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teneva in braccio la Lena, che piangeva silenziosamente. Poco lungi, al posto dove c’era una volta la poltroncina di Matilde, una piccola culla di vimini accoglieva la neonata. Daria non abbandonava mai le due piccine; se le era adottate, le appartenevano di diritto per tutto ciò ch’ella aveva sofferto in quella famiglia e per ciò che alla famiglia ella aveva sacrificato.

Nell’attigua cucina si udiva il passo pesante di Rodolfo che risuonava sull’impiantito, misto alle esciamazioni prive di senso che uscivano spesso dalla sua bocca e a qualche bestemmia, scagliata contro una fatalità ignota della quale non faceva il nome.

A un tratto, l’uscio di fuori scricchiolò, e Daria sobbalzando lievemente e colorandosi in volto, salutò Ippolito che entrava.

In pochi mesi il giovine si era affatto mutato, come se una decina d’anni gli fosse passata sul capo imbiancandogli qua e là i capelli e rendendo ancor più grave l’espressione della sua fisionomia.

Incontrando gli occhi di Daria, egli sorrise, con un sorriso stanco, pieno di malinconia rassegnata.

— La piccina dorme? — domandò.

— Dorme.

— Ed egli è là? — soggiunse, accennando la cucina.