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510 | ATTO PRIMO |
Non recami la morte un’ombra di spavento.
Duolmi del rio destino della mia patria oppressa;
Duolmi de’ cari amici, e di Delmira istessa.
Sventurata Delmira, da me sperata invano,
Che farà fra catene degl’inimici in mano?
Ahi che mi straccia il cuore l’amor, la gelosia.
Camur. Non temer di sua fede. Delmira è figlia mia.
Allor che i Portoghesi tratta me l’han dal fianco,
Vidi il suo cuor nel volto, cuor generoso e franco.
E a me gli occhi volgendo in quel fatal periglio,
Della maggior costanza mi assicurò il bel ciglio.
Zadir. Credi tu che una donna, men di noi salda e forte,
Abbia cuor di resistere alle lusinghe accorte,
E che la sua beltade rara in queste pendici
Accendere non vaglia il cuor degl’inimici?
Se le offriran quegli agi che fra di noi non spera,
Come potrà sdegnarli donna per uso altera?
Negli Europei non manca il perfido valore
D’avvelenar col labbro delle donzelle il cuore,
E della tua Delmira il cuor superbo, ardito,
Cederà della sorte al lusinghiero invito.
Camur. Ah se la figlia mia... nel ripensarlo io tremo;
Ma no, di sua costanza, del suo valor non temo.
Pronta sarà Delmira, per non vedermi esangue,
Pirma dell’innocenza ad offerire il sangue.
SCENA II.
Papadir e detti.
Camur. Sentiam quel ch’ei ci reca.
Cambierà la fortuna.
Zadir. Ah la fortuna è cieca.