La Costa d'Avorio/30. Le stragi della festa dei costumi

30. Le stragi della festa dei costumi

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30. Le stragi della festa dei costumi
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Capitolo XXX

Le stragi della «festa dei costumi»


Quella notte i due europei ed i loro uomini, non furono capaci di chiudere gli occhi un solo momento.

Bande di soldati giungevano ad ogni istante sulla vasta piazza, spingendosi innanzi, fra grida, minacce e bastonate, gli schiavi destinati ai sacrifici orrendi dell’indomani e facendo salve a polvere per annunciare agli spiriti irritati dei monarchi, che Geletè si preparava a mantenere la promessa.

Dietro ai soldati venivano turbe di negri accorsi da tutti i vicini villaggi, per prendere parte alla distribuzione di vesti e di liquori che suole fare la corte reale in quelle atroci circostanze.

Quei negri chiassosi, già mezzi ebbri di birra di sorgo, si accalcavano dinanzi alle due enormi piattaforme che sorgevano ai due lati della porta principale del palazzo del re, onde essere i primi a decapitare le sciagurate vittime che dovevano essere gettate sulla piazza.

Prima della mezzanotte fra soldati, amazzoni e abitanti vi erano almeno ventimila persone stipate sulla piazza, in attesa dello spuntare del sole, momento indicato pel principio delle esecuzioni pubbliche.

Diciamo pubbliche, poichè nel palazzo reale dovevano essere già cominciate quelle private che si fanno ordinariamente di notte. Infatti, fra tutti quei clamori, dalle numerose finestre dell’enorme palazzo, di quando in quando uscivano delle urla acute, strazianti, che facevano fremere di sdegno Alfredo e andare in furia l’ottimo portoghese, il quale si sfogava distribuendo legnate all’impazzata ai negri che si pigiavano contro le pareti della capanna. [p. 218 modifica]

— Stupidi!... — gridava il brav’uomo, dimenticandosi di dover fingersi muto. — Scannano i vostri fratelli e voi applaudite!... Meritereste la forca degli schiavi, canaglie!... —

Fortunatamente la sua voce veniva coperta da quei clamori sempre più assordanti e ben poco facevano caso a lui. Tutt’al più si tiravano da una parte guardando, con stupore, quell’indemoniato che picchiava con un vigore non comune e con un’abbondanza straordinaria.

Alfredo, suo malgrado, dovette intervenire per frenare il bollente amico, temendo che nei dintorni della capanna si aggirasse qualche spia del re incaricata di sorvegliare il contegno degli ambasciatori.

Quando l’alba spuntò, la vasta piazza era completamente stipata. Una moltitudine di braccia armate di coltellacci, i quali dovevano servire per decapitare le povere vittime della superstizione, si agitava burrascosamente.

Quei negri sanguinari chiedevano, con urla formidabili, con scoppi di veri ruggiti, il principio delle esecuzioni.

— Morte di tutti i pianeti!... — esclamò Antao, che dall’alto d’una cassa, spingeva gli sguardi su quelle masse tumultuanti. — Ma questi non sono esseri umani, sono dei leoni in furore assetati di sangue!... Ci vorrebbe qui il mio amico Consheiloz con la sua batteria di cannoni per mitragliare a dovere questi negracci. Ma dov’è quel gaglioffo di Geletè, il gran beccaio ed i suoi aiutanti?...

— Comparirà presto, — rispose Alfredo che si teneva al suo fianco. — Vedo che le amazzoni si sono disposte in forma d’immenso triangolo dinanzi al palazzo e ciò indica che Geletè sta per venire.

— E noi, rimarremo qui?...

— Verranno ad offrirci un posto d’onore.

— Io lo rifiuterò, non posso assistere tranquillo a questi massacri.

— Ti guarderai bene dal rifiutare un invito del re, Antao. Una risposta negativa o scortese, equivarrebbe alla perdita della nostra vita.

— Siamo ambasciatori.

— Ma nelle mani del più feroce e del meno scrupoloso dei monarchi africani. Guarda!...

— Cosa vedi?... [p. 219 modifica]

— Un drappello d’amazzoni guidato da un corriere del re, che si avanza verso la capanna.

— Vengono a prenderci?

— Sì, Antao.

— E dovremo accettare l’invito!

— È necessario, Antao, — rispose Alfredo, con voce grave.

— E Kalani?...

— Spero che non ci riconoscerà.

— Lo troveremo presso Geletè?...

— Lo temo. Hai le pistole?

— Le ho nascoste sotto la giacca.

— Sii pronto a tutto: stiamo per giuocare una carta terribile.

— Morte di Nettuno!...

— Sii calmo, amico.

— Lo sarò, te lo prometto, Alfredo.

— Te lo domando pel mio Bruno, — disse il cacciatore, con voce commossa.

Il portoghese gli prese la destra e gliela strinse in silenzio.

In quel momento il corriere del re e le amazzoni erano giunti dinanzi alla capanna. Come Alfredo aveva previsto, venivano ad invitare i principi del Borgu, in nome del re, affinchè assistessero alla grande cerimonia in onore dei defunti monarchi del Dahomey.

Ad un cenno del cacciatore, Urada e Gamani aprirono i due grandi ombrelli, mentre i due dahomeni si collocavano dietro ai due ambasciatori portando in ispalla i fucili, ma col calcio in aria e la bocca verso terra.

Le amazzoni formarono un cerchio attorno a loro e l’ambasciata attraversò la piazza lentamente, aprendosi faticosamente il passo fra la folla che si accalcava sul suo passaggio.

Giunta dinanzi ad una delle due grandi piattaforme, il corriere del re condusse Alfredo ed il seguito sulla più elevata, facendoli accomodare su di alcuni scanni che erano coperti di pelli di leone, poi si coricò dinanzi a loro come per far comprendere alla folla che quelle persone erano sotto la protezione del potente e temuto monarca.

Intorno ai due ambasciatori ed ai loro servi si erano intanto seduti, ma ad una certa distanza, i grandi dignitari del regno, cabeceri insigniti di una, due, tre e perfino quattro code di cavallo, gran moci e comandanti di truppe. [p. 220 modifica]

Alfredo ed il portoghese avevano gettato un rapido sguardo su tutti quei negri impettiti e orgogliosi, che si pavoneggiavano nelle loro larghe e variopinte vesti ricamate d’oro, credendo di scorgere fra di loro Kalani, ma non lo videro.

— Meglio così, — disse Alfredo a voce bassa, rivolgendosi ad Antao.

— Che sia col re? — chiese questi.

— Lo credo.

— Allora ci sarà lontano.

— Lo vedremo sull’altra piattaforma. Il posto del re è là, poichè vedo che stanno aprendo il grande parasole reale.

— È una vera cupola; i nostri fanno una ben meschina figura nel paragone. —

Alcuni cabeceri, aiutati da una mezza dozzina di negri, avevano portato l’ombrello reale e l’avevano aperto per riparare dagli ardenti raggi del sole S. M. negra.

Era di dimensioni veramente gigantesche, di stoffa rossa con frange bianche e su di un lato si vedeva dipinto un mostruoso coccodrillo colle mascelle aperte, lo stemma della casa reale del Dahomey.

Quasi subito i clamori della folla si spensero ed un silenzio profondo, che aveva un non so che di pauroso, successe come per incanto.

— Cosa sta per succedere? — chiese Antao ad Alfredo.

— Sta per comparire il re, — rispose il cacciatore.

— Il gran macellaio!...

— Taci, imprudente. —

Una porta aperta nella grossa parete della cinta e che comunicava colla piattaforma, si era aperta e S. M. negra era comparsa, seguìta da una dozzina di cabeceri e di gran moci e da uno stuolo di stregoni e di guardiani dei templi, recanti i feticci prediletti di Geletè, dei mostri di creta dorata che avevano le bocche aperte, dei serpenti pure di creta dorata di dimensioni enormi e certi fantocci che volevano rassomigliare ad esseri umani, ma che invece del capo avevano dei becchi d’uccelli di rapina.

Il feroce monarca aveva il viso quasi interamente nascosto da una specie di turbante di seta verde ricamata in oro ed il corpo avvolto in un ampio mantello di seta bianca, stretto alla cintura da una fascia di lamine d’oro. [p. 221 modifica]

Si tenne un momento ritto in mezzo alla piattaforma, guardando la folla che stipava la piazza, poi si sedette su di un gran seggiolone coperto da un arazzo giallo, mentre ai suoi piedi si sdraiava, su di un cuscino, Behanzin, il futuro re del Dahomey ed anche l’ultimo.

Ad un tratto Alfredo, che teneva gli sguardi fissi sul palco reale, strinse fortemente un braccio d’Antao.

— Cos’hai? — gli chiese il portoghese, stupito.

— Guardalo!...

— Chi?... Il re?...

— No, Kalani! — rispose Alfredo coi denti stretti.

Un negro d’alta statura, coperto da un ampio mantello di cotone bianco adorno di serpentelli dipinti in rosso e col capo irto di penne d’uccelli di rapina, si era avanzato fino all’orlo della piattaforma.

Era un uomo dai lineamenti arditi, dallo sguardo vivo, penetrante, intelligente e dalla carnagione assai cupa. Si capiva anche a prima vista che non apparteneva alla razza dahomena, ma si capiva pure che quel negro doveva possedere una energia ben superiore ai suoi snervati compatrioti delle regioni del sud.

La sua voce, potente come quella d’un leone, echeggiò nella vasta piazza, dominando il fracasso della banda reale e le grida degli ahpolos celebranti le truci imprese del sanguinario monarca.

Kalani invitava i capi tribù ed i capi dei salam, ossia dei quartieri delle varie città del Dahomey, a deporre ai piedi del re il dono cui erano obbligati ad offrire in segno di sudditanza.

Tosto Alfredo ed Antao, dal loro elevato posto, videro avanzarsi attraverso la piazza, strisciando nella polvere come tanti serpenti, oltre cento negri, ognuno dei quali portava seco un sacchetto di tela contenente il dono.

Salirono, sempre strisciando e tenendo la testa china al suolo, come se fosse loro vietato di guardare in viso il monarca, le gradinate della vasta piattaforma e andarono a deporre le offerte dinanzi al trono, ritirandosi poi dietro ai cabeceri, ai moci ed ai guardiani del tempio.

Kalani aveva ripresa la parola, rivolgendosi alla popolazione ed alle amazzoni schierate dinanzi alle due piattaforme. Parlava con aria di ispirato, cogli sguardi fissi sul sole che allora si mostrava, in tutto il suo splendore, sugli ultimi altipiani. [p. 222 modifica]Avvertiva gli abitanti del Dahomey delle lagnanze dei defunti monarchi per la scarsità dei sacrifici umani, delle loro tremende minacce di mandare a soqquadro il regno e della decisione presa dal potentissimo Geletè di raddoppiare il numero delle vittime onde calmare gli sdegni dei fondatori della dinastia, e quindi la necessità d’intraprendere altre guerre coi popoli vicini per avere un gran numero di prigionieri da macellare. Terminò promettendo, in nome del re, una grande spedizione guerresca nei paesi dei Krepi e dei Togo e contro gli Jesa di Ckiadan, da intraprendersi dopo i raccolti.

Poco dopo, mentre il sanguinario capo dei sacerdoti si rinvigoriva lo stomaco tracannando una mezza bottiglia di ginepro, datagli dal re, le amazzoni allargavano le loro file per lasciare uno spazio sufficiente alle esecuzioni.

Venti schiavi, tutti uomini, colla testa adorna di penne d’uccelli e le braccia e le gambe coperte da numerosissimi anelli di rame, furono condotti sulla piazza. Quei disgraziati erano tutti capi di tribù, fatti prigionieri un mese innanzi al di là del Mono. Parevano rassegnati al loro triste destino, poichè non opponevano alcuna resistenza ai soldati che li spingevano verso la piattaforma reale, anzi mostravano una calma ammirabile.

Quei venti capi erano destinati a recarsi dai defunti monarchi del Dahomey per avvertirli, che d’ora innanzi, Geletè avrebbe meglio osservate le feste dei grandi costumi e che avrebbe sacrificato un maggior numero di vittime.

Prima che se ne andassero all’altro mondo a trovare i defunti, il re ordinò che si rinvigorissero con un bicchiere di ginepro e che si consegnasse loro una fila di cauris (circa lire 2,50) per provvedersi di che mangiare lungo il viaggio ed una bottiglia di rhum di tratta per dissetarsi, poi fece cenno al carnefice di cominciare le esecuzioni.

Fu l’affare di pochi istanti. Il gran giustiziere del re, un negro gigantesco che doveva essere dotato d’una forza prodigiosa, in pochi istanti, colla sua larga e affilatissima sciabola, aveva fatto cadere al suolo le venti teste.

Antao, nauseato, aveva fatto atto d’alzarsi per prorompere forse in invettive contro il sanguinario re, a rischio di compromettere la propria vita e quella dei compagni, ma Alfredo, con un gesto imperioso, l’aveva costretto a riprendere subito il suo posto. [p. 223 modifica]

— Un gesto solo basta per perderci tutti, — gli mormorò all’orecchio. — Se vuoi farci assassinare, alzati e parla.

— Non commetterò mai simile imprudenza, Alfredo, — rispose il portoghese, — ma queste atroci esecuzioni mi fanno diventare idrofobo.

— E credi che io sia tranquillo?... Darei dieci anni di vita per balzare alla gola di Geletè e di quella canaglia di Kalani. Queste scene mi fanno orrore, eppure sono costretto a frenarmi per salvare la nostra vita e quella del piccolo Bruno.

— Non mi muoverò, Alfredo. —

Intanto i sacrifici in grande erano cominciati dinanzi alla piattaforma reale.

Dopo la decapitazione di quei venti capi, erano stati sacrificati sessanta buoi, dodici cavalli ed un coccodrillo, poi una banda di sessanta negri fra uomini e donne.

Il sangue che usciva da quell’ammasso di corpi, scorreva per la piazza, arrossando i piedi di quelle migliaia di spettatori mentre un odore nauseante si espandeva in aria, quell’acre odore che si sente nei macelli.

Il popolaccio ed i soldati applaudivano freneticamente l’abilità del gigantesco carnefice e guazzavano in mezzo a quel sangue come se fossero diventati tigri. Con urla spaventevoli reclamavano nuovi sacrifici per placare gli spiriti irritati dei defunti monarchi.

Geletè non si faceva pregare. Ad un suo ordine nuove truppe di schiavi terrorizzati venivano spinti, a legnate, a pugni, e calci, in mezzo al vasto triangolo formato dalle amazzoni e nuove teste rotolavano a destra ed a manca.

Al grande giustiziere del re si erano uniti altri due carnefici e le pesanti ed affilate lame cadevano senza misericordia, mietendo le file di quei disgraziati prigionieri di guerra, mentre altri, forse gli aiutanti, raccoglievano le teste formando ai due lati della piattaforma due orribili piramidi.

Ad un tratto si fece un profondo silenzio. Sulla cima delle muraglie del palazzo reale erano saliti dei robusti soldati portando delle grandi ceste, specie di panieri che avevano una sola apertura dalla quale si vedeva uscire una testa umana.

In ognuna di quelle ceste era stato rinchiuso un povero negro, destinato a soddisfare le brame sanguinarie del popolo.

— Gran Dio!... — esclamò Antao, inorridito. — Cosa sta per succedere?... [p. 224 modifica]

— Il re sta per lanciare i suoi regali al popolaccio, — rispose Alfredo.

— Dei regali viventi che quelle canaglie si affretteranno a fare a brani.

— A decapitare, Antao, poichè ogni testa si può cambiare con una bottiglia di rhum o di ginepro e una fila di cauris. Sarà l’ultimo sacrificio per oggi. —

I soldati intanto avevano deposti sul margine del muraglione quelle cinquanta o sessanta ceste. Le vittime che vi stavano rinchiuse dimenavano disperatamente la testa e mandavano urla di terrore, ma si trovavano nell’assoluta impossibilità di reagire, avendo le braccia e le gambe strettamente imprigionate.

Ad un cenno di Kalani tutti quei panieri furono precipitati nel vuoto, schiacciandosi contro le pietre della piazza. Allora accadde una scena mostruosa. La folla, come se fosse improvvisamente impazzita, si era scagliata con impeto irresistibile su quelle teste. Quei truci negri avevano impugnati i loro coltellacci e si disputavano ferocemente le teste delle vittime che per loro rappresentavano una solenne ubriacatura.

In pochi istanti i panieri furono sventrati, i poveri schiavi, vivi o moribondi o morti in causa della caduta, furono strappati fuori e decapitati e le teste sanguinanti furono tosto cambiate contro file di cauris e bottiglie di ginepro o di rhum di tratta.

Era il segnale dell’orgia. Dalla piattaforma reale Geletè, Kalani, i cabeceri ed i moci gettavano sul popolo, per vedersele disputare, pezze di tela, file di cauris e bottiglie di liquori, mentre sulle piattaforme venivano portate casse di bottiglie di ginepro.

Il re, i suoi ministri, i cortigiani, i soldati ed il popolo si ubriacavano per chiudere solennemente la prima giornata della festa dei costumi, mentre sulla piazza sanguinante si dibattevano, fra le ultime convulsioni, le vittime.

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