Pagina:Alfieri, Vittorio – Tragedie, Vol. II, 1946 – BEIC 1727862.djvu/340

334 la congiura de’ pazzi



SCENA SESTA

Raimondo, Salviati, Guglielmo.

Gugl.   Oh! dimmi,

a che ne siamo?
Raim.   Al compier, quasi.
Salv.   A noi
arride il ciel: mai non sperava io tanto.
Gugl. Presto, piú ch’io non l’era, e a piú vendetta,
voi mi trovate. Udite ardir: quí meco
finor Giuliano a patteggiar togliea
dell’onta nostra; e vi si aggiunse poscia
fero Lorenzo, e minaccioso. Io diedi
parole, or dubbie, or risentite, or finte;
le piú, ravvolte entro a servile scorza,
grata ai tiranni tanto: ogni delitto
stiman minor del non tenerli. In essi
di me sospetto generar non volli;
pien di timor mi credono. — Ma, dimmi;
come giá in parte or traspirò l’arcano
dell’armi estrane? È ver, che a scherno mostra
Lorenzo averle, e inefficace frutto
par riputarle dei maneggi nostri.
Tal securtá ne giova; e benché accenni
Giulian ch’ei teme anco i privati sdegni,
giá non cred’ei certa e vicina, e tanta
la vendetta, quant’è. Ditemi, certa
fia dunque appien? qual feritor, qual’armi,
quai mezzi, dove, quando?...
Raim.   Odine il tutto.
Ma frattanto, stupore a te non rechi
ciò che or Lorenzo sa. Noi primi, ad arte,
per divertir lor forze, il grido demmo
che il nemico venía. Ma in armi Roma
suona or nel volgo sola: «A trarre i Toschi