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atto quarto 333
celan fra gigli e rose. È ver, che nulla

fia il ferro lor, se antiveduto viene. —
Voi, di Roma satelliti, quí lascio:
tramate voi, finch’io ritorni. Andiamo,
fratello, andiam: ripiglierem noi poscia
con costoro a trattar; ma pria dispersi,
o presi, od arsi, o nel vil fango avvolti
cadan per noi que’ pavidi vessilli,
che all’aura spiegan le mentite chiavi.
Pria dobbiam noi crollare alquanto il tronco
putrido annoso, a cui si appoggia fraude;
poiché del tutto svellerlo si aspetta
a piú rimota etade. — Andiam. — Di gioja
mi balza il cor nell’impugnarti, o brando,
contro aperto nemico. A me sol duole,
che, se a fuggiasca gente il tergo sdegni
ferir, di sangue or tornerai digiuno.


SCENA QUINTA

Guglielmo.

D’alti sensi è costui; non degno quasi

d’esser tiranno. Ei regnerá, se ai nostri
colpi non cade; ei regnerá. — Ma regna,
regna a tua posta; al rio fratel simíle
tosto sarai: timido, astuto, crudo:
quale in somma esser debbe, ed è, chi regna. —
Or, giá si annotta; e a me non torna il figlio;
né Salviati. — Ma, come udia Lorenzo
delle romane ancor non mosse schiere?
Non lieve al certo è la tramata impresa;
e dubbia è assai: ma pur, l’odio e la rabbia
e il senno in un del mio figliuol mi affida.
Di lui si cerchi... Eccolo appunto.