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la Bella selvaggia: spunti simili il Goldoni poteva anche attingere dall’edizione veneziana del Dictionnaire géographique del La Maitinière fatta dal Pasquali, o più semplicemente dal Grand Dictionnaire del Moreri, ristampato dal Pitteri e da altre compilazioni simili. Forse il Goldoni da vecchio si compiacque di attribuire autorità storica alla sua misera tragicommedia; ma è strano che nel raccontare brevemente l’azione si dimostri molto inesatto e dimentichi il personaggio principalissimo di don Alonso.

Vero è che oggi, chi abbia la pazienza di leggere la Bella selvaggia, è costretto a pensare alla famosa Alzira (1736) di Voltaire che nel Settecento fu voltata ben sette volte in italiano, e venti volte fu stampata tradotta, gareggiando di fortuna con la Zaira (v. Le traduzioni italiane del teatro tragico francese nei secoli XVII e XVIII, saggio bibliografico di Luigi Ferrari. Paris. Libr. Champion, 1925, pp. 13-24): recitata a Bologna da cavalieri e dame fin dal 1737, un anno dopo la stampa, nella splendida villa Ercolani alla Crocetta e nel ’63 nella deliziosa villa Camaldoli: recitata nel carnevale del ’38 a Venezia nel teatro di S. Samuele, e dai comici francesi nel 1780; e un po’ dappertutto nelle sale pubbliche e private: quell’Alzira in cui il terribile Voltaire celebrò il trionfo “del vero spirito religioso” come dice nella prefazione (e si deve intendere della religione cattolica) “sulle virtù di natura”: quella tragedia per noi così falsa e inverosimile, artificiosa e ingenua al tempo stesso, ma commovente fino alle lacrime nel Settecento e seducente ancora oggi, la quale termina con un verso che fu caro, certo, al Manzoni: “... Aux volontés d’un Dieu qui frappe et qui pardonne”. Ricordiamo che a Chateaubriand pareva un capolavoro e che lo stesso Guglielmo Schlegel, arcigno romantico, la lodò al di sopra della Zaira.

Ora anche il Goldoni dice nella prefazione di aver avuto un intento religioso (curiosa religione!); anche qui il contrasto fra i cristiani europei e gli americani idolatri (invece del Perù la Guajana; invece degli Spagnoli troviamo i Portoghesi); anche qui la stessa lotta d’amore (Deimira è Alzira, Zadir è Zamoro); anche qui la generosità di un governatore (don Alonso somiglia a don Alvarez) e la ribellione dei selvaggi. Ma la Bella selvaggia non soltanto rimane lontanissima dall’Alzira, ma deve porsi per originalità al di sotto della Sposa Persiana e delle due Ircane, anzi cede alla stessa Peruviana con la quale mostra qualche affinità, e si confonde con le misere produzioni dell’abate Chiari. Deimira è una “filosofessa” sul tipo delle donne che s’incontrano nel teatro e ne’ romanzi dell’abate bresciano, benché meno virile e furente; e forse quella pseudo-filosofia di cui l’autore si vanta nella lettera di dedica e nella prefazione, incusse rispetto ai Veneziani che non osarono maltrattare l’insulsa tragicommedia.

Convien tuttavia notare che il Goldoni, a differenza del Voltaire, celebra di nuovo in Deimira, come già nella Peruviana, le belle e semplici virtù di natura sognate dal Settecento e care ne’ suoi romanzi all’abate Prevost, prima che al Chiari (v. Schroeder, L’abbé Prevost, Paris, 1898, pp. 247 e agg.i). Che il Goldoni, scrivendo nel ’57, conoscesse le dottrine di Gian Giacomo Rousseau, come sembra affermare il Rabany (C. Goldoni, Paris, 18%, pag. 366), non si può ammettere: solo più tardi si ebbero nel teatro la Jeune Indienne (1764) di Chamfort, da lui ricordata, e il romanzo degli Incas (1778)