La cieca di Sorrento/Parte terza/VIII
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VIII.
il giornale di beatrice.
L’esistenza de’ ciechi non ha niente di comune con quella degli altri uomini; i rapporti esterni, i bisogni, i sentimenti ne diversificano, e tutto prende diverse proporzioni nel loro animo; la mancanza di un senso fisico di tanta importanza nella formazione delle idee sviluppa sommamente la sensitività di questi esseri inferiori e soggetti. La distanza pe’ ciechi è sempre problematica; lo spazio è sempre in essi effetto di calcolo meccanico. Gli è però quello che li circonda pel consueto debbe avere condizioni tutte particolari ed ordinamento simmetrico tale da non assoggettarli a continue aberrazioni e contrarietà. La camera di Beatrice era dunque un santuario, nel quale non era permesso a nessuno di entrare, sè non che al padre e a Geltrude. La ragione di questo provvedimento stava nella necessità di una immutabile disposizione delle masserizie di lei. Ogni oggetto, ogni mobile avea il suo sito particolare dal quale giammai non si partiva, tranne che ella medesima non ne avesse cangiato la disposizione. Un letto di ottone di gentil forma e di velati coltrinaggi era posto coi piedi volti verso la porta che corrispondeva alla camera assegnata a Gaetano. Alla dritta di questo, letto era situato un elegante forziere di mogano, e alla sinistra un deschetto da lavoro. Un camino all’inglese era posto dappresso al balcone, e presso al camino un allucidato mobile di palessandra, che serviva da scrivania e da farvi merenda. Quattro grandi pastorine componevano il resto del guarnimento di quella camera. Portiere di seta bianca dalle nappe a fili di argento cascavan divisate a bande su pe’ palchetti della porta d’ingresso e del balcone, a grandi comignoli in mezzo terminati in pine d’oro.
Era consuetudine di Beatrice gittare ogni sera in un quaderno di carta i pensieri, le impressioni, le ricordanze che ella avea premura di strappare al volubile soffio del tempo. Non è necessario far notare con quale paterna pazienza il marchese Rionero avea dovuto insegnare a scrivere alla diletta figliuola, e con quanta perspicacia la tapinella seguiva gl’insegnamenti del padre, il quale aveva fatto venirsi da Parigi un alfabeto a rilievo, affinchè sua figlia avesse appreso a conoscere la forma di ciascuna lettera. E in pochi anni Beatrice fu nello stato di scriver benissimo, benchè priva del piacere di rileggere quello che aveva scritto, tranne che non sel facesse leggere da Geltrude.
All’età di 16 anni ella avea cominciato il suo giornale e però un numero grandissimo di quelle pagine era già ripieno di caratteri. Impossibil sarebbe stato il diciferare i primi fogli di quell’opera singolare; imperocchè le righe di caratteri e le lettere di ciascuna parola si aggrovigliavano o comminavano a sghembo in tutt’i versi, ed alcune erano accavallate le une sulle altre. Ma l’assuefazione dello scrivere raddrizzò ben presto la mano della fanciulla, e le righe si andarono livellando a poco a poco, finchè di presente non si potea mica supporre essere scrittura di cieca quella che in simmetriche linee e con bel carattere copriva gli ultimi fogli scritti del giornale1.
Non possiamo tenerci dalla tentazione di dare a’ nostri lettori qualche passo di questa bizzarra miscellanea, ingenua creazione di un’anima vergine e solitaria. Sono pensieri staccati, ricordi gettati alla rinfusa, immagini tolte ad un universo nuovo per tutti gli altri, sentimenti malinconici e teneri, ispirazioni celesti ignote a sè medesime. Apriamo a caso il manoscritto, in diverse pagine, e alla rimescolata:
«Ne’ miei giorni di tristezza, quando mi è grave la stessa compagnia di Geltrude, quando mi pesa finanche il camminare nella mia camera, quando mi piglia la malinconia... e veggo sorgere... là... in fondo in fondo del mio cervello... pensieri opprimenti e tetri; ... allorchè queste tenebre che mi circondano mi pesano come un lenzuolo di morte; ... allorchè di ogni umano conforto è privo il mio cuore, ben sovente un semplice tocco fuggitivo della campana della contigua parrocchia, una sbadata oscillazione del sacro bronzo, sono bastanti a ridonarmi la tranquillità e la gioia. Ed un brivido mi prende di dolce ebbrezza, che per tutte le fibre mi scorre, una indicibile commozione che da’ morti occhi miei tragge una lagrima; imperocchè, in quel fremito vago, fantastico e lontano, io trovo un incanto solenne, come se Iddio medesimo parlasse in quel suono misterioso, volgendo i miei foschi pensieri alla religione e al cielo, donde essa emana.
«Il suono della campana è immenso e sublime come il pensiero, solenne come la tomba, vago come il cuore. Quando più taccion dintorno le voci degli uomini e più si agita l’anima sul suo letto di spine, lo squillo d’una campana che lento si avvoltola nelle aure, come le celesti e profonde melodie di un organo sotto la cupola di un tempio, parla all’animo ambasciato segrete parole di conforto.
«Una indefinibile simpatia esiste tra i sospiri del religioso bronzo, e le ricordanze dei giorni trascorsi. E chi non sa come dolce è l’ora delle rimembranze? Dov’è chi mai, tra i fuggevoli istanti di una tempestosa esistenza, non si fermò un’ora, a riandar col pensiero i primi suoi affetti... per una madre?...
«La campana è sublime nella solitudine della campagna, quando i suoi tocchi vaghi ed immensi si confondono co’ mille indistinti mormorii che escono dal fondo delle valli e delle acque; quando essi si accordano a que’ lagni incerti che nell’agonia del giorno volano sopra un’aura, una foglia, un profumo; e quando le sue sonore ondulazioni si perdono con la luce nell’immensità del cielo, come si perdono nell’uomo le gioie, le speranze, la giovinezza e la vita.
«Tutti dicono che io sono bella, che i miei capelli hanno un colore che chiamano dell’oro, che le mie labbra rassembrano a quel fiore che nomano la rosa... Dicono che io sono ricca, e che mio padre mi lascerà morendo beni e palazzi... e mi dimandano perchè sono sempre malinconica! Ed io rispondo: sarebbe ridente il cielo, come voi dite col sempiterno suo azzurro; sarebbero ridenti i colli smaltati di fiori, sarebbe ridente il mare senza la luce del sole?
«Oh quanto più avrei desiderato esser povera e brutta! Almeno sotto l’umil tugurio che mi avrebbe dato ricetto mi sarei trovata felice nel mio abbandono! La vita non mi avrebbe offerto, quasi per ischerno, le sue delizie, per darmi il rammarico di non poterle godere! Un lauto pranzo imbandito ad un infermo!
«Forse sarà per questa ragione che mi sorridono più le funebri idee... Trovo non so qual diletto nell’immergere il pensiero nella tomba! No... io non temo di morire. Io, che vivo nelle tenebre, perchè mai dovrei temere le tenebre della morte? Ma che dico! La morte che chiude gli occhi a tutti gli uomini, dischiuderà i miei... Dio stesso lo rivela al mio cuore... Non ha egli detto: La luce sarà fatta su i morti che muoiono nel mio nome? D’altra parte, io sento che sono un oggetto continuo di pietà e di dolore agli occhi di mio padre, che tanto mi ama! Oh se un giorno ei leggerà questo mio giornale, allora io più non sarò che un ricordo della sua mente... In quel giorno forse la luce si sarà fatta agli occhi miei!...
«Qual differenza tra la mia vita e quella delle altre donne! Nessuna di quelle illusioni che fanno palpitare il cuore alle altre è capace di commuovere il mio! Le feste di ballo, gli spettacoli, le brillanti passeggiate sotto le ombre di acacie, gli ornamenti di seta e d’oro, le allegre riunioni, le cene al raggio di luna, tutto ciò in me non ha incanto veruno! Povero essere eccezionale, io non sono invitata alle gioie del mondo! E rimango nel salotto di passaggio, mentre tante donzelle si affollano nei saloni ricolmi di luce, di splendore e di armonia!
«Oh quanto amo mio padre per non avermi giammai condotta in questi luoghi di piacere, nei quali mi sarei trovata come in un deserto infuocato... Quelle voci di letizia, quelle danze così inebbrianti, que’ suoni pregni di tanta dolcezza sarebbero stati per me simiglianti ai turbini dal vento delle terre di fuoco!
«Come ammiro, ed estimo la delicatezza del mio genitore nell’avermi allontanata dalla capitale, in cui troppo vicina sarei stata al rumore dei balli e dei divertimenti, ed esposta all’ironica compassione di donne altiere, che si sarebbero fatte un sollazzo di umiliare la figliuola del marchese Rionero!
«Come sembrar debbo stupida e fredda agli occhi degli uomini! I miei movimenti sono lenti, incerti, sospettosi, mentre le altre donne, alla mia età, si abbandonano a tutta la vivacità del loro carattere! Le mie frasi sono prive d’immagini, il mio volto privo di anima, e la mia anima priva di espressioni.
«Non so che sensazione dolorosa io provo quando sento ridere sganasciatamente! Non so persuadermi come sia facile il ridere! E il cav. Amedeo che ride... ride ad ogni insulsaggine insignificante! Oh come ciò irrita i miei nervi! Come mi darebbe volontà di piangere! Quando sento ridere in mia presenza, parmi che si rida sempre alle mie spalle e sul mio stato infelice!
«Com’è leggiero il carattere de’ chiaroveggenti! Come i loro nervi sono duri! Eglino si stordiscono, si ubbriacano di rumori e di movimenti...
«La prima volta che mi si parlò di un’arte che chiamano la pittura... ecco, per esempio, dissi tra me, qualche cosa ch’io non potrei far giammai... Mi dicevano che su quelle grandi tele che mio padre ha nel salotto buono erano figurati paesaggi magnifici e personaggi che han vivuto in altri tempi... Molte volte portai la mano su quelle tele, ed un giorno mi parve di ritrovare sotto le dita la testa di una donna, messa in una grande cornice, propriamente in mezzo al salone. Il cuore mi dicea che quella testa fosse di bella e giovin donna... io trovava un piacere indicibile nel passare la mia mano su quel volto fittizio. Un pensiero mi venne, che mi fece balzare il cuore dalla gioia! Fosse mai mia madre! esclamai, e mi posi a chiamare Geltrude con tutta la forza de’ miei polmoni... — Di chi è questo ritratto? chiesi con ansia a Geltrude. — Di Albina di Saintanges, di vostra madre, risposemi colei, ed io caddi in ginocchio, dirimpetto a quella tela, e detti un grido di gioia, e sentiva stemperarmi il cuore dalla tenerezza e dall’amore!..
«Da quel momento ogni mattina vado a baciar mia madre, ad accarezzarla, a dirle tante cose, a farle tante domande, alle quali ella risponde... poichè una misteriosa voce vien da quella tela... una voce che io sento nell’anima e che non passa per le mie orecchie... E mi rivela tanti misteri, e dice aspettarmi nel cielo dove ora ella si trova.
«Oh mi ricordo che un giorno, nel baciar quelle labbra, mi parve che ella mi avesse renduto il bacio!
«Era sicura di avermi formato una idea esattissima del volto di mia madre!..
«Vorrei formarmi una chiara idea di quel che chiamano il cielo. Mi ricordo che nella mia tenera fanciullezza, quando mi trovava fuori alla terrazza e alzava le pupille, mi vedeva sul capo una cosa intangibile, sottile, di bel colore, ma forse ora la mia fantasia m’inganna... Se potessi toccare il cielo con la mano, ne avrei un’immagine perfetta!2.
«La vista è per me un mistero. Non saprei crearmi altra idea della vista che paragonandola ad una specie di mano immensa, fantastica ed impalpabile come l’anima!
«La luce, i colori, le ombre sono per me parole senza significazione. Quando cerco comprendere i misteri della luce, m’ingolfo in assurdità ed errori: io ho bisogno della fede e della rivelazione per comprendere l’universo, siccome tutti gli uomini han bisogno della fede e della rivelazione per comprendere la vita avvenire e Io spirito della religione.
«A giusto rigore, dir si potrebbe che io non appartengo alla medesima specie umana alla quale appartengono gli altri... Un abisso, un baratro, mi divide dal resto dell’umanità, e questo baratro è un senso di meno! Ma pur la Provvidenza ha fatto sì che quel che mi manca sia in qualche modo sparso e compensato nella perfezione degli altri sensi!
«Su me non imperano le tristi passioni che hanno tanta potenza sull’uomo e sulla società. L’ambizione, l’avarizia, la vanità non albergano negli esseri della mia specie.»
E finalmente le ultime parole da lei scritte nel suo giornale erano le seguenti:
«L’idea del mio matrimonio mi spaventa... mi fa ribrezzo... Un marito è per me una specie di tiranno, di despota, che avrà su me l’impero che gli darà la forza della sua vista!
«... E quando penso a colui che sarà mio marito! Non so perchè quest’uomo mi desta diffidenza e terrore: sarà forse un sintoma della mia fisica debolezza... Ma sento che io non sarò felice quando sarò sua moglie.
«No... io non sarò felice col cav. Amedeo. Anche senza quello che mi ha detto il medico testè nella villa, io presentiva che quest’uomo ha un falso lignaggio; le sue parole non partono dal cuore... Il cav. Amedeo è un uomo finto; egli inganna forse mio padre... No, io non sarò felice con lui, ma ormai è troppo tardi!.. Mio padre ha promesso... ha data la sua parola... ed io sarò moglie del cav. Amedeo... Iddio mi assisterà... D’altra parte, sento che la mia vita non sarà lunga...»
Note
- ↑ A coloro che trovassero inverosimile questo giornale di Beatrice ricorderemo non soltanto Omero e Milton, ma benanche il Trattato della tranquillità dell’Anima scritto da Carlo Ferdinand, nativo di Bruges, poeta, musico, filosofo ed oratore, quantunque cieco fin dall’infanzia: fu professore di belle lettere in Parigi. Ricorderemo anche le opere del cieco Bonciaro, scrittore italiano del XVI secolo, che dal Fontanini venne chiamato il Cieco che vide molto; accenneremo lo scrittor Brandolini, anche cieco dall’infanzia, il quale in un sonetto indirizzato a Lorenzo de’ Medici dicea:
«Riguarda alla mia cicca adolescenza,
«Che in tenebrosa vita piango e scrivo,
«Com’uom, che per via luce l’abbandona. - ↑ Martino Chatelain, nato cieco a Warvich in Inghilterra nell’ultimo passato secolo, esimio lavoratore di strumenti musicali, dimandai un giorno che cosa desiderasse più di vedere: i colori, perchè conosco quasi ogni altra cosa al tatto... Ma, gli si replicò, non vorreste piuttosto vedere il cielo? No, soggiuns’egli, piuttosto vorrei toccarlo.