La Congiura de' Pazzi (Alfieri, 1946)/Atto quarto

Atto quarto

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Atto terzo Atto quinto

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ATTO QUARTO

SCENA PRIMA

Giuliano, Un uomo d’arme.

Giul. Olá; quí tosto a me Guglielmo adduci. —


SCENA SECONDA

Giuliano.

Riede all’Arno Salviati? Or, perché muove

costui di Roma? e in queste soglie il piede
come osa porre? Egli in non cale or dunque
tiene il nostr’odio, e il poter nostro, e noi? —
Ma pur, s’ei torna, in lui l’audacia nasce
certo da forza;... e da accattata forza. —
Or sí, che ogni arte al prevenir fia d’uopo
ciò, ch’emendare invan vorriasi. In prima
Guglielmo udiam, s’ei, per etá men forte,
coglier di detti lusinghieri all’esca
da me potrassi. Or, che si aggiunge ad essi
apportator della romana fraude,
Salviati, or vuolsi invigilare; or larghe
parole dar, mezzi acquistando e tempo.

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SCENA TERZA

Guglielmo, Giuliano.

Giul. Guglielmo, o tu, che esperíenza, ed anni,

e senno hai piú che altr’uom; tu, che i presenti
dritti, e i passati, della patria nostra
conosci, intendi, e scerni; or deh! mi ascolta. —
Giá, per poter ch’io m’abbia, io non son cieco,
né dato a iniqua oblivíone ho il nome
di cittadino: io so, quanto sien brevi,
e dubbj i doni della instabil sorte:
so...
Gugl.   Qual tu sii, chi ’l sa? Vero è, ti mostri
piú mite assai, che il fratel tuo; ma tanto
del volgo schiavo è il giudicar corrotto,
ch’ei men non t’odia, ancor ch’ei men ti tema.
Forse a popol ben servo è assai piú a grado
chi lo sforza a obbedir, che chi nel prega.
Giul. Cauto non è, quale il vorrei, Lorenzo;
ma, né quanto sel tien, Raimondo è invitto:
parliam, piú umani, noi. — Tu sai, che istrutto
il cittadin dalla licenza antica,
e sbigottito, in nostra man depose
di libertá il soverchio; onde poi fosse
la miglior parte eternamente intatta...
Gugl. Quai tessi ad arte parolette accorte,
di senso vuote? Ha servitú il suo nome.
Chiama il servir, servaggio.
Giul.   E la licenza,
tu libertade appella: io quí non venni
a disputar tai cose...
Gugl.   È ver, che sempre
mal sen contende in detti.
Giul.   Odimi or dunque,
pria che co’ fatti io il mostri. Alta ira bolle

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nel tuo Raimondo: assai Lorenzo è caldo

di giovinezza e di possanza: uscirne
di te, del figlio, e di tua stirpe intera
può la rovina: ma può uscirne ancora,
a tradimento, la rovina nostra.
Non di Lorenzo, qual fratello, io parlo;
né tu, qual padre, del figliuol favella:
siam cittadini, e tu il migliore. Or dimmi;
forte adoprarci in risparmiar tumulti,
scandali, e sangue, or nol dobbiamo a prova?
Tu tanto or piú, che in vie maggior periglio
ti stai? — Tu, ch’osi nominar servaggio
il serbar leggi, il vedi; infra novelli
torbidi, a voi si puote accrescer carco
piú che scemarsi, assai. Padre ad un tempo
e cittadin sii tu: piega il tuo figlio
alquanto; e sol, che a noi minor si dica,
ne fia pago Lorenzo. Ogni alto danno
con un tuo detto antivenir t’è dato.
Gugl. Chi può piegar Raimondo? e degg’io farlo,
s’anco potessi?
Giul.   Or via, tu stesso dimmi:
se ti trovassi in seggio, e il poter tuo
tolto a scherno da noi, com’egli ha il nostro,
vedessi tu; che allor di noi faresti?
Gugl. Io stimerei di tanto altrui pur sempre
far maggior scherno in occupar lo stato,
che ogni scherno a me fatto avrei per lieve.
Di libertá qual minor parte puossi
lasciar, che il dire, a chi del far vien tolta?
Ogni uom parlare a senno suo potrebbe,
s’io fossi in voi; ma oprar, soltanto al mio.
Da temersi è chi tace: al sir non nuoce
dischiuso tosco. — Io schietto ora ti parlo:
d’audace impresa il mio figliuol non stimo
capace mai: cosí il foss’ei! vilmente

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me non udreste or favellar; né visto

tremar mi avreste, ed obbedire. — Incontro
a nemici quai siamo, (è ver pur troppo!)
arme bastante è il ben usato sprezzo. —
Ecco, ch’io non tiranno, assai ben, parmi,
di tirannide a te l’arti, le leggi
prescrivo, e l’opre, e la ragion sublime.
Giul. Che vuoi tu dirmi? e nol conosco io forse
al par di te, questo tuo figlio?
Gugl.   E il temi?
Giul. Temuto, io temo. — Il simular fia vano.
Fra noi si taccia ogni fallace nome;
non patria omai, non libertá, non leggi:
dal solo amor di se, dall’util certo,
dalla temenza dei futuri danni,
piú vera prenda ognun di noi sua norma.
Lorenzo in se tutti rinserra i pregi,
onde stato novel si accresce e tiene,
men l’indugio, e il timore: a me natura
diede altra tempra; e ciò che manca in lui,
in me soverchio è forse: ma, tremante
non stai tu piú di me? non veggo io sculta
la tua temenza in tuoi piú menomi atti?
so, che non è piú saldo in onda scoglio,
di quel che sieno in lor proposto immoti
e Lorenzo e Raimondo: han pari l’alma;
la forza no: ma pari è il temer nostro.
Qual io mi adopro or col fratel, ti adopra
col figlio tu: forse vedremo ancora
altri tempi. Pochi anni hai tu di vita;
ma questa (il sai) benché affannosa, e grave,
pur viver brami; e sopportata l’hai...
Vuoi tu serbarla? di’.
Gugl.   Timor di padre,
e timor di tiranno in lance porre,
altri nol puote che un tiranno e padre.

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Il mio timore, io il sento; il tuo, tu solo

sentirlo puoi. — Ma, vinca oggi il paterno,
che piú scusabil è. Per quanto io valga,
mi adoprerò, perché spontaneo esiglio
scelga Raimondo; e fia il miglior; che in queste
mura abborrite a nuovi oltraggi io ’l veggo,
non a vendetta, rimaner; pur troppo!


SCENA QUARTA

Lorenzo, Giuliano, Guglielmo.

Loren. Giulian, che fai? Spendi in parole il tempo,

quando altri in opre?...
Giul.   Alla evidente forza
del mio parlare omai costui si arrende:
duolti la pace, anzi che ferma io l’abbia?
Loren. Che pace omai? D’ogni discordia il seme,
d’ogni raggiro il rio motor, Salviati
giunge...
Giul.   Il so; ma frattanto...
Loren.   E sai, che muove
ver noi dall’austro armata gente? in vero,
non belligera gente; a cui mostrarci
noi dovrem pure, e sol mostrarci. Al primo
folgoreggiar de’ nostri scudi, sciolta
fia lor nebbia palustre. Ardir qual altro
può Roma aver, fuor che l’altrui temenza?
Gugl. Signor, ma che? può insospettirti il solo
ripatriar di un cittadino inerme,
ch’or dal Tebro ritorna? e a danno vostro
or si armerebbe Roma, che sí rado
l’armi, e sí mal, solo a difesa, impugna?
Loren. La schiatta infida dei roman pastori
fea tremar piú d’un prode. Il tosco, il ferro

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celan fra gigli e rose. È ver, che nulla

fia il ferro lor, se antiveduto viene. —
Voi, di Roma satelliti, quí lascio:
tramate voi, finch’io ritorni. Andiamo,
fratello, andiam: ripiglierem noi poscia
con costoro a trattar; ma pria dispersi,
o presi, od arsi, o nel vil fango avvolti
cadan per noi que’ pavidi vessilli,
che all’aura spiegan le mentite chiavi.
Pria dobbiam noi crollare alquanto il tronco
putrido annoso, a cui si appoggia fraude;
poiché del tutto svellerlo si aspetta
a piú rimota etade. — Andiam. — Di gioja
mi balza il cor nell’impugnarti, o brando,
contro aperto nemico. A me sol duole,
che, se a fuggiasca gente il tergo sdegni
ferir, di sangue or tornerai digiuno.


SCENA QUINTA

Guglielmo.

D’alti sensi è costui; non degno quasi

d’esser tiranno. Ei regnerá, se ai nostri
colpi non cade; ei regnerá. — Ma regna,
regna a tua posta; al rio fratel simíle
tosto sarai: timido, astuto, crudo:
quale in somma esser debbe, ed è, chi regna. —
Or, giá si annotta; e a me non torna il figlio;
né Salviati. — Ma, come udia Lorenzo
delle romane ancor non mosse schiere?
Non lieve al certo è la tramata impresa;
e dubbia è assai: ma pur, l’odio e la rabbia
e il senno in un del mio figliuol mi affida.
Di lui si cerchi... Eccolo appunto.

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SCENA SESTA

Raimondo, Salviati, Guglielmo.

Gugl.   Oh! dimmi,

a che ne siamo?
Raim.   Al compier, quasi.
Salv.   A noi
arride il ciel: mai non sperava io tanto.
Gugl. Presto, piú ch’io non l’era, e a piú vendetta,
voi mi trovate. Udite ardir: quí meco
finor Giuliano a patteggiar togliea
dell’onta nostra; e vi si aggiunse poscia
fero Lorenzo, e minaccioso. Io diedi
parole, or dubbie, or risentite, or finte;
le piú, ravvolte entro a servile scorza,
grata ai tiranni tanto: ogni delitto
stiman minor del non tenerli. In essi
di me sospetto generar non volli;
pien di timor mi credono. — Ma, dimmi;
come giá in parte or traspirò l’arcano
dell’armi estrane? È ver, che a scherno mostra
Lorenzo averle, e inefficace frutto
par riputarle dei maneggi nostri.
Tal securtá ne giova; e benché accenni
Giulian ch’ei teme anco i privati sdegni,
giá non cred’ei certa e vicina, e tanta
la vendetta, quant’è. Ditemi, certa
fia dunque appien? qual feritor, qual’armi,
quai mezzi, dove, quando?...
Raim.   Odine il tutto.
Ma frattanto, stupore a te non rechi
ciò che or Lorenzo sa. Noi primi, ad arte,
per divertir lor forze, il grido demmo
che il nemico venía. Ma in armi Roma
suona or nel volgo sola: «A trarre i Toschi

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dal servaggio novel, manda il buon Sisto

poca sua gente.» — Ecco la voce, ond’io
sperai, che scarsa, ma palese forza
i tiranni aspettando, ogni pensiero
rivolgerian contr’essa; e ben mi apposi.
Al nuovo dí corre Lorenzo al campo;
ma, sorgerá pur troppo a lui quel sole,
ch’esser gli debbe estremo. Entrambi spenti
fian domani. All’impresa io pochi ho scelti,
ma d’ira alti e di core. Alberto, Anselmo,
Napoléon, Bandíni, e il figliuol tuo.
Rinato vil, di nostra stirpe ad onta,
d’esser niegommi del bel numer uno.
Gugl. Codardo! E s’egli or ci tradisse?
Raim.   Oh, fosse
pur ei da tanto! ma, di vizj scevro,
virtú non ha: piú non sen parli. — Anselmo
preste a ogni cenno tien sue genti d’arme;
ma il perché, nol sann’essi: a un punto vuolsi
da noi ferire, ed occupar da lui
il maggior foro, ed il palagio, e quante
vie lá fan capo; indi appellar la plebe
a libertá: noi giungeremo intanto...
Gugl. Ma, in un sol loco, e ad una morte trarli,
pensastel voi? Guai se l’un colpo all’altro
tardo succede, anco d’un punto.
Raim.   All’alba,
pria che di queste mura escano in campo,
al tempio entrambi ad implorare ajuto
all’armi lor tiranniche ne andranno:
lá fien morti.
Gugl.   Che ascolto? Oimè! nel sacro?...
Salv. Nel tempio, sí. Qual piú gradita al cielo
vittima offrir, che il rio tiranno estinto?
Primo ei forse non è, che a scherno iniquo
l’uom, le leggi, e natura, e Iddio si prende?

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Gugl. Vero parli; ma pur,... di umano sangue

contaminar gli altari...
Salv.   Umano sangue
quel de’ tiranni? Essi di sangue umano
si pascon, essi. E a cotai mostri asilo
santo v’avrá? l’iniquitá secura
starsi, ove ha seggio la giustizia eterna?
Non io l’acciaro tratterrei, se avvinti
fosser del Nume al simulacro entrambi.
Gugl. Noi scellerati irriverenti mostri,
ad alta voce griderá la plebe,
che ciò mira d’altr’occhio. O torne il frutto,
o rovinar l’impresa or può quest’una
universale opiníon...
Raim.   Quest’una
giovarne può: non è soverchio il tempo:
o doman gli uccidiamo, o non piú mai.
Ciò che rileva, è lo accertare i colpi;
né loco v’ha piú ad accertargli adatto. —
Del popol pensi? ei dalle nuove cose
stupor, piú ch’ira, tragge. Ordine demmo,
che al punto stesso, in cui trarremo il ferro,
di Roma eccheggi entro il gran tempio il nome.
Gugl. Può molto, è ver, fra noi di Roma il nome. —
Ma, qual di voi l’onor del ferir primo
ottiene? a me qual si riserba incarco?
Impeto, sdegno, ardir, non bastan soli;
anzi, può assai, la voglia ardente troppo,
nuocere a ciò. — Freddo valor feroce,
man pronta e ferma, imperturbabil volto,
tacito labbro, e cor nel sangue avvezzo;
tale esser vuolsi a trucidar tiranni.
Inopportuno un moto, un cenno, un guardo,
anco un pensier, può torre al sir fidanza,
tempo all’impresa, e al feritor coraggio.
Raim. I primi colpi abbiam noi scelto: il mio

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fia il primo primo: a disbramar lor sete

i men forti verran co’ ferri poscia,
tosto che a terra nel sangue stramazzino,
pregando vita, i codardi tiranni. —
Padre, udito il segnal, se in armi corri
dove fia Anselmo, gioverai non poco,
piú che nel tempio assai; da cui scagliarci
fuori vogliam, vibrato il colpo appena.
Duolmi, ch’io solo a un tempo trucidarli
ambi non posso. — Oh! che dicesti, o padre?
Man pronta e ferma? Il ferro pria verranne
manco doman, che a me la destra e il core.
Gugl. Teco a gara ferir, che non poss’io?
Vero è, pur troppo, che per molta etade
potria tremulo il braccio, il non tremante
mio cor smentire. — A dileguar mie’ dubbi
raggio del ciel mi sei: ben tu pensasti,
ben provvedesti a tutto; e invano io parlo.
Piacemi assai, che a voi soltanto abbiate
fidato i primi colpi. Oh quanta io porto
invidia a voi! — Sol dubitai, che in queste
vittime impure insanguinar tua destra
sacerdotal tu negheresti...
Salv.   Oh quanto
mal mi conosci! Ecco il mio stile; il vedi?
Sacro è non men, che la mia man che il tratta:
mel dié il gran Sisto, e il benedisse pria. —
La mano stessa il pastorale e il brando
strinse piú volte: e, ad annullar tiranni
o popoli empj, ai sacerdoti santi
il gran Dio degli eserciti la destra
terribil sempre, e non fallevol mai,
armava ei stesso. Appenderassi in voto
questa, ch’io stringo, arme omicida e santa
a questi altari un dí. Furor m’incende,
piú assai che umano: e, ancor ch’io nuovo al sangue

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il braccio arrechi, oggi dal ciel fia scorto

dentro al cor empio, che a trafigger scelsi.
Gugl. E scelto hai tu?...
Salv.   Lorenzo.
Gugl.   Il piú feroce?
Raim. Io ’l volli in ciò pur compiacer, bench’io
prescelto avrei d’uccidere il piú forte.
Ma pur pensai, che al certo il vil Giuliano
di ascosa maglia il suo timor vestiva;
onde accettai, come piú scabra impresa,
io di svenarlo. Avrai Lorenzo; avrommi
io ’l reo Giulian: giá il tengo: entro quel petto,
nido di fraude e tradimento, il ferro
giá tutto ascondo. — A sguaínar fia cenno,
ed al ferire, il sacro punto, in cui,
tratto dal ciel misteríosamente
dai susurrati carmi, il figliuol Dio
fra le sacerdotali dita scende. —
Or, tutto sai: del sacro bronzo al primo
squillo uscirai repente; e allora pensa
ch’ella è perfetta, o che fallita è l’opra.
Gugl. Tutto farò. — Sciogliamci; omai n’è tempo. —
Notte, o tu, che la estrema esser ne dei
di servaggio, o di vita, il corso affretta! —
Tu intanto, o figlio, assai, ma assai, diffida
di Bianca: in cor di donna è scaltro amore.
E tu, bada, o Salviati, che se a vuoto
cade il colpo tuo primo, è tal Lorenzo,
da non lasciar, che tu il secondo vibri.