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208 capitolo ventiquattresimo


tecipa interamente a questo fine metafisico di trasfigurazione proprio dell’arte; ma che cosa mai esso trasfigura, quando presenta il mondo fenomenico sotto la figura dell’eroe che soffre? Trasfigura per lo meno la «realtà» del mondo fenomenico, giacché ci dice appunto: «Guardate! guardate a fondo! È questa la vostra vita! È questa la lancetta sull’orologio della vostra esistenza!».

Il mito, adunque, ci ha mostrato questa vita per trasfigurarcela agli occhi dell’anima? Ma se così non fosse, dove consisterebbe il godimento estetico, col quale noi assistiamo al passaggio di quelle immagini? Io mi occupo del godimento estetico, ma so bene, che molte di queste immagini possono, insieme, suscitare un diletto morale, sia sotto la forma della compassione, che di un trionfo della moralità. Chi però intendesse di derivare l’effetto del tragico esclusivamente da coteste fonti morali, come, a dire il vero, si è usato troppo a lungo nell’estetica, non dovrebbe però figurarsi di aver fatto, per questa via, qualcosa a vantaggio dell’arte: la quale invece esige soprattutto, nel suo dominio, la purezza assoluta. La prima esigenza imposta dalla spiegazione del mito tragico è precisamente quella di cercare il godimento che gli è proprio nella sfera puramente estetica, senza intrusioni ed usurpazioni nel campo della compassione, del terrore, del sublime morale. Come mai il brutto e il disarmonico, che è il contenuto del mito tragico, può suscitare un godimento estetico?