carmi per il terremoto di Melfi, ma nessuno di questi può paragonarsi, per altezza d’ispirazione e sincerità di sentimento, al salmo di Niccola Sole, scritto per il terre-