La Dama della Regina/II
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II.
La mattina seguente, dopo una notte agitata, donna Anna Maria ritornò al pensiero dominante: dove si trovava il suo Aurelio?... sarebbe riuscita a saperlo quel giorno? avrebbe nuove di lui? oppure doveva essere quella una altra giornata d’angoscia?... Si vestì in fretta e com’era suo costume, s’inginocchiò sul classico inginocchiatoio di legno intagliato, ai piedi di una immagine della Madonna, di scuola veneziana, dagli occhi dolci e dal volto soave.
Recitò le sue preci con sincero fervore, elevando il cuore afflitto a quella madre ideale che tante madri terrene hanno invocato ed invocano nelle ore di pena.
Mentre ella così pregava, gli abitanti della cittaduzza che già si trovavano per le vie osservavano con molta curiosità ravvicinarsi di un cavaliere e di una amazzone.
I pescatori che accomodavano le reti e quelli che s’avviavano al mare; gli agricoltori già in via verso i campi, non pochi con l’asinello, ospite famigliare, e specialmente le donne affaccendate nella pulizia mattutina, tutti s’interrogavano a vicenda:
— Chi saranno questi signori che arrivano a quest’ora? Forestieri?
— Francesi?..
— ... o calati dai monti?
— Forse signori scappati da Verona per paura dei massacri minacciati dal Buonaparte?
I ragazzi, sentendo le loro madri occupate d’altro che di loro, ne approfittavano per correre alia spiaggia a giocare nell’acqua e nel fango. Altri, più grandicelli e curiosi, correvano incontro ai signori. Quando questi giunsero sulla piazza, una vecchietta li salutò.
— Bene arrivato, illustrissimo.
— Buon giorno, Margherita. Sapete come sta la mia mamma?
— La contessa sta bene, grazie al Signore, ma è un po’ inquieta per lei, illustrissimo. Ora sarà contenta.
I ragazzi che avevano visto e compreso ritornavano alle loro madri gridando:
— È arrivato il conte Castellani.
— Ah! è il conte! — esclamavano le donne.
— Chi ci doveva pensare vedendolo con una dama? Non s’è mai sentito che abbia preso moglie.
— Sarà la sua promessa sposa.
— Impossibile — osservò il maniscalco Folli che era un popolano istruito. — Una damigella d’alto bordo non viaggia sola col promesso sposo.
— Sarà una vedova — replicò quello che aveva arrischiata l’ipotesi.
Risero, e andarono incontro al signore per dargli il ben venuto e sbirciare la dama resa quasi invisibile da un manto e da un fitto velo. Ora i cavalli andavano al passo e il conte potè rispondere cortesemente ai saluti dei suoi concittadini, e buttare qualche moneta ai monelli.
Giunto che fu al limitare della sua casa, fece ancora un cenno di saluto e sparì con la dama: un palafreniere che aveva aperto il portone ai signori, si affrettò a chiuderlo.
— Bella donna quella! — esclamò un marinaro disoccupato.
— E il conte com’è sempre bello, sempre giovine — diceva una donnetta che era la domestica del capitano Gori. — Ha trentaquattro anni, io l’ho visto bambino; e pare coetaneo del cavalier Ettore Almerighi, il cugino del mio padrone, che ne ha soli venticinque.
— Il cavalier Ettore è più bello — sentenziò la figliola del Folli. — Il conte ha preso il bruno del sole d’Africa.
— Non fa niente il bruno — osservò un’altra. — Anzi gli sta bene con quegli occhi così vivi e la bocca fresca: io lo trovo più simpatico dell’Almerighi, più grazioso, più alla mano.
La ragazza Folli ribattè in favore del cavalier Ettore e la disputa continuò, finchè il maniscalco seccato saltò fuori della sua fucina e le rimbrottò tutte con pungenti parole. La Maria Folli mogia mogia seguì il genitore e le altre si dispersero.
In casa Castellani intanto, il domestico introduceva il conte e la sua compagna nella sala da pranzo, dove donna Anna Maria stava prendendo il cioccolato. Risonò allora un sì alto grido di gioia che l’udirono fin nella strada.
— Oh! Aurelio!
— Oh! mamma!..
Il viso innondato da copiose e gioconde lagrime, la madre si strinse al cuore il figlio, balbettando quelle frasi scucite che sono la più alta espressione del tumulto interno. La forestiera attendeva in disparte.
— Mamma — disse finalmente il giovine quando gli parve che sua madre fosse in grado d’ascoltarlo — mamma, ti presento una nostra ospite che ti sarò certamente gradita.
Donna Anna Maria indietreggiò stupefatta.
— Oh! Signora — esclamò facendosi premurosamente incontro alla sconosciuta. — Perdoni ad una madre troppo commossa, se ho mancato al dovere di venirle incontro subito. Non l’avevo neppur veduta, non vedevo che lui! Mi perdoni e sia la benvenuta nella mia casa.
La forestiera che intanto si era alzato il velo, scoprendo un volto fresco e attraente, s’inchinò e rispose cortesi parole nella sua lingua.
— È francese? Forse emigrata?...
La dama affermò.
— Oh! come sono lieta di accoglierla nella mia casa... Nelle mie braccia se permette...
La giovine comprese e con amabile slancio si gittò al petto della nobile ospite, pensando forse alla madre sua morta da tanti anni, e appena conosciuta.
— Mi chiamo Blanche — disse.
Aurelio completò:
— .... figlia del marchese, di Verdier, vedova del cavaliere Armando de Clarance che fu tra le prime vittime della rivoluzione...
— Vedova! — esclamò la contessa. — Così giovine!... Povera figliola!....
La dama fu pregata di accomodarsi, e la contessa la circondò di tutte le cure. Intanto la cameriera le apparecchiava la più bella camera con finestre sul mare e sul giardino. Il domestico portò due tazze di cioccolato. Bianca parlò un poco con la contessa tra francese e italiano. Ma Aurelio avvertì presto sua madre che la dama non aveva chiuso occhio in tutta la notte e doveva avere un gran bisogno di riposo. La contessa s’affrettò ad accompagnare l’ospite nella camera a lei assegnata e ritornò al figlio. E i baci, gli abbracci, le lagrime di gioia ricominciarono. Sfilarono poi le interminabili interrogazioni. Donna Anna Maria voleva sapere tante cose. E Aurelio raccontava. Sì: era stato in varie città di «terraferma» dopo il suo ritorno dall’Egitto; ed anche in altre città d’Italia: a Milano, a Pavia, ma per poco; poi, quasi sempre a Venezia e ultimamente a Verona.
— A Verona! Ecco, io lo temevo. Qui si diceva che il Buonaparte aveva minacciato di incendiare Verona, ed io pensavo che tu forse eri là.
— Povera mamma. Oh! è stato un panico orribile. Non ti puoi figurare lo stato di quella povera gente.... Bisognava vedere le famiglie in fuga, le povere famiglie senza denari che avevano caricati i loro stracci sui carretti a mano che trascinavano da sò: le donne con bambini in collo, i fanciulli laceri.... E anche le famiglie benestanti si trovavano in pessime condizioni. Ciechi di terrore non hanno visto altra salvezza che la fuga. Alcuni hanno abbandonato casa e averi, paghi di salvare la vita, figurandosi che i francesi dovessero sterminarli.
— E come finirà?
— Chi può sapere? I poveri intanto torneranno indietro presto, se non vogliono morir di farne sulla strada o per le campagne: gli altri, più tardi. Poi, Buonaparte s’impadronirà di tutto. A Venezia considerano già le città di terraferma come perdute: non pensano che a difender la Dominante, l’Estuario e le provincie d’oltre mare che siamo noi e la Dalmazia... se possono.
— Con chi hai parlato?...
— Un po’ con tutti; col nostro parente Giovanni Resta che mi ospitava e che mi ha tanto detto di salutarti; con quell’eccellente cavalier Francesco Pesaro, quel coraggioso che voleva assolutamente che la nostra Repubblica si armasse: neutrale, ma armata; neutrale ma forte e pronta alla difesa, egli la voleva... Inutile!.. Non l’hanno ascoltato. E prevalse il volere degli illusi.... o per meglio dire dei traditori, delle canaglie che hanno illuso i deboli.... troppo deboli!....
«Ma lasciamo andare ora questi discorsi.... Ci si avvelena l’anima inutilmente. Anche Verona si poteva difendere.... se tu sapessi....
— Lo so, lo so: hanno mandato via le truppe di presidio.... Foscarini....
— Oh! lascialo stare quel disgraziato. Poveraccio ha avuto torto, ma forse non è tutto suo il torto; forse non poteva fare diversamente con le pressioni del governo che gli raccomandava per carità di non irritare Buonaparte, di cedere.... capisci?.... di cedere...Oh! mamma, mamma, parliamo d’altro...
Egli appariva straordinariamente commosso: si sentiva la tempesta che gli gonfiava il petto. Vi fu un silenzio. Donna Anna Maria si asciugò gli occhi.
— Povera Venezia — mormorò. — Povera la nostra Repubblica, dopo tanti secoli di gloria!
Poi, per cambiare discorso e stornare dalla mente del figliuolo i desolati pensieri, gli narrò la scena drammatica avvenuta in mare la sera innanzi.
Aurelio ascoltava con un mezzo sorriso e gli occhi gli brillavano.
— Dunque tu hai avuto paura che foss’io in quella barca?... E chi sa quanto hai pianto e pregato?....
— Già, ti vedevo da per tutto e l’arciprete mi canzonava, lui, coraggioso!
— E poi, si sono salvati, eh, quelli della barca?... Ma non ne avete saputo nulla?
— Nulla! E mi piacerebbe tanto di sapere.... Aurelio sorrise: tacque alcuni istanti, poi esclamò:
— Ebbene sappi.... ero proprio io...
— Tu?!! Oh! figlio mio in quale pericolo ti sei trovato!....
E scoppiò in un pianto dirotto.
— Oh! mamma, perchè piangi adesso?
Non sono qui con te?.... Dovresti consolarti che mi sono salvato, e invece piangi!
Le cinse il collo col braccio, le asciugò le lagrime, baciandola e accarezzandola come una bambina. Poi si mise a scherzare per farla sorridere.
— Oh, che cattiva mamma, piange quando il suo figliuolo si è salvato!...
Ella si rasserenò a poco a poco.
— E la signora che era nella barca?
— Bianca de Clarance.....
— La nostra ospite.... E perchè a un certo punto faceva atto di gettarsi in mare?
— Perchè aveva compreso che il corsaro mirava a lei: voleva impadronirsi di lei: e, naturalmente, preferiva morire. Forse anche pensava che, morta lei, il ladrone avrebbe cessato d’inseguirmi.
La contessa vinta dalla commozione restò alcuni istanti in silenzio; poscia riprese le interrogazioni:
— E tu cosa avresti fatto se ella riesciva a buttarsi in mare?
— Oh mamma! lascia andare.... Parliamo d’altro.
— Ti saresti buttato in mare tu pure?....
— Certo, per tentar di salvarla....
— .... O morire con lei?
E dopo alcuni minuti di silenzio e di riflessione:
— Tu l’ami già tanto?
Sul nobile viso leggermente abbronzato del giovine gentiluomo salì una fiamma.
— Credo di no. E non c’era bisogno che l’amassi per morire con lei se non riescivo a salvarla. Pensa, l’hanno raccomandata a me, il nostro parente e il cavalier Francesco Pesaro a nome pure di altre nobili persone.... dell’ambasciatore russo.... del Doge stesso. Ti pare che io potessi ripresentarmi mai più davanti a tali persone se ella fosse morta.... mentre era con me? Ma non parliamo più di questo. I pericoli passati bisogna dimenticarli.
— Tu puoi dimenticarli.... Io non dimenticherò mai di averti quasi perduto..... Basta... hai ragione. Parliamo d’altro. Raccontami la storia di questa giovine con la quale dovrò convivere.
— Posso dirti quel poco che ne so; ripeterti, cioè, quello che mi raccontò il procurator Pesaro. A sedici anni Bianca entrò alla corte di Francia in qualità di damigella d’onore di Maria Antonietta, quando i tempi volgevano già assai torbidi: poco dopo, suo padre, il marchese di Verdier le fece sposare il cavalier Clarance che per l’età poteva esserle nonno: uomo amabile, però, a quanto dicono: dall’aspetto simpatico e ancora seducente. Sembra che la giovanotta l’abbia sposato volentieri. Comunque sia non ebbe tempo di stancarsene, poichè come già ti ho detto, egli fu trucidato circa un anno dopo le nozze. Quando i reali furono incarcerati, la signora de Clarance si trovò abbandonata, poichè suo padre era lontano con quelli che già preparavano la contro rivoluzione.
Una cameriera la protesse e la fece fuggire. Andò in Savoia col fratello del re, il conte di Provenza; al seguito di questo principe ella passò in Piemonte; e quindi a Verona quando il principe fu costretto a chiedere un asilo alla nostra Repubblica. Il resto è storia di ieri. Il Direttorio e Buonaparte, inventarono che, ospitando il principe, Venezia mancava ai doveri della neutralità... Ma tu devi aver sentito parlare di tali avvenimenti.
— Altrochè! Tutt’i giorni, figliolo mio. E che dispute tra i nostri amici vecchi e giovani. Mio fratello e Marco Apolonio non finiscono più; e gli altri non scherzano. Oh! ci ho il mio bel da fare a metter pace.
Il conte sorrise.
— Allora tu sai che il conte di Provenza — che si faceva chiamare conte di Lille ufficialmente, e nella sua corte, dopo la morte del delfino, Luigi XVIII — partì irritato, lasciando parte de’ suoi fedeli a Verona. Così la nostra ospite si trovò un’altra volta sola e abbandonata. Senonchè il principe la raccomandò all’ambasciatore russo e questi ai suoi amici di Venezia. Nostro cugino Giovanni che ha conoscenti e amici da per tutto le aveva trovato asilo in Verona presso una nobile famiglia. Ella poteva rimanervi fino a che si trovasse modo di riunirla alla casa del principe. Quanto al marchese di Verdier, suo padre, non c’è da farne conto finchè dura la guerra in Brettagna e in Vandea. I fatti recenti e il panico dei veronesi cambiarono le cose. Giovanni era inquieto: voleva andare a Verona egli stesso, ma alla sua età e in tali momenti era una cosa diffìcile: la sua famiglia protestava. Allora io mi offersi. Al momento pareva che io dovessi condurla a Venezia in casa di Giovanni. Capii subito che neppure questo piaceva alla famiglia. Dicevano che a Venezia ci sono tante spie, che l’avrebbero riconosciuta, che potevano avere dispiaceri gravi... insomma.... cosa vuoi che ti dica.... sono tutti.... impastati di paura.... È una pietà. Io pensai a te, mamma, alla tua anima generosa... e dissi: «Se volete, la conduco a casa mia». Fu un sollievo per tutti. Il cugino mi ringraziò calorosamente; mi presentò all’ambasciatore russo e al cavalier Pesaro dal quale ebbi tutte le informazioni necessarie. A Verona trovai la signora nella casa designata, sola, con una vecchia serva, tutti erano fuggiti: ella era rimasta, sicura che i suoi amici di Venezia avrebbero mandato qualcuno per condurla via: non poteva ammettere che l’abbandonassero in quel frangente. Appena mi vide, prima che io le mostrassi la lettera di presentazione, mi guardò negli occhi e mi disse sorridendo: «Vi manda il signor Giovanni Resta, o il cavalier Pesaro» e mi porse la mano. Venne subito con me senza la minima diffidenza, chiamandomi soavemente il suo salvatore. Non fu facile il viaggio: tutte le vetture erano accaparrate. Abbiamo viaggiato un po’ a piedi, portando io la sua valigia, un po’ con un carro di contadini. Giunti al mare non vi erano barche. Il capitano di una nave mercantile, al quale avevo reso qualche servizio in Alessandria, acconsentì a prestarmi quella vecchia scialuppa e un suo marinaio.... Il resto ti è noto.
— E la notte dove l’avete passata? Come vi siete salvati dalla burrasca, che già minacciava quando siete scomparsi dai nostri occhi?
— Quando abbiamo visto che il corsaro non c’inseguiva piò, abbiamo preso il vento che ci portava verso la «Lanterna» di Salvore e siamo entrati nel porto prima che scoppiasse il temporale. Là, in fondo al porto, la costa forma una sporgenza alta, sopra una piccola insenatura. Siamo riesciti a metterci là a riparo dall’acqua. Vi siamo rimasti fino a mezzanotte; la signora sotto al boccaporto, noi, sotto ai nostri cappotti. Una caligine densa copriva il cielo e il mare: la «Lanterna» si rispecchiava nelle acque nere, debolmente, come un lumino. Il buon marinaro cantò romanze e canzoni e l’immancabile «Erminia» del Tasso; ma bene, con una bella voce, quasi commovente in quell’ora. A mezzanotte apparve la luna, ritornò il sereno. Mi congedai dal marinaro. Mi arrampicai con la signora su per la costa, mentre la barchetta ripigliava il suo viaggio per tornare a Grado. La signora, da vera brettone, camminava su per le roccie più presto di me; fermandosi solo di tratto in tratto per contemplare il paesaggio, illuminato dalla luna, e dalla «Lanterna». Povero piccolo faro, l’ho riveduto con una certa commozione dopo tanti anni!...
«Batteva un’ora, non so a quale chiesa lontana, quando bussai alla porta di Anselmo Crosich che s’è fabbricato una casetta tra gli sterpi, assai più bella dell’antica. Egli m’accolse a braccia aperte. La signora ebbe una camera per cambiarsi d’abiti e riposare: io avevo portato sempre la sua valigia. Ma non si coricò. Appena cambiata si mise alla finestra a guardare il mare che non aveva più riveduto dacchè lasciò la Brettagna, lo mi asciugai al camino dove Anseimo aveva acceso un bel fuoco che mi fece un gran piacere perchè avevo freddo come d’inverno. Forse avrei dormito se fossi rimasto solo, ma Anseimo non si saziava di discorrere e di farmi discorrere. Capirai, dopo tanto tempo.... Quando fu giorno, si fece una buona colazione e finalmente egli ordinò di sellare per noi i due cavalli che ha sempre nella sua scuderia, e dopo un mondo di saluti e raccomandazioni di andarlo a trovare, i cavalli già impazienti presero il trotto. Ma che brutte strade abbiamo qui, cara mamma! Bisognerà pur pensare una volta di migliorarle. Se ci si mettesse d’accordo tutti noi possidenti..
— Oh! — esclamò donna Anna Maria. — Metterci d’accordo per lavori in comune? Ciò non accadrà mai.......