La Visione di Pallade

Agostino Paradisi

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Questo testo fa parte della raccolta Poemetti italiani, vol. X


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LA VISIONE DI PALLADE


POEMETTO


DI


AGOSTINO PARADISI


Mentre da l’ali pallide scotea
L’umida notte i lievi fogni, e i vani
Fra ’l paventato orror dubbj fantasmi;
Del Rangonio Imeneo vigile i plausi
Io meditava ne’ sudati carmi:
Ma la tacente fantasia, discorde
Dal buon voler, sul lavor tardo indarno
Affaticava il desolato ingegno.
Quando improvviso per la chiusa cella
Splendor rifulse a me, che la pensosa
Anima scosse per le vie del guardo.
Volsimi, e quale ne gli sculti marmi
Di Policleto, e di Mirone, espressa
Pallade vidi ne le note forme.
Vidi la Dea: non qual da l’arduo cocchio
Con la minaccia, e col terrore al fianco,
Esulta fra le stragi, e con le torve

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Ciglia dipinte del color de l’ira
I costernati eserciti misura.
E benchè sovra l’egida pendesse
L’angui-crinita Gorgone, e la fronte
Velasse de la Diva elmo sublime,
Pur lungi dal suo volto era lo sdegno.
La destra man l’asta stringea: la manca
Serbava il ramo de la pianta amica,
Che per lei sorse dal percosso suolo,
E colmò di pacifiche speranze
L’origin prima de’ nascenti muri.
Ella ristette, e per la rosea guancia
Divinamente lampeggiò d’un riso,
E sul placido labbro a lei suonaro
Tai detti allor, che nel fedel pensiero
Ricordanza tenace imprime, e serba:
     O di celeste onor mortal degnato,
Onde a te venga, e qual mi sia comprendi.
Quella son io, per cui dovea più tardo
Scendere al suon de la sentenza iniqua
Il lusingato Giudice Troiano.
Fra gl’immortali Dei lieta, e superba
De la suprema origine paterna,
Son figlia a lui, che dal sereno Olimpo
Modera il fren de le soggette cose
Col sopraciglio, e le radici scuote
De l’ima terra col trisulco strale.

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Lungo i fonti di Pindo amo le cetre,
E co’ britanni numeri l’erranti
Vie de’ mondi volubili misuro.
Poi con più mite cura a l’arti belle
Volgo il sagace indagator pensiero.
Io talor chiusa entro l’etnea lorica
Tratto il brando tra i forti, e tutta pende
Dell’armi la mutabile fortuna
Nel favor del mio cenno. Il sanno i campi,
Ove fu Troia, e la Nettunia Rocca,
Che del serrato triplice recinto
Più non serba vestigio in su l’arena.
A me cara è la terra. A voi, mortali,
Sconosciuta discendo. Atene un giorno
Sentì ne’ figli suoi del mio favore
Non invano implorata aura felice
Destare i Geni de la bella lode
Per l’onorate vie d’util fatica.
Crebbe per me de la togata gente
Su i soggiogati popoli l’impero,
E il mio Palladio assicurò la sorte
De le mura di Remo, e di Quirino.
     Ma che non può d’instabili vicende
Ferace ognor la lunga età vetusta?
Cara or Modena è a me: sovente io poso
Sul terren fortunato il cocchio, e l’armi,
Di mirar vaga in sul gentil Panaro

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Rinati al novo secolo del prisco
Tebro, e d’Ilisso i redivivi esempi.
Ecco al fulgor de l’Atestina luce
Splendono tinti d’oro i dì felici,
E il gran Francesco, che le vie degli avi
Rapido segna di più belle prove,
L’arti a me care in miglior nido accoglie.
Ecco eleganti di Corinti fregi
Sorgono al cenno suo tetti regali;
Su le colonne doriche grandeggia
L’augusta pompa di marmoreo foro,
Ove fidata in suo poter s’affide
Fra i preparati ignivomi tormenti
La ragion de la pubblica difesa.
Già ne l’informe carrarese marmo
Spirano tarda vita i prischi eroi;
Già ridon su le tele i bei colori
Ne la misura armonica fra ’l vario
Di luce, e d’ombre degradar temprati:
Onde fra l’opre sue pende natura,
E fra il mentito Archetipo confusa.
     Ma non mai sul Panaro altra mi trasse
Cagion più bella, nè giammai più lieta
Di Giove il foglio, e la concessa fede
Abbandonai de le paterne mense.
Quel, che segnato in Adamante eterno,
Entro i decreti arcani il ciel volgea,

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Raro di questa età splendido evento,
Già maturato pel girar degli anni,
Or pien di largo adempimento esulta.
Il chiaro de’ Rangoni alto lignaggio
Che dal buon rivo de la greca fonte
Per la continua via limpido scende,
E cresce i fasti de l’avita lode,
Vivace per la postera memoria
Nel miglior germe de’ più tardi figli,
Per le conteste in cielo auree catene,
E per le faci, che d’eterea luce
L’almo figliuol d’Urania avviva, e nutre,
Si giunge al sangue, che del Mincio in riva,
Col mio favore, e col favor di Marte,
Lungo su i campi ocnei tenne l’impero.
Io, benchè schiva di quel dardo acerbo,
Onde percote i creduli mortali
Il mal vantato insultator de’ Numi,
Non mai d’amico talamo degnassi
Profano ardor di cupido marito,
Pur fausta splendo fra le tede illustri,
E di Filippo, e di Luigia i voti
Reco al trono di Giove, e poi di grata
Speme già pieni li ritorno in terra.
Io giuro, e l’onda i giuramenti accolga,
Che serbatrice de’ superni patti,
E riverita da gli Dei, si volve

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Fra i lenti solfi de la stigia riva;
Giuro, che i tardi secoli più bella
Per me vedranno rifiorir la pianta,
Che pe’ i germogli de l’annoso tronco
Da la caliginosa ombra de’ tempi
Signoreggiata da l’obblio tenace,
Porta a noi de’ magnanimi Rangoni
Il non mai stanco propagato onore.
     Se a te nascente io non negai la pura
Onda, che sgorga da l’aonio sasso
Fra l’ombre d’odoriferi mirteti;
Se le spirate idee con facil vena
Di non ingrato verseggiar pareggi:
Tu, che potesti al ricordevol petto
Fidar tesoro de le mie parole,
Tu le divulga, e ne’ sublimi carmi
Fa che ammirato se ne sparga il suono;
Suono immortal, che de’ fugaci venti
Non sarà sovra l’etra ingrato scherzo,
Nè temerà, che nel volubil corso
Seco alfin lo travolva entro i letei
Gorghi il torrente rapido degli anni.
     Così fermò la Diva, e a i sacri detti
Qui chiuse il labbro. E qual se d’Anfitrite
Pe’ i lati campi, fra le nere nubi
Adunatrici del mugghiante nembo,
Sublime luce folgoreggia, e svela

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Al nocchier stanco per la dubbia notte
Il vicin lido, e da le amiche mura
La sorgente sul porto aerea torre;
Poi si dilegua, e torna al primo orrore
L’umido cielo per la spenta fiamma:
Tale il fulgor de la divina immago
S’involò da le attonite pupille.