La Cassaria (prosa)/Atto terzo
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ATTO TERZO.
SCENA I.
VOLPINO, TRAPPOLA servi, EROFILO.
Volpino. Prima che tu mi lasci, impara bene, sì che venir sappi con la femmina qua dove t’ho detto. Ricórdati che passato il portico che tu trovi su per questa contrada, è la terza casa a man ritta.
Trappola. Me lo ricordo.
Erofilo. Non sarà meglio, perchè non falli, chè la meni qui súbito, e noi la conduciamo poi là?
Volpino. Per nessun modo; che la potrebbe vedere alcuno vicino, e verríeno scoperte le insidie che al ruffiano si tendono.
Erofilo. Tu di’ il vero.
Volpino. È una porta piccola fatta di nuovo.
Trappola. Tu me l’hai detto.
Volpino. Lena si chiama la patrona della casa.
Trappola. L’ho a mente.
Volpino. All’incontro v’è uno sporto di legname.
Trappola. Va, non dubitare, ch’io saprò quasi venire sì ritto come alla taverna.
Volpino. Noi anderemo quivi ad aspettarvi, e faremo apparecchiare la cena intanto.
Trappola. Fa che vi sia da bere in copia, che questa veste lunga1 m’ha già messo sete.
Volpino. Non te ne mancherà. Abbi il cervel teco, chè questo ruffiano, che ha il diavolo in corpo, non s’avvedesse.
Trappola. Ah, ah, ah! chi vuol insegnarmi a dir bugíe, che prima in bocca l’ebbi, che tu le poppe!
Volpino. Or va: che prosperi succedano i disegni.
SCENA II.
BRUSCO, TRAPPOLA servi.
Brusco. Spácciati presto. Che avemo da fare altro entro questa sera?
Trappola. Avemo da cenare e stare in gioja.
Brusco. Mi fiacchi il collo, se, come ho posata giù questa cassa, t’aspetto uno attimo.
Trappola. Va poi a piacer tuo. Ma taci, ch’io sento aprir quello uscio, che debbe essere questo il ruffiano, se io non fallo.
SCENA III.
LUCRANO ruffiano, TRAPPOLA.
Lucrano. Meglio m’è uscire di casa, chè queste cicale m’assordano, mi rompono il capo, m’occidono con ciance. Voi farete a mio modo fin che vi sarò patrone, al vostro marcio dispetto.
Trappola. (Gli altri hanno i segni di loro arti sul petto,2 e l’ha costui sul viso!)
Lucrano. Quanta superbia, quanta insolenzia han tutte queste gaglioffe puttane! sempre cercano, sempre studiano di porsi al contrario de’ desiderî tuoi: mai non hanno il cuor se non di rubarti, se non di usarti fraude, se non di mandarti in precipizio.
Trappola. (Mai non udii alcuno altro lodar meglio una merce che vogli vendere!)
Lucrano. Io credo bene, se uno uomo avessi tutti li peccati solo che sono sparsi per tutto il mondo, e che tenessi come me femmine in vendita a guadagno, e che tollerar potessi la lor pratica senza gridare e biastemare ogni dì mille volte cielo e terra, più meriterebbe di questa pazienza sola, che di tutte le astinenzie, di tutte le vigilie, cilicî e discipline che sieno al mondo.
Trappola. (Credo ben, che del tenerle in casa a te sia un purgatorio, a lor misere in starvi sia uno oscurissimo inferno. Ma andiamo innanzi.)
Lucrano. Costui che vien qua, deve essere pur ora smontato di nave, chè si mena dietro il facchino carico.
Trappola. — Non può star molto discosto: questa è pur la casa grande, a l’incontro della quale mi è detto ch’egli abita. —
Lucrano. Non deve trovare albergo, per quel ch’io sento.
Trappola. — Oh veggio a tempo costui, che mi saprà forse chiarire, perchè non sono qui molto pratico. — Dimmi, uomo da bene.
Lucrano. Tu dimostri per certo di non esser molto pratico, chè m’hai chiamato per un nome che nè a me nè a mio padre nè ad alcun del sangue mio fu mai più detto.
Trappola. Perdónami, chè non t’avevo ben mirato: io mi emenderò. Dimmi, tristo uomo, d’origine pessima... ma, per dio, tu sei quel forse proprio ch’io cerco, o fratello o cugin suo, del suo parentado almeno.
Lucrano. Potrebbe essere; e chi cerchi tu?
Trappola. Un barro, un pergiuro, uno omicidiale.
Lucrano. Va piano, chè sei per la via di trovarlo. Come è il proprio nome?
Trappola. Il nome..., ha nome..., or or l’avevo in bocca; non so che me n’abbi fatto.
Lucrano. O inghiottito o sputato l’hai.
Trappola. Sputato l’ho forse, inghiottito no, chè cibo di tanto fetore non potrei mandare nello stomaco senza vomitarlo poi súbito.
Lucrano. Coglilo adunque della polvere.
Trappola. Ben tel saprò con tanti contrassegni dimostrare, che non sarà bisogno che del proprio nome si cerchi: è biastematore e bugiardo.
Lucrano. Queste son delle appartenenti3 al mio esercizio.
Trappola. Ladro, falsamonete, tagliaborse.
Lucrano. È forse tristo guadagno saper giucare di terra?4
Trappola. È ruffiano.
Lucrano. La principal dell’arte mia.
Trappola. Riportatore, maldicente, semínatore di scandoli e di zizzanie.
Lucrano. Se noi fussimo in corte di Roma, si potría dubitare di chi tu cercassi; ma in Metellino non puoi cercare se non di me: sì che ’l mio proprio nome ti vò ricordare anco: mi chiamo Lucrano.
Trappola. Lucrano, sì sì Lucrano, col malanno.
Lucrano. Che Dio ti dia. Son quel proprio che tu cerchi: che vuoi da me?
Trappola. Tu sei quel proprio?
Lucrano. Quel proprio: di’ che vuoi?
Trappola. Voglio che prima facci che costui si scarichi in casa tua, e poi dirò perchè ti cerco.
Lucrano. Va dentro; e ponla colà dove ti pare. Olà, ajutalo a scaricarsi.
Trappola. Essendo in Alessandria a questi giorni, lo Ammiraglio, che m’è grande amico e può come padrone comandarmi, mi pregò che venendo in questa città, come lui sapea che era per venire di corto, da te comprassi a suo nome una tua giovene, che ha nome Eulalia, la bellezza della quale gli è stata molto da più persone lodata, che te l’hanno veduta in casa; e comprata ch’io l’avessi, per questo suo servitore, che ha mandato meco a posta, gliel’avessi a mandare incontinente. E perchè parte questa notte un crippo5 che fa quella volta, desideroso di servirlo bene e presto, ti son venuto a ritrovare per far teco a una parola il mercato, sì che tu me la dia, e che mettere la possa6 in mare súbito. Or fammi intendere ciò che ne dimandi.
Lucrano. È ver che avevo saldato il7 pregio con un gran ricco di questa terra, che a me deveva tornare dimane con danari, e menarsi la femmina: tuttavolta, quando...
Trappola. Tuttavolta, s’io ti do più, vuoi dire?
Lucrano. Tu intendi: quest’è il mio officio, di attendere a chi più mi dà sempre.
Trappola. Ma andiamo in casa, perchè non mancherà8 di accordar teco per il devere.
Lucrano. Parli benissimo: andiamo dentro.
SCENA IV.
CORBACCHIO, NEGRO, GIANDA, NEBBIA, MORIONE.
Corbacchio. Gentile e liberale giovene è Filostrato veramente.
Negro. Questi sono uomini da servire, che dànno da lavorar poco e da ber molto.
Corbacchio. E che merenda ci ha apparecchiato!
Morione. Parliamo del vino, che m’ha per certo tocco il cuore.
Corbacchio. Non credo che ne sia un migliore in questa terra.
Morione. Vedesti mai il più chiaro, il più bello?
Corbacchio. Gustasti mai tu il più odorifero, il più soave?
Gianda. E di che possanza! vale ogni danajo.
Corbacchio. N’avess’io questa notte uno orciuolo al piumaccio!
Gianda. N’avess’io innanzi in mio potere le botte!
Morione. Deh venisse ogni dì volontà al patrone di prestare la nostra opera a Filostrato, come ha fatto oggi!
Gianda. Sì, se ci avesse ogni dì a far godere così bene.
Corbacchio. Io non so come per la parte vostra vi state voi: io per la mia così mi sento allegro, che mi par ch’io non possa cápere nella pelle.
Gianda. Credo che siamo a un segno tutti.
Nebbia. Così ci fussimo quando tornerà il vecchio! Tutti al bere e al trangugiare9 siamo stati compagni; a me solo toccherà, come lui ritorni, a pagare il vino, e a patire.
Gianda. Non ti porre affanno, bestia, del male che ancor non hai; non trar di culo10 prima che tu non sia punto: che sai tu quel che abbia a venire?
Nebbia. Non son già profeta nè astrologo; ma tu vedrai, come in casa siamo, che sarà tutto successo come oggi ti predissi.
Gianda. Io t’ho detto oggi, ed ora te lo ridico di nuovo, che ti cerchi di fare amico Erofilo, e vedrai succeder bene i fatti tuoi. Se per obbedire al vecchio tu perseveri di tenertelo odioso, tu l’averai sempre o con pugni o con bastoni sul viso e sul capo, e ti storpierà o ti occiderà un giorno, e tu n’averai il danno. Ma se, per compiacere al giovene, tu non sarai così ogni volta al vecchio obbediente, il vecchio, che è più moderato e più saggio, ti sarà di lui più placabile sempre; e dê11 conoscere quanto vaglia un par tuo per contrastare a un sì gagliardo cervello come è quel del suo figliuolo. Io ti parlo d’amico.
Nebbia. Io conosco per certo che tu mi dici il vero, e son disposto ogni modo di mutar proposito. Ma attendi.
Gianda. Che?
Nebbia. Chi è costui che esce di casa del ruffiano, e mena seco una delle fanciulle d’esso? debbe averla comprata.
Gianda. Mi par l’amica del patron nostro.
Nebbia. È quella senza fallo.
Corbacchio. È quella veramente.
Gianda. Estobla,12 fermiamoci: ritraetevi qui tutti, chè guardiamo dove la mena, acciò che ad Erofilo lo sappiamo ridir poi: zit.
SCENA V.
TRAPPOLA, GIANDA, CORBACCHIO, MORIONE,
NEBBIA, NEGRO servi.
Trappola. — Il Brusco s’è partito. Oh che asino indiscreto a lasciarmi di notte qui solo con questo carriaggio a mano! —
Gianda. Costui, per quel ch’io vedo, se ne mena Eulalia.
Corbacchio. O sventurato Erofilo!
Gianda. Oh che affanno, oh che malinconia se ne porrà, come l’intende!
Trappola. — Non pianger, bella giovene. —
Gianda. Vogliam ben fare?
Nebbia. Che?
Gianda. Levarla a costui, e menarla ad Erofilo.
Trappola. — T’incresce così forte lasciar Metellino? —
Gianda. Come si scosti un poco, leviámogliela.
Morione. In che modo faremo?
Gianda. Come si fa? con pugni e calci: noi siamo cinque, e lui è solo.
Trappola. — Non pianger per questo... —
Negro. Canchero a chi si pente.13
Trappola. — Chè ti fo certa, che non ti menerò molto lontana. —
Nebbia. E se grida, non gli accorrerà tutta la vicinanza?
Gianda. Sì, per dio! chi verrà a tempo?
Trappola. — Tu non rispondi? —
Corbacchio. E chi è quello che senta gridar la notte, e vogliasi súbito saltar su la via?
Trappola. — Deh non macchiare con queste tue lagrime sì polite guance. —
Gianda. Adesso è, Nebbia, il tempo di farsi con sì gran beneficio (quanto sarà, se ci ajuti) Erofilo amicissimo sempre.
Nebbia. Facciânlo; ma non si meni già in casa, chè saremo conosciuti, ed aremo mal fatto.
Gianda. E dove la meneremo dunque?
Nebbia. Che so io?
Negro. Non si stia per questo; la potremo condurre a casa di Chiroro de’ Nobili, che è tanto amico di Erofilo, ed è il miglior compagno di questa terra.
Gianda. Non si potea meglio pensare.
Trappola. — Io sto tutto sospeso di andare a quest’ora così solo: io non pensavo già che questo asino mi devesse però lasciare. —
Morione. Voi lo terrete a bada con buone pugna e calci, ed io e Corbaccio ce ne porteremo la giovene.
Gianda. Or innanzi, e non più parole.
Trappola. — Oimè! che turba è questa che mi vien dietro? —
Gianda. Férmati, mercatante.
Trappola. Che volete voi?
Gianda. Che roba è cotesta?
Trappola. Tu ti pigli strana cura: te n’ho io a pagare il dazio?
Gianda. Tu non la dêi avere denonciata alla dogana: dove n’hai tu la bolletta?
Trappola. Che bolletta? questa non è merce da tôrne bolletta.
Gianda. D’ogni merce s’ha a pagare dazio.
Trappola. Di quelle da guadagno si paga; non di queste, che son da perdita.
Gianda. Da perdita ben dicesti, chè tu l’hai persa: t’abbiam pur colto in contrabbando; lascia costei.
Corbacchio. Eulalia, andiamo a trovare Erofilo tuo.
Gianda. Lascia, se non ch’io...
Trappola. Così si assassinano i forestieri?
Gianda. Se non taci, ti caccio gli occhi.
Trappola. Voi credete a questo modo, ribaldi?... Ajuto, ajuto!
Gianda. Spézzali il capo, cávali la lingua.
Trappola. A questo modo, traditori, m’avete tolto la mia femmina?
Gianda. Andiamoci con Dio, e lasciamolo gracchiare.
Trappola. Che farò, misero? Se devessi ben morire, vô seguitarli per vedere ove la menano.
Gianda. Se tu non ritorni, ti farò più pezzi di cotesta tua testaccia, che non si fe mai di vetro. Se tu ci pretendi aver ragione, lásciati veder dimane all’offizio de’ doganieri.
Trappola. — Son mal condotto; m’han tolta la femmina, m’hanno gettato nel fango, stracciato la veste e tutto pesto il viso. —
SCENA VI.
EROFILO, VOLPINO, TRAPPOLA.
Erofilo. Costui per certo indugia molto a condurne costei.
Volpino. Non venir più innanzi, chè tu guasti ogni disegno nostro.
Trappola. (Con che fronte posso comparir dove sia Erofilo?)
Erofilo. Parmi vederlo là.
Trappola. (Come potrò mai giustificarmi seco, che non creda...)
Volpino. Esso è, per dio.
Trappola. (Che da mia voluntade, e non per forza, m’abbia lasciata Eulalia tôrre?)
Erofilo. Ma non ha la giovene seco.
Volpino. Nè la cassa, ch’è molto peggio.
Trappola. (Ah misero! non so che mi faccia.)
Erofilo. Trappola, come? non hai avuto la mia Eulalia ancora?
Volpino. Dove hai tu messa la cassa?
Trappola. Avevo avuta Eulalia.
Erofilo. Eulalia?
Trappola. Insin qui l’avevo condotta.
Erofilo. Aimè!
Trappola. E qui son stato da più di venti persone assalito, in modo che me l’hanno tolta.
Erofilo. Te l’hanno tolta?
Trappola. M’hanno tutto pesto e lasciato qui in terra per morto.
Erofilo. T’hanno tolto la mia Eulalia?
Trappola. Pur la sua m’aranno tolta!14 E’ non sono molto di lungi.
Erofilo. E per qual via se la portano?
Volpino. Dove hai tu messa la cassa?
Erofilo. Lascia che risponda a me, chè questo importa più.
Volpino. Importa pur assai più la cassa.
Trappola. Quelli che m’hanno battuto, se ne vanno là.
Volpino. Dove è la cassa?
Erofilo. Che cess’io15 d’andarli dietro?
Trappola. È in casa del ruffiano.
Volpino. Dove vuoi tu gire? che pensi tu di fare?
Erofilo. O di morire, o di aver la donna mia.
Volpino. Ricórdati, aspetta, che la cassa è in pericolo: attendasi qui prima, e poi...
Erofilo. A che poss’io prima attendere, ch’al mio cuore, che all’anima mia?
Volpino. Non andar, per dio! Con chi sai tu che abbi a fare?
Erofilo. Se hai paura, ti resta; io nulla16 stimo, perduta la mia Eulalia; la mia vita è quella.
Volpino. El se n’è ito, ed io vô seguitarlo in ogni modo, perchè non lasci perdere la cassa. Aspettami qui tu in casa del patrone; chè appresso agli altri danni, tu non perdessi questa veste ancora. Bussa presto, ch’io veggio escire il ruffiano: presto, chè non ti veggia meco. Non ti partire di qui fin che non torni.
SCENA VII.
LUCRANO ruffiano, FURBA servo.
Lucrano. Non fu mai uccellatore più di me fortunato, chè avendo oggi tese le panie a dui magri uccelletti che tutto il dì mi cantavano intorno, a caso una buona e grassa perdice ci è venuta ad invescarsi. Perdice chiamo un certo mercante, perchè mi par che sia più di perdita che di guadagno amico. È costui venuto a comprare una mia femmina, ed ha fatto meco in due parole il mercato; cento saraffi17 gli ho domandati, e cento saraffi ha detto darmi; e perchè non s’ha ritrovato avere alla mano il danajo, m’ha lasciata una sua cassa pegno, che tutta d’ori filati è piena, che più di quindici volte tanto ben credo che vaglia: me l’ha aperta, e poi chiusa e sigillata, e portátosene la chiave, e dettomi ch’io la serbi fin che mi porti il pregio convenuto. Questa è una occasione che suol venire di rado, e s’io sarò sì pazzo che fuggir la lasci, non la incontro mai più. S’io porto questa cassa altrove, io non sarò mai più alla mia vita povero: e così ho deliberato fare; e così la simulazione che facevo oggi di volermi di questa città partire, sarà stato della verità pronostico, perchè mi vô con effetto partire all’alba. Nè si potrà perciò questo mercante da me chiamare ingannato, che, prima che lo ricevessi in casa mia, non gli abbia fatto intendere che era barro, giuntatore, ladro e pien d’ogni vizio: se pur s’è voluto poi di me fidare, se n’abbia il danno. Ma ecco il Furba a tempo. Si parte il legno questa notte, o quando?
Furba. Non gli selasti col furbito in berta, trucca de bella al mazo della lissa, e cantagli se vol calarsi de Brunoro, c’ho il fior in pugno, e comperar vô il mazo.18
Note
- ↑ Ant. stamp.: queste veste lunghe. Fors’è poi da correggere, rinnovando codesta lezione: m’han.
- ↑ Come le meretrici, così i mezzani portavano il segnale della loro rea arte. — (Tortoli.)
- ↑ Ant. stamp.: appartenente; onde forse i moderni fecero appartenenze.
- ↑ Così le antiche stampe; ma è modo non facilmente intelligibile, come il supplito dal Barotti: giucare di terza. Più chiaramente si espresse l’autore nella commedia in versi, scrivendo: giuocar di mano.
- ↑ Lo stesso, e pronunzia più antica, di Grippo.
- ↑ Le stampe antiche: et che lui la possa; forse omettendo mettere; fors’anche scambiando in possa un pogna o simile. Lui potrebbesi riferire al «servitore» che innanzi dicesi «mandato a posta.»
- ↑ Ant. stamp.: di. — Saldato, qui, per Fermato, Convenuto.
- ↑ Così le antiche stampe, e può sottintendersi modo. Il Barotti corresse; mancherò.
- ↑ Per errore, le antiche stampe: trangosciare.
- ↑ Modo non ispiegato, nè facile da spiegarsi. Ove dell’uomo s’intenda, potrebbe dire: non ritrarre il di dietro in avanti, quasi facendo arco della pancia; ove di bestie: non tirar calci.
- ↑ Invece di questa voce, che può intendersi per deve, il Barotti, da altri seguíto, poneva: saprà.
- ↑ Così l’edizione del 1525, copiata da quella del 1755, ma colla mutazione in Estobia. Il Barotti ed altri credettero buona lezione: Estolà. Per questo ravvicinamento, un editore ardito nel fare, scriverebbe forse Altolà; un annotatore ardito nelle congetture, direbbe che Estobla sia termine jonadattico, usato da’ bravi o da’ birri, per avvisare altrui di mettersi in guardia o in aguato; e procedente, per qualunque sia modo, dal latino excubiæ!
- ↑ Tutte le edizioni pongono queste parole in bocca al Nebbia, contro il contesto, e contro l’autorità della commedia in versi, che le assegna al Bruno. Io sospettando in ciò errore di stampa, in luogo del Nebbia ho posto il Negro. — (Tortoli.)
- ↑ Per ironia dispettosa, come a dir oggi, in lingua vernacola: sta a vedi ch’e’ m’aranno tolta la roba loro!
- ↑ A che resto? Perchè indugio?
- ↑ Ant. stamp.: non.
- ↑ Specie di moneta saracina di Alessandria. — (Tortoli.)
- ↑ Parole, o versi piuttosto (sbagliata però la misura di quello che sarebbe terzo), creduti di lingua furbesca. Può vedersi al fine di questo atto nella commedia in versi.