La Nascita della Tragedia/Capitolo VI
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Capitolo VI.
Quanto ad Archiloco, l’indagine erudita ha scoperto che egli indusse nella letteratura il canto popolare, e che questo fatto gli conferì nella universale estimazione dei greci l’onore di esser collocato accanto a Omero. Ma che cosa è mai il canto popolare in confronto dell’epos pienamente apollineo? Che cosa, se non il perpetuum vestigium di una unione del senso apollineo col dionisiaco? La sua enorme diffusione estesa in tutti i popoli e moltiplicata in nascite sempre nuove, ci attesta quanto sia forte cotesto duplice istinto della natura, il quale lascia le sue orme nel canto popolare nel modo medesimo come le emozioni orgiastiche di un popolo si perpetuano nella sua musica. Tanto è vero, che è dato dimostrare anche storicamente, come ogni periodo riccamente produttivo di canti popolari sia stato agitato nel modo più energico dalle correnti dionisiache, che dobbiamo sempre considerare quali sfondo e presupposto del cauto popolare.
Ma il canto popolare ha per noi l’immediato valore di uno specchio musicale del mondo, di una melodia primordiale che cerca poi la sua adeguata visione di un sogno, e la esprime nella poesia. La melodia è dunque il sentimento primo ed universale, che perciò comporta svariate obiettivazioni in testi svariati. E nella stima ingenua del popolo essa è anche la cosa di gran lunga più importante e più necessaria. La melodia genera dalla propria essenza la poesia e sempre di nuovo la rigenera; nulla altro ci dice la forma strofica del canto popolare; fenomeno che io ho guardato sempre con stupore, finché ne ho trovato, ora, la spiegazione. Chi considera alla luce di questa teoria una raccolta di canzoni popolari, per esempio quella del Knaben Wunderhorn, trova innumerevoli esempi di cotesto scintillio d’immagini sprizzato dalla inesauribile fecondità della melodia; immagini, che nel loro vertiginoso cangiamento, nel loro pazzo precipizio rivelano una potenza del tutto estranea alla visione epica e al suo tranquillo scorrimento. Cotesto ineguale e irregolare mondo fantastico della lirica è, sotto l’aspetto dell’epos, semplicemente da condannare; e questo hanno fatto certamente all’epoca di Terpandro i solenni rapsodi epici delle feste apollinee.
Nella poesia del canto popolare vediamo, dunque, che la lingua è tesa fino all’estremo nell’imitazione della musica; ragion per che principia con Archiloco un nuovo mondo poetico, che nelle sue più profonde radici contrasta con quello omerico. Abbiamo così determinato l’unico rapporto possibile tra la poesia e la musica, tra la parola e il suono: la parola, l’immagine, l’idea cerca un’espressione analoga alla musica e comporta in sé la potenza della musica. Nel qual senso ci è lecito distinguere nella storia linguistica del popolo greco due correnti principali, secondo che la lingua abbia imitato il mondo della visione e dell’immagine, oppure il mondo della musica. Per capire l’importanza di tale contrasto, si mediti profondamente sulla differenza linguistica del colore, della costruzione sintattica, dell’eloquio in Omero e in Pindaro: e ognuno toccherà con mano, che tra Omero e Pindaro doverono risuonare le modulazioni dei flauti orgiastici dell’Olimpo, che tuttora al tempo di Aristotele suscitavano, quando la musica si era infinitamente sviluppata, un entusiasmo ebbro, e con la loro efficacia originaria trascinavano certamente all’imitazione tutti i mezzi di espressione poetica dei contemporanei. Ricordo qui un noto fenomeno dei nostri giorni, che solo apparentemente urta contro la nostra estetica. Noi sperimentiamo ogni giorno, che una sinfonia di Beethoven induce i singoli ascoltatori a un linguaggio immaginoso, anche perché il raccostamento degli svariati mondi fantastici prodotti da un pezzo musicale si presenta fantasmagoricamente vario, anzi contraddittorio: è proprio di quella estetica da assidui ai concerti esercitare il loro povero spirito su tali composizioni, e sorvolare sul fenomeno che è effettivamente degno di spiegazione. Mi spiego. Quando lo stesso poeta dei suoni, lo stesso musicista ha parlato della sua composizione per immagini, quando cioè ha dato a una sua sinfonia la qualificazione di pastorale, a un suo pezzo quella di «Scena in riva a un ruscello», e a un altro quella di «Gaia comitiva di contadini», ebbene, coteste sono parimente nulla più che rappresentazioni allegoriche che sono nate dalla musica, e non già soggetti che la musica abbia imitati; rappresentazioni o idee, che non possono per nessun verso istruirci sul contenuto dionisiaco della musica, e che anzi non hanno nessun valore esclusivo accanto alle altre immagini. Cotesto processo di partenogenesi della musica partoriente immagini, noi dobbiamo ora trasportarlo in mezzo alla moltitudine di un popolo giovanilmente fresco, linguisticamente creativo, se vogliamo avere il presentimento del come nasce il canto popolare strofico, e del come tutta la potenza della lingua viene suscitata e spinta alla creazione dal nuovo principio dell’imitazione della musica.
Essendoci consentito, dunque, di riguardare la poesia lirica come una emanazione imitativa della musica irradiata in immagini e idee, possiamo ora domandarci: «in che modo appare la musica nello specchio dell’immaginativa e delle idee?» Essa appare come volontà, intesa la parola nel senso schopenhaueriano, cioè come l’opposto della disposizione estetica puramente intuitiva e scevra di volontà. E qui occorre distinguere, più nettamente che è possibile, il concetto dell’essenza da quello del fenomeno o apparenza; giacché la musica, secondo la sua essenza, non può essere volontà, altrimenti come tale bisognerebbe affatto scacciarla dal campo dell’arte, per la ragione che la volontà per sé stessa è del tutto anestetica: essa, bensì, appare come volontà. Infatti, per esprimere in immagini la sua apparenza, il lirico ha bisogno di tutti i modi della passione, dal susurro dell’inclinazione fino al livore maniaco: stimolato dall’istinto di tradurre la musica in simboli apollinei, egli sente tutta la natura, e sé stesso nella natura, unicamente come volere, desiderio, anelito eterni. Ma in quanto interpetra la musica in immagini, egli stesso riposa tranquillo nel calmo oceano della contemplazione apollinea, e non importa che intorno a lui tutto ciò che contempla attraverso il medium della musica, si agita e turbina a tempesta. Anzi, se attraverso cotale medium guarda sé stesso, la sua stessa immagine gli si palesa in preda allo scontento: il suo stesso volere, anelare, sospirare, giubilare è per lui un simbolo, col quale egli si spiega la musica. Tale è il fenomeno del lirico: come genio apollineo egli interpetra la musica attraverso l’immagine della volontà, mentre egli stesso, completamente immune dallo stimolo insaziabile della volontà, è un occhio pieno di sole, puro e imperturbato.
Tutta questa disamina mette in sodo, che la lirica tanto dipende dallo spirito della musica, quanto invece la musica, nella sua completa illimitatezza, non ha bisogno d’immagine e d’idea, ma solamente la comporta accanto a sé. La poesia del lirico non può dire ciò che già nella sua più portentosa universalità ed efficienza non sia contenuto nella musica, che appunto ha costretto il lirico a esprimersi per immagini. Precisamente per ciò la simbolica universale della musica non si può minimamente esaurire con la parola, perché essa risale simbolicamente al contrasto e al dolore primordiali nel cuore dell’uno primigenio, in modo che simboleggia una sfera che è collocata al disopra di ogni apparenza, e che precede ogni apparenza. Anzi rispetto ad essa ogni apparenza è puramente un simbolo; e perciò la parola, come organo e simbolo delle parvenze, non possiede mai e in nessun modo la virtù di rendere all’esterno la più profonda intimità della musica, ma, ogniqualvolta trascorre all’imitazione della musica, rimane sempre nei limiti di un contatto esteriore con essa, laddove il senso profondo della musica non può esserci avvicinato di un sol passo nemmeno da tutta quanta l’eloquenza lirica.