Atto I

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Personaggi Atto II
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ATTO PRIMO.

SCENA PRIMA.

Luogo campestre con colline.

Camur sedendo sopra un sasso, Zadir passeggiando e fremendo, ambidue in catene.

Camur. Zadir, tu smanii e fremi; chiaro da ciò si vede

Esserti grave il peso delle catene al piede.
Mirami lasso e stanco per l’età mia cadente,
Soffrir le mie sventure con alma indifferente.
Degli Europei siam servi, schiavi ci vuol la sorte;
Ma in servitude io serbo cuor generoso e forte.
Segui tu pur l’esempio. Ai rei conquistatori
Cela la tua viltade, nascondi i tuoi timori.
Veggano quei superbi che chiamanci selvaggi,
Che siam di lor più forti, che siam di lor più saggi.

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Zadir. No, Camur, le catene non fanno il mio tormento,

Non recami la morte un’ombra di spavento.
Duolmi del rio destino della mia patria oppressa;
Duolmi de’ cari amici, e di Delmira istessa.
Sventurata Delmira, da me sperata invano,
Che farà fra catene degl’inimici in mano?
Ahi che mi straccia il cuore l’amor, la gelosia.
Camur. Non temer di sua fede. Delmira è figlia mia.
Allor che i Portoghesi tratta me l’han dal fianco,
Vidi il suo cuor nel volto, cuor generoso e franco.
E a me gli occhi volgendo in quel fatal periglio,
Della maggior costanza mi assicurò il bel ciglio.
Zadir. Credi tu che una donna, men di noi salda e forte,
Abbia cuor di resistere alle lusinghe accorte,
E che la sua beltade rara in queste pendici
Accendere non vaglia il cuor degl’inimici?
Se le offriran quegli agi che fra di noi non spera,
Come potrà sdegnarli donna per uso altera?
Negli Europei non manca il perfido valore
D’avvelenar col labbro delle donzelle il cuore,
E della tua Delmira il cuor superbo, ardito,
Cederà della sorte al lusinghiero invito.
Camur. Ah se la figlia mia... nel ripensarlo io tremo;
Ma no, di sua costanza, del suo valor non temo.
Pronta sarà Delmira, per non vedermi esangue,
Prima dell’innocenza ad offerire il sangue.

SCENA II.

Papadir e detti.

Zadir. Ecco a noi Papadir.

Camur.   Sentiam quel ch’ei ci reca.
Cambierà la fortuna.
Zadir.   Ah la fortuna è cieca.

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Papadir. Amici, ho da recarvi buonissime novelle.

Pare che al cielo nostro si cangino le stelle.
Dei Portoghesi il cuore rassembra intenerito;
Pace le selve acclamano, pace rimbomba il lito.
Camur. Sia ringraziato il Cielo.
Zadir.   Di’, vedesti Delmira?
Papadir. Sì; Delmira è cagione, onde ammansata è l’ira.
Ringraziarla dobbiamo, che colla sua bellezza
Calmò negl’inimici lo sdegno e la fierezza.
Zadir. Ah Camur, non tel dissi? ecco la figlia ingrata,
All’amor nostro infida, del suo dover scordata.
Camur. Ah Papadir, che narri? La figlia mia nel core
Luogo può aver concesso a un disonesto amore?
Papadir. Questo dir non saprei; so che i due principali
Condottier delle navi sono per lei rivali.
L’uno Alonso si chiama, l’altro Ximene ha nome;
D’ambi il core han ferito quegli occhi e quelle chiome.
Vicino era a Delmira, allor che gli Europei
Lo stil dei lor paesi spiegavano con lei.
Il Brasil da gran tempo dai Portoghesi oppresso,
Usa (per quel ch’io sento) nostro linguaggio istesso;
Parlano francamente la lingua americana,
Qual noi che nati siamo nel sen deila Guajana.
Le donne infra di loro hanno parecchi onori,
Si stimano, s’apprezzano, son gl’idoli dei cuori;
Comandano talvolta, ed han perfino il vanto
Di trar dai loro amanti sulle pupille il pianto.
Non potei trattenermi di dire a quegli eroi,
Come diversamente si trattano da noi.
Dissi lor che le donne in queste selve ombrose
Sono schiave dell’uomo, soggette e rispettose.
Che qui tanto s’apprezzano, quanto la lor figura
Necessaria si rende al ben della natura.
E quando di soverchio1 donne fra noi son nate,

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A saziar la fame vengono destinate.

Ci chiamaro Antropofagi; lor sembrò cosa strana,
Ch’uomini si potessero cibar di carne umana.
Ci dissero selvaggi, ci dissero 2 spietati,
Barbari con noi stessi, e alla natura ingrati.
Camur. Non imbandir mie mense carni di mia famiglia.
Prima morrei di fame, che uccidere mia figlia.
Zadir. La beltà di Delmira dal ciel non fu creata
Per essere agl’ingordi da noi sagrificata.
Il docile costume, le amabili parole
Fan che da noi si veneri, come si adora il sole.
Papadir. Bene; quella bellezza che fra di noi si onora.
Dagli Europei nemici vien conosciuta ancora.
Zadir. Ah non fia ver che gli empi 3, avidi sol dell’oro,
Trionfino di questo sì amabile tesoro.
Aprano della terra le viscere feconde,
Spoglino le miniere dove più l’oro abbonde,
Portino ai regni loro le stolide ricchezze,
Anime sconsigliate alle rapine avvezze:
Ma quest’unico bene che rende altrui giocondo,
Non osino crudeli rapir dal nostro mondo.
Sì, Delmira è adorabile, l’amo più di me stesso.
La gelosia mi porta fino all’estremo eccesso.
Rapir se a noi la vogliono quei perfidi inumani.
Saprò Delmira istessa svenar colle mie mani.
Camur. No, non temer, son certo che la mia figlia ancora
Il genitor rispetta, il proprio sangue onora.
Serberà nei cimenti il cor saggio e pudico.
Chi viene a questa volta?
Zadir.   È il perfido nemico.

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SCENA III.

Don Alonso con seguito, e detti.

D. Alonso. Di pace, Americani, data abbiamo la fede.

Olà; quelle catene traggansi lor dal piede.
(i Soldati levano le catene a Camur e a Zadir
D’intorno a queste selve cessino l'armi ultrici.
Libertà vi si rende. Noi vi vogliamo amici.
Camur. Dell’amicizia offerta da te si chiede un segno.
Rendimi la mia figlia.
Zadir.   Rendi al mio cor il pegno.
D. Alonso. Chi è colei che chiedete?
Camur.   Delmira è il sangue mio.
Zadir. E del cor di Delmira il possessor son io.
D. Alonso. È tua sposa?
Zadir.   Che sposa? Fra noi straniero è il nome.
Legano i nostri cori begli occhi e belle chiome.
Quando in un cor si desta l’amor, la simpatia.
Basta che dica il labbro: questa donzella è mia.
Ella ricusa invano, femmina all’uom soggetta,
Cedere prontamente è al suo destin costretta.
E se un rivale ardito all'amator si oppone.
Dal sangue, dalla morte decisa è la tenzone.
D. Alonso. Barbara, cruda legge che la natura offende.
Che il cor delle donzelle tiranneggiar pretende.
Dimmi, quella bellezza che t’arde e t’innamora,
I coniugali amplessi ti ha conceduti ancora?
Zadir. No, sul momento istesso ch’io disvelai l’ardore.
Giunsero l’armi vostre, me la strappar dal core.
D. Alonso. Buon per lei, che innocente ancor sia riserbata.
Merta miglior fortuna quell’anima bennata.
Non s’usi violenza della donzella al core.
Libera, com’è nata, dee scegliere l’amore.
Ma consigliando il core della ragion col raggio,
Porgere non vedrassi la destra ad un selvaggio.

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Camur. Nè si vedrà mia figlia ardere a mio dispetto

Per gente sconosciuta di un vergognoso affetto.
Zadir. E quando ella cedesse alle lusinge ardita,
Vendicherò i miei torti a costo della vita.
D. Alonso. Le tue minacce insane, giovine sconsigliato.
Rendono il tuo furore ai benefizi ingrato.
Potrei col cenno mio farti veder qual sono,
Ma no, la libertade ti lascio, e ti perdono.
Alonso in me rispetta; Alonso è che t’insegna
La pietà, la virtude che fra di voi non regna.
Itene al destin vostro: tu per l’amabil figlia, (a Camur
Prossima a miglior sorte, puoi serenar le ciglia.
Tu scordati per sempre dell’amoroso impegno:
Uomo alle selve nato è di quel core indegno.
Camur. Tu che la terra e il cielo eternamente allumi,
Splendidissimo Sole, nume primier fra i numi,
Salva il cor della figlia da insidiose trame,
O tronchisi da morte di vita sua lo stame. parte
Zadir. (L’arte conosco indegna del seduttor audace;
Ma invano ei si lusinga ch’io lo sopporti in pace.
Il don di libertade questa mia destra accetta
Per far sull’inimico più barbara vendetta). parte

SCENA IV.

Don Alonso e Papadir4.

D. Alonso. Chi son que’ due selvaggi? (a Papadir

Papadir.   Il giovane è Zadir.
Camur chiamasi il vecchio.
D. Alonso.   Tu chi sei?
Papadir.   Papadir.
D. Alonso. Fra queste selve oscure qual è l’uffizio 5 vostro?
Papadir. Tutti un grado medesimo abbiam nel terren nostro.
Di provvida natura noi seguitiam la legge.

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Quel più fra noi si stima, che più fecondo ha il gregge.

Un arco, una faretra ci dà fra queste selve
Il nobile diletto di abbattere le belve.
L’ispida pelle irsuta che agli animai si toglie,
Suole nel crudo verno formar le nostre spoglie.
E delle membra loro insanguinate ancora
Dal cacciator contento la carne si divora.
L’erbe, i frutti, le piante son comuni fra noi.
La terra in ogni tempo feconda i semi suoi.
E a spegner della sete i consueti ardori,
Scaturiscon dal monte i cristallini umori.
D. Alonso. Delle passioni umane fra voi chi regge il freno?
Papadir. Ciascun regge se stesso colla ragion nel seno.
Questo lume supremo ci regola, e ci addita
Quel ch’è a noi necessario per conservarci in vita.
Noi veneriamo il Sole, perché di luce abbonda,
Perchè le terre nostre coi raggi suoi feconda.
Ma abbiam nell’alme nostre dalla ragione impresso,
Che il sol da un maggior nume sia regolato anch’esso.
D. Alonso. Sì, amico, il sol lucente, la terra, i frutti, e l’onde.
Le stelle, il firmamento hanno il principio altronde.
In voi regnò finora sol di natura il lume,
Or di natura istessa conoscerete il nume.
Opra di lui sublime è il sol che noi veggiamo.
Ma l’opera più bella delle sue man noi siamo.
E di ragione il raggio che in tutti noi si trova,
Questo nume immortale scopre, dimostra e prova.
Vanne alle tende nostre, ritroverai, lo spero,
Tal che virtù possiede di ammaestrar nel vero,
E il nostro a queste selve arrivo inaspettato
Sarà di provvidenza un lavor fortunato.
Papadir. Sconosciuto principio io mi sentiva interno,
Che ravvisar facevami l’alto potere eterno.
Vivere mi pareva nell’ignoranza oppresso,
Del mio destin mal pago, scontento di me stesso.

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Altri dell’armi vostre ebbero un reo spavento.

Io ne provai nell’alma insolito contento.
Ed arrivare io spero al lucido chiarore,
Che co’ suoi moti interni mi presagiva il cuore. parte

SCENA V.

Don Alonso, poi Delmira.

D. Alonso. Chiaro da ciò si vede, che con paterno zelo

Anche al cuor dei selvaggi sa favellar il Cielo;
Che di farsi conoscere provvidamente ha cura
Fra i miseri ignoranti l’autor della natura.
Or da nuovi dettami... Ma il piede ha qui rivolto
Colei che dolcemente porta le grazie in volto.
Cinta di vaghe spoglie l’amabile donzella,
L’aiutan quelle vesti a comparir più bella.
Delmira. Signor, del mio rispetto il primo segno è questo:
Ecco, per compiacervi, all’Europea mi vesto;
E vi confesso il vero, pronta lo feci, e lieta.
Cambiar non mi dispiacque l’ispida pelle in seta.
Anche fra noi le donne hanno la pompa in pregio;
Ogni dì si procura rinnovellare un fregio.
Tosto che in primavera spunta un fior dal terreno,
Si ornano le donzelle col fior novello il seno.
Se una candida belva dal cacciator si uccide,
Fra noi la vaga spoglia a gara si divide.
Chi se ne adorna il collo, chi se la cinge 6 al petto.
Chi d’arricchir procura la gonna ed il farsetto.
Chi lo fa per piacere dell’amatore agli occhi,
Chi per destare invidia negli animi più schiocchi.
Ciascuna infra le donne signoreggiar procura,
E studiasi coll’arte supplire alla natura.
D. Alonso. D’uopo voi non avete di accrescere coll’arte

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Quella beltà che il Cielo prodigo vi comparte.

Alle vesti pompose, onde adornata or siete,
Coi rai del vostro volto voi la beltà accrescete.
Scherzo fu di natura fra queste selve ombrose
Formar le vaghe luci amabili e vezzose;
Ma correggendo il fato della natura il danno,
I meritati onori vostre virtudi avranno.
Delmira. La virtude, signore, che infra di noi si apprezza,
Consiste nel costume di semplice schiettezza.
Migliore educazione noi non abbiam di questa;
Donna che sappia fingere, si abborre e si detesta.
Per noi se un amatore vuol discoprire il foco,
Cerca opportunamente7 al scoprimento il loco.
Da un sì che si pronunzia da noi con core aperto,
L’amante appassionato dell’amor nostro è certo;
E se un no francamente a lui si dice in faccia,
Invano si lusinga coll’arte o la minaccia.
Vi è fra le genti vostre talun che a mio dispetto
Pretende violentarmi a risentire affetto;
Merito intende farsi della pietade usata;
Vuol de’ suoi doni il prezzo; sento chiamarmi ingrata.
Come! la libertade resa ad una donzella
Dunque non è giustizia? Dono fra voi si appella?
Ma se le leggi vostre chiamano ciò un favore,
Libertà mi si dona per vincolarmi il core?
Aspre fur le catene, onde da pria fui cinta,
Ma più mi pesa il laccio che vuol quest’alma avvinta.
E se pagare io debbo col sagrifizio il dono.
Libera men di prima, più sfortunata io sono.
D. Alonso. Chi è colui ch«v’insulta?
Delmira.   Ximene.
D. Alonso.   Ah il mio pensiero
N’ebbe finor sospetto, e il mio sospetto è vero.
Vidi ai segni del volto, vidi quell’alma accesa.

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Nel mio poter fidate, non recherawvvi offésa.

Offerta al vostro piede la libertà primiera,
Sia giustizia, sia dono, darvi si deve intera.
Non è, non è Ximene, meco agli acquisti accinto,
L’arbitro delle prede; meco ba pugnato e vinto.
Ardo ve lo confesso, io pur per gli occhi vostri,
Ma vo’ che dal mio core rispetto a voi si mostri,
E se la sorte amica degno di voi mi rende,
Amor la sua mercede dal vostro labbro attende.
Delmira. Merta la bontà vostra che grata a voi mi renda,
Ma non vuole il destino che al vostro amor m’accenda.
Tal che Zadir si chiama, ebbe mia fede in dono.
Arbitra, lo vedete, più del mio cor non sono.
D. Alonso. E in poter di un selvaggio che la virtù non prezza,
Dovrà per mia sventura cader tanta bellezza?
Delmira. Qual dei nostri selvaggi rio concetto formate?
Non apprezzan virtude? Signor, voi v’ingannate.
Altre leggi, altri riti hanno i paesi estrani,
Ma la ragion per tutto regna nei cori umani;
E di onesto costume le massime onorate
Forse da noi selvaggi saran meglio osservate.
Quivi desio non sprona gli animi alle rapine,
A seminar non vassi le stragi e le rovine;
Ciascun del proprio stato si appaga e si contenta.
Suo ben coll’altrui danno di procacciar non tenta.
Ai miseri soccorso porgere a noi s’insegna.
Fra noi la data fede perpetuamente impegna.
E se virtù si chiama vivere vita onesta,
L’hanno i selvaggi in petto. La lor virtude è questa.
D. Alonso. Sì, la sua patria onora labbro prudente e vago.
Ma del vostro destino, Delmira, io non son pago.
Delmira. Se il mio destin vi piace di rendere migliore,
Fate che in libertade rivegga il genitore.
D. Alonso. Libero è già Camur. Fu dal mio labbro istesso
Tolta a lui la catena. Sciolto è Zadir anch’esso.

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Gl’inutili tesori sepolti in queste arene

Per ordine sovrano a procacciar si viene,
Non a spargere il sangue dei popoli selvaggi;
Non son gli animi nostri sì perfidi e malvaggi.
Della nostra amicizia il dubitar non giova;
S’io parlovi sincero, fatene voi la prova.
Grazia invan non si chieda dal labbro di Delmira:
Il mio cuor, la mia mano a soddisfarvi aspira.
Per voi, pel genitore, e per la patria istessa
Grazia da noi chiedete; grazia vi fia concessa.
Contro le genti nostre, se perdonvi il rispetto.
V’offro ragione io stesso, vendetta io vi prometto.
Solo in pro vostro, o cara, di contrastar m’impegno
Gli affetti di un selvaggio del vostro core indegno.
Vi amo, ma non per questo voglio nel vostro petto
Con minacce o lusinghe violentar l’affetto.
Libera altrui volgete del vostro ciglio i rai.
Siate di chi vi aggrada, ma di Zadir non mai. parte

SCENA VI.

Delmira sola.

Ma di Zadir non mai? Questo comando altero

È pietade, è amicizia, o orgoglioso impero?
Perchè no di Zadir, che la mia fede ha in pegno?
Perchè Zadir gli sembra della mia destra indegno?
Cuor mio, di’, che ti sembra del suo parlar sincero?
Parla in segreto il cuore, e mi risponde, è vero.
Zadir non mi dispiace, perchè selvaggio è nato,
Ma rozzo di costume mi sembra oltre l’usato.
Mi ama, è ver, ma d’affetto mai non mi diede un segno.
Sì, Zadir, lo confesso, è del mio cuore indegno.
Stelle! sarebbe mai l’avversion novella
Il piacer di sentirmi dagli Europei dir bella?

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No, no, che di Ximene odio gli affetti ancora:

Ma quando Alonso parla, m’incanta, m’innamora.
Dunque temer io posso non dei stranieri il volto,
Ma il poter che d’Alonso trovo nei labbri accolto.
Ah! l’onor mio m’insegna aver costante cura
Delle lusinghe a fronte non divenir spergiura.
Quella virtù vantata del Portoghese in faccia
Con taciti rimorsi mi sgrida e mi minaccia.
Perderei la mia stima di tutto il mondo innante
Per van desir mostrandomi di un’anima incostante.
Diedi a Zadir la fede; a lui darò la mano.
Nuove speranze ardite, voi mi parlate in vano.
E il popolo straniero che sol se stesso onora.
Vegga che virtù regna fra queste selve ancora, parte


Fine dell’Atto Primo.


Note

  1. Ed. Pitteri: sovverchio.
  2. Ed. Pitteri: disser.
  3. Ed. Pitteri: gl’empj.
  4. Nell’ed. Pitteri è qoi stampato: Pappadir.
  5. Ed. Pitteri: offizio.
  6. Nella ristampa di Torino (1775) e nell’ed. Zatta: cigne.
  7. Ed. Pittori: opportunemente.
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