La Lontananza (Di Costanzo)

Angelo Di Costanzo

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Questo testo fa parte della raccolta Poemetti italiani, vol. XII


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LA LONTANANZA

POEMETTO

DI

ANGELO DI COSTANZO

NAPOLITANO


     Quel giorno, che sarà (mentre ch’io viva)
Alla memoria mia sempre molesto;
Che dovendo lasciar l’amata riva,
Mi stava di me stesso in dubbio e mesto,
Poichè l’ora veloce, e fuggitiva
Fe’ il punto del partir giunger sì presto,
Mi volsi a i cari avventurosi colli
Co’ gli occhi di dolor bagnati e molli.

     E dissi, o fortunato almo soggiorno,
Ecco, ch’io parto, e che ti lascio il core,
Che partir non si può dal viso adorno,
Nel qual del mio morir trionfa Amore:
Resta felice, e in te perpetuo giorno
Faccia quel chiaro angelico splendore,
Che con la luce, ond’oggi il ciel mi priva,
È stato infin a qui cagion ch’io viva.

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     Selva che al trar de’ miei sospiri ardenti
Veduto hai spesso in te muover le piante,
Come al soffiar de’ più rabbiosi venti
Che Tramontana mai spiri, o Levante:
Valle sol testimon de’ miei lamenti,
Ov’io seguendo le vestigia sante
Di quella, che i dolci occhi al cor m’ha fissi
Con refrigerio in mezzo al foco vissi.

     Piano gentil, che ancor riserbi impresse
L’orme, che in te stampai sempre mirando
Il fido albergo, il quale il cielo elesse
Per quella, per cui or vo’ sospirando;
Torre donde parea vedermi spesse
Venir saette all’alma folgorando,
Se mai del mio martir vi calse, o cale,
Deh restate a veder qual è il mio male.

     E tu fiume gentil, nelle cui sponde
Tante volte d’amor piansi, e cantai,
Narra col mormorar delle chiar’onde
Il duro mio partire, ovunque andrai:
E se pria Morte queste membra asconde
Che tornar possa a rivederti mai,
Serba vivo il mio nome in questa terra
Ove pace trovai d’ogni mia guerra,

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     Tal che dopo mill’anni ancor si dica,
Questo è ’l fiume che tanto a Lidio piacque,
Quinci e’ giva a veder la sua nemica,
Che per sua pena eterna al mondo nacque;
Qui qualche volta ebbe fortuna amica,
Qui spesso col suo pianto accrebbe l’acque,
Qui gli venne talor lo spirto meno
Mirando il Sol de’ begli occhi sereno.

     Così nelle tue rive erbette, e fiori
Possan d’ogni stagion freschi trovarsi,
E ne’ tuoi dolci e limpidi liquori
Venga l’alma mia Dea sempre a specchiarsi;
E ti gradisca in sì sublimi onori,
Che debba al nome tuo sempre inchinarsi
Quel ch’ha sepolto chi mal resse il lume
Re degli altri superbo altiero fiume.

     Così detto, dolente il cammin tolsi,
Ove mia forte ria mi conducea;
Ahi quante volte indietro mi rivolsi
Guardando al bel terren, che s’ascondea
Agl’occhi miei, ahi quante volte volsi
Tornarmi, e quante volte mi dicea
La ragione, infelice a che più guardi
Giungendo legne al foco, ove tutt’ardi?

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     Con tutto ciò gli occhi ostinati, e intenti
Non si potean distor dal caro nido;
Ma sendo tanto innanzi i piè già lenti
Spinti, che in tutto sparve il tetto fido,
Trasser di pianto duo rivi correnti
Dal cor, che alzò fin alle stelle un grido,
Ch’animi non fur mai tanto perversi,
Che non facesse per pietà dolersi.

     Io n’andava tra i miei doglioso, e muto,
Com’uom ch’al collo abbia la corda avvinta,
E per gran doglia debol divenuto
Muover paso non può senza una spinta;
Nè sperando da parte alcuna ajuto
Porta la Morte sul viso dipinta;
Tal era a riguardar la mia figura
Pur giunto al fin de la giornata oscura.

     Mi gittai stanco, e solo il cibo mio
Fur lacrime, sospir, voci, e lamenti:
Ricorsi al sonno, che con grato oblio
Porgesse qualche tregua a’ miei tormenti;
Ma ’l ritrovai contrario al mio desio,
Che mandò in vece sua pensier pungenti,
Che mi facean parere inferno il tetto,
E duro campo di battaglia il letto.

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     Talchè senza aspettar che l’alma Aurora
Scacciasse l’ombre col suo chiaro raggio,
Dell’inquieto albergo uscendo fuora
A seguir cominciai l’aspro viaggio,
Sperando di trovar per strada allora
Genti nemiche, e pronte a farmi oltraggio,
Tant’avea di morir bramosa voglia;
Che ben muor chi morendo esce di doglia.

     Ma ’l ciel che lungamente ha destinato
Ch’io viva, e che mi sia pena la vita,
Mi fe’ trovar sicura in ogni lato
La via più volte già da me smarrita;
Solo il duro pensier contra me armato
Sempre allargando già l’aspra ferita,
Con ridurmi a la mente in ogni parte
Quant’aria dal bel viso mi diparte.

     In molti giorni alfin io giunsi al loco
Ov’or mi trovo mesto e doloroso
Versando umor dagl’occhi, e dal cor foco
Senza mai ritrovar tregua, o riposo.
Qui mille volte il dì la Morte invoco
Che sola mi può far lieto, e gioioso,
Guidando l’alma ov’è chi meglio ascolta,
E da’ lacci d’amor leggiera e sciolta.

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     Ma perch’ella non viene a chi col core
La chiama, a mio malgrado io vivo resto.
Spirto gentil, a cui del mio dolore
L’aspro suon ascoltar non è molesto,
Ti giuro per l’immenso, e fiero ardore,
Che va di me già consumando il resto;
Che la vita crudel ch’io qui trapasso
Avria virtù di far pianger un sasso.

     S’io odo alcun felice e lieto amante
Narrar gioioso i suoi tranquilli ardori,
E quante volte del suo amor costante
Raccoglie frutti, non pur fronde e fiori,
Dico d’invidia colmo in quell’istante
In voi spiega fortuna i suoi favori,
Sol io lungi al mio ben qui mi disfaccio,
E nulla stringo, e tutto il mondo abbraccio.

Se (come avvien) mai veggio andar donzelle
Per la cittade il dì liete vagando,
Benchè molte ne fian leggiadre e belle
Atte a furare i cor sol rimirando,
Biasmo il mio crudo fato, e l’empie stelle,
E tra me stesso dico sospirando
Tanto avanzano ogn’altro i dolor miei,
Quanto ciascuna è men bella di lei.

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     O se con esse i vaghi amanti a schiera
In lieta pompa, e ’n veste allegre adorni
Veggio andarsen per piaggia o per riviera,
Par che pensier con la memoria torni
Al dolce tempo, e brieve primavera
Della mia vita, e ai sereni giorni
Ch’ir la vedea per quella amena riva
Or in forma di Ninfa, or d’altra Diva.

     Talor s’io per fuggir altri, e me stesso.
Fuggo dalla cittade e dalla gente,
E ricerco alcun bosco ombroso e spesso,
Sperando d’acquetar ivi la mente;
Quando m’avviene che ritrovi in esso
Giovene pianta in bel luogo eminente,
Nella tenera scorza intaglio fuore
Il nome, che nel cor mi ferisse Amore.

     E talor dico con fuon tristo, e basso,
Cresci, e porta nel ciel pianta felice
Il sacro nome, che in te scritto lasso,
Poichè più celebrarlo a me non lice
Con l’ingegno si stanco, afflitto, e lasso,
A cui l’usata vena il ciel disdice;
Ond’ho messo in silenzio il dolce canto,
E la citara mia rivolta in pianto.

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     E tienti altiera ch’in te l’abbia inciso,
Che scritto il puoi tener tu nella scorza,
Se Amor, che m’ha d’ogni mio ben diviso
L’ha scritto nel mio core, e s’ei mi sforza,
Ed ha già spento in me ’l piacer e’l riso,
In te non userà così sua forza,
Ma ti farà d’ogni altra assai più verde,
Che per fredda stagion foglia non perde.

     Così credo che forse in più di cento
Arbori viva il suo bel nome adorno,
E benchè brieve, pur refugio sento
Quando a veder alcun di lor ritorno
Ch’un non so che, che tempri il mio tormento
Mi par vedere a quelle note intorno;
Per tutto questo il cor non si conforta,
Che al gran dolor la medicina è corta.

     E se per confortar gl’occhi dolenti
Gli volgo in qualche verde e lieto prato,
Secche l’erbette, e scoloriti e spenti
Mi par veder i fior per ogni lato.
Talor in qualche valle i miei lamenti
Sfogo, com’in prigion chiuso e ferrato
Gridando, o valli più di queste amene
Voi possedete, ed io piango il mio bene.

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     Se volar veggio in quelle parti augello
Dico, ben liberal ti fu natura,
Che col volar da questo bosco a quello
Potrai ’n breve arrivar presso alle mura,
Ov’è quel viso graziofo e bello
Che m’ha fatto cangiar stato, e figura;
Felice augello quanta invidia t’aggio,
Che non possa cangiar teco viaggio.

     Se talor fento andar fremendo i venti,
O l’aria giù mandar pioggia di gelo
Dico, chi sa se i bei occhi fulgenti
Ora si stan sott’un leggiadro velo
Da la finestra a riguardare intenti
La neve, che nel pian cade dal cielo?
Perchè non veggion me, ch’ardo ed agghiaccio
Ed invisibilmente mi disfaccio.

     Quando il Sol si sommerge in occidente
E’l ciel si copre d’umide tenebre,
E la notte agli augelli, ed alla gente
Serra col grato sonno le palpebre;
Sol io più dell’usato allor dolente
Crescer mi fento l’amorosa febre,
E finchè ’l giorno e ’l Sole a noi non riede,
Pascola con sospir, ch’altro non chiede,

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     Talvolta m’ergo a riguardar la Luna,
E dico, o lume bel, ch’orni e rischiari
Co’ tuoi fulgenti rai la notte bruna,
Mira in che stato, e ’n che tormenti amari
Mutate ha la crudel empia fortuna
Le mie notti gioiose, e i giorni chiari,
E voi lumi altri che ’l gran cerchio ornate,
Di me vi caglia, e vincavi pietate.

     E se sapete che sia fisso in cielo,
Che vedermi giammai più non debbiate
Gir pien di dolce e dilettoso zelo
Per quelle avventurose alme contrate;
E ch’io non sol cangiar qui debba il pelo,
Ma lasciarvi ancor l’ossa travagliate;
Per temprar così acerba e dura forte
Pregate non mi sia più sorda Morte.

     Poi se la vista mia del pianto stanca
Per refrigerio al fido specchio corre,
Subito allor divien pallida e bianca
La faccia, che veder se stessa abborre,
E dico meco, omai che ’l pel s’imbianca
Miser convien la speme in altro porre,
E di rivolger queste voglie accese
Ad altra vita, ed a più belle imprese.

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     Vedi la fronte già lieta e serena,
Ch’esser folea di viril grazia ornata,
Come gli affanni l’han di rughe piena,
E da quel ch’era pria tutta cangiata;
Il sangue che solea per ogni vena
Dar nell’aspetto un’apparenza grata,
E quel vigor che vivo ti mostrava
In nessun lato è più là dove stava.

     Gli occhi ch’aveano in se qualche splendore,
E sapean dimostrar tue voglie ardenti,
Vedi come del duol e dall’umore
Restan di luce quasi privi e spenti;
Vedi ch’è già passato in te quel fiore
Dell’età più gentil, grato alle genti,
E portato n’ha seco il riso e ’l canto,
Ma lasciato t’han ben la pena e ’l pianto.

     Almen quella leggiadra alma gentile
Ti potesse or mirar sì trasformato;
Ch’essendo ella da se cortese, umile
Più che conviensi al suo felice stato,
Cangierà del rigor l’impresso stile,
Omai stimando ogni fallir purgato:
Queste cose tra me vo’ ragionando,
E così spendo il tempo lagrimando.