La Cassaria (prosa)/Atto quinto

Atto quinto

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Atto quarto
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ATTO QUINTO.




SCENA I.

FULCIO, EROFILO, FURBA.


Fulcio.     E con queste, e con altre parole e gesti, che mi sono benissimo successi, posi tanta paura a quel sciocco, che per tutta la città me l’ho fatto correr dietro: d’ogni poco suono ch’udiva, più che foglia tremava, chè sempre il bargello e la sbirraria li pareva avere alle spalle.

Erofilo.     Maravigliomi come, sapendosi di tale imputazione, come è pur la verità, innocente, non ha avuto animo da presentarsi.

Fulcio.     Come animo da presentarsi? s’io gli ho persuaso che ’l bargello aveva strettissima commessione, senza esamina, senza inquisizione, d’impiccarlo súbito che lo trovasse?

Erofilo.     Io non so come t’abbia creduto sì facilmente.

Fulcio.     Non te ne paja strano; chè ad altri suoi pari altre volte ha fatto di simili scherzi il mio patrone: così gli è stato sempre il nome di ruffiano odioso! E questo, e quanto egli sia di collera súbito, sa Lucrano pur troppo, che ben l’ha conosciuto altrove ancora.

Erofilo.     Pur, sentendosi innocente...

Fulcio.     Che più? ancor che di questo sia innocente, di quanti altri malefici ti credi che ’l sia consapevole, il minor de’ quali merita mille forche? È il diavolo1 andare in prigione, e farsi porre alla tortura, conoscendosi ribaldo. E se ben d’una falsa calunnia si purgasse, andería a pericolo scoprire altri veri delitti, che condennar lo faríeno a morte agevolmente.

Erofilo.     Come s’assicurò di condursi alla camera di Caridoro?

Fulcio.     Io gli diedi intendere che ’l Bassam, disposto d’impiccarlo in ogni modo, avea commesso che, quando non si potesse la notte avere, non si lasciassi partir legno dell’isola, prima che con diligentissima inquisizione e bando non si [p. 50 modifica]cercasse per ogni casa, fin che ritrovato fusse: e con queste e con altre infinite mie ciance a tal disperazion lo trassi, che non so torre tanto alta, donde non si fusse precipitato, per potersene di qui fuggire: poi, fingendomi pur desideroso di salvarlo, lo confortai che si riducesse a Caridoro, che sapea io che gli era amico, e che se da lui non avea ajuto o consiglio, non si sperasse averlo da altri.

Erofilo.     E così ve lo conducesti?

Fulcio.     Io seppi tanto cicalare, che ve lo trassi finalmente. Or vorrei quivi che veduto l’avessi, pallido, lagrimoso e tremebondo, dimandare, pregare, supplicare Caridoro, che avesse di sè pietate, abbracciarli le ginocchia, baciarli i piedi, proferirli, non che la giovene, ma quanto avea al mondo.

Erofilo.     Ah, ah, ah, ah, ah!

Fulcio.     Vorrei che Caridoro da l’altra parte veduto avessi simulare di lui pietoso, ma timido di incorrere in la nemicizia di suo patre, e pregarlo che se gli levassi di casa, e non volere essere cagione di volerlo mettere2 in disgrazia di quell’uomo, che più di tutti gli altri riverire e osservar devea.

Erofilo.     Ah, ah, ah, ah!

Fulcio.     Vorría che me veduto avessi in mezzo, raccomandare quel misero, e proporre a Caridoro che modi avea a tenere per ajutarlo.

Erofilo.     Ah, ah, ah! saría stato impossibile ch’io avessi potuto ritenere le risa.

Fulcio.     Al fin, io diedi per consiglio a Lucrano, che facessi Corisca venire, chè con la presenza d’essa so che movería il giovene meglio ad ajutarlo. Accettò il partito, e scrisse questa polizza, e dièmmi per segno questo anello; e così vo a tôrre la femmina, alla cui giunta son certo che s’ha da concordare il tutto.

Erofilo.     T’aspetta, dunque, il ruffiano alla stanza di Caridoro?

Fulcio.     Va’,3 ch’io ti tacevo il meglio. Noi l’avemo, perchè non sia da quelli di casa e quelli che vanno e vengono veduto, fatto appiattare sotto il letto, dove si sta con la maggior paura del mondo, e non osa, per non esser sentito, respirare. [p. 51 modifica]

Erofilo.     Che Caridoro abbi del suo amore così piacevole successo, raddoppia l’allegrezza ch’io sento d’aver la mia Eulalia ritrovata; la qual mi è stata più gioconda a ritrovare dopo tanti disturbi e timori avuti che per me non fussi totalmente perduta, che se, quando prima io l’attendeva, me l’avessi condotta il mercante nostro; perciò che in quella aspettazione aveva una gran parte già finita e quasi communita4 del mio gaudio.

Fulcio.     Così accade: che una buona cosa più diletta quando più viene insperata.

Erofilo.     E così uno improvviso male vie più che l’aspettato è molesto.5 Il che provo al presente della pessima novella che m’hai detta, che mio padre sia tornato, e che abbi tutta la nostra pratica intesa, e sia Volpino, il nostro consigliere, in prigione.

Fulcio.     Tu potrai medicare facilmente tutto questo male. Con quattro o sei buone parole che tu dia a tuo padre, farai che averà di grazia a perdonarti, e farà ciò che tu vuoi, pur che gli mostri d’averlo in timore e in reverenzia; e di questa pace nascerà che libererai Volpino dal pericolo in che si truova: ed a te tocca, Erofilo, di salvarlo.

Erofilo.     Io ne farò ogni buona opera.

Fulcio.     Un’altra cosa che non meno importa, avemo a fare ancora.

Erofilo.     Che avemo a fare?

Fulcio.     Che dimattina all’alba questo ruffiano se ne fugga.

Erofilo.     Faccisi: chi l’impedisce che non possa fuggire?

Fulcio.     Il non avere uno aspro6 da potersene (io tel so dire) levare con sua famiglia e robe, e da vivere per il cammino.

Erofilo.     Di questo con ogn’altro che con meco ti consiglia, chè per me non ho che dargli.

Fulcio.     Tu saresti ben povero: fàtti prestar danari. [p. 52 modifica]

Erofilo.     Da chi?

Fulcio.     Dall’Ebreo, s’altri non hai che ti soccorra.

Erofilo.     E che pegno ho io da darli?

Fulcio.     Venticinque o trenta saraffi che mi dessi, saría a bastanza.

Erofilo.     Tu parli meco indarno; io non gli ho, nè so da chi averli.

Fulcio.     Il resto fino a cinquanta troverà Caridoro.

Erofilo.     S’io vi sapessi modo, non mi faría pregare.

Fulcio.     Come faremo adunque?

Erofilo.     Pénsavi tu.

Fulcio.     Vi penso: non me ne potresti dare una parte?

Erofilo.     Non te ne potrei dare uno: tu getti via parole. Tu saprai bene investigare, se vi pensi, che si farà senza.

Fulcio.     Non si può far senza a patto nessuno.

Erofilo.     Dunque, trovagli tu.

Fulcio.     Penso ove trovarli.

Erofilo.     Pénsavi.

Fulcio.     Vi penso tuttavia, e forse forse te gli troverò.

Erofilo.     Io mi confido nel tuo ingegno, chè gli sapresti far nascere di nuovo, se ben non se ne trovassi al mondo.

Fulcio.     Orsù, lasciane la cura a me, ch’io spero di trovargli questa notte. Ancora io mi espedirò di condurre prima costei a Caridoro, e applicherò poi tutto l’animo a trovar questi danari. O tu, qualunque ti sia, che là entri, fèrmati, ch’io ti parli un poco.

Furba.     Se tu m’avessi comprato, non mi dovresti comandare con più arroganza. S’io ti son bisogno, viemmi dietro.

Fulcio.     Costui dimostra esser famiglio7 di lui. Egli è; sì ben imita li superbi costumi di suo patrone.


SCENA II.

EROFILO, CRISOBOLO.


Erofilo.     (Io anderò in casa, e vederò di mitigare mio padre: chè se non fusse per ajutar Volpino, non ardirei per [p. 53 modifica]dieci giorni andarli innanzi. Ma chi apre la porta? Aimè, che è esso! io mi sento struggere il cuore.)

Crisobolo.     Come tardano a ritornare quest’altri! Ancor non gli sento apparire da nessun canto: e dove possono essere li gaglioffi a questa ora? Vedi che saría s’io ci stessi da casa tre mesi o quattro assente, ch’un mezzo dì ch’io ne son stato, mi trovo sì bene! Ma se mi giunta il scelerato più, gli perdono. Come ero io sciocco ad ascoltare le sua ciance!

Erofilo.     (Io sono in dubbio s’io me gli appresento o s’io mi resto.)

Crisobolo.     S’egli sa con sue astuzie uscir di ceppi ove io l’ho fatto porre, gli do licenzia che mi vi metta in suo cambio.

Erofilo.     (Bisogna, infine, far buono animo: altramente. Volpino starà fresco.)

Crisobolo.     Tu sei qui, valent’uomo?

Erofilo.     O patre, tu non sei ito? E quando ritornasti?

Crisobolo.     Con che audacia, ribaldo e sfacciato, tu mi vieni innanzi?

Erofilo.     M’incresce, patre, fino al cuore averti dato causa di turbarti.

Crisobolo.     Se dicessi il vero, viveresti meglio che tu non fai. Va pur, ch’io ti gastigherò da tempo che8 tu crederai ch’io me l’abbia scordato.

Erofilo.     Io sarò un’altra volta meglio avvertito, nè mai più darò causa di dolerti di me.

Crisobolo.     Io non voglio che con parole dimostri di donar quello che tu studi con fatti levarmi sempre. Io non pensavo già, Erofilo, che di buon fanciullo che con sì gran studio ti allevai, tu devessi riuscire uno delli più tristi e dissoluti gioveni di questa città; e quando io t’aspettavo9 che mi fussi bastone per sustentare la mia vecchiezza, mi devessi essere bastone per battermi, per rompermi e farmi innanzi l’ora morire.

Erofilo.     O patre!

Crisobolo.     Tu m’appelli patre con ciance, ma con l’opre tu dimostri poi essermi il più capital nemico ch’io abbia al mondo.

Erofilo.     Perdonami, patre. [p. 54 modifica]

Crisobolo.     Se non fussi per l’onor di tua matre, io direi che non mi fussi figliuolo. Io non veggio in te costumi che mi rassomigli, e molto avrei più caro che mi rassomigliassi nelle buone opere, che in viso.

Erofilo.     Incusa10 la giovenezza mia.

Crisobolo.     Non credi tu che anch’io sia stato giovene? Io in la tua etate era sempre a lato al tuo avo, e con sudore e fatica lo ajutava ad ampliare il patrimonio e le facultà nostre, che tu,11 prodigo e bestiale, con tua lascivia cerchi consumare e struggere. Sempre nella gioventù mia era il maggior mio desiderio d’esser presso agli uomini buoni stimato buono, e con quelli conversava, e questi con tutto il studio mio cercava imitare: e tu, pel contrario, hai sol pratica di ruffiani e bari e bevitori, e simile canaglia; che se mio figliuolo vero fussi, avresti rossore d’esser veduto loro in compagnia.

Erofilo.     Ho fallato, patre, perdonami, e sta sicuro che questo sarà l’ultimo fallo che t’abbia a far mai più disdegnar meco.

Crisobolo.     Erofilo, per Dio ti giuro che, se non t’emendi, ti farò con tuo grande spiacere conoscere ch’io mi risento. Se ben talor fingo di non vederti, non ti creder ch’io sia però cieco. Se non farai il tuo debito, io farò il mio; e minor danno è stare senza figliuolo, che averlo scelerato.

Erofilo.     Padre, mi sforzerò per l’avvenire esserti più obbediente.

Crisobolo.     Se attendi al ben vivere, oltre che mi farai cosa gratissima e quel che ti si conviene, tu farai l’utilità tua; e siene certo.12


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SCENA III.

FULCIO, MARSO servi.


Fulcio.     Debb’io qui tutta notte espettare, come io non abbia se non questa faccenda? Sollécitala tu fin ch’io ritorni, chè vo qui appresso. — Spendono queste femmine pur assai tempo in adornarsi; mai non ne vengono al fine: mutano ogni capello in dieci guise; innanzi che si contentino che così resti, è che fare. Apprima13 col liscio, — oh che lunga pazienzia! — or col bianco, or col rosso, metteno, levano, acconciano, guastano, cominciano di nôvo, tornano mille volte a vedersi, a contemplarsi nel specchio: in pelarsi poi le ciglia, in rassettarsi le poppe, in rilevarsi ne’ fianchi, in lavarsi, in ungersi le mani, in tagliarsi l’ugne, in fregarsi, strusciarsi14 li denti, oh quanto studio, quanto tempo si consuma! quanti bossoli, ampolle, vasetti, oh quante zacchere si mettono in opera! in minor tempo si devea di tutto punto armare una galéa. Io potrò ben con grande agio fornire intanto la battaglia che ho giurata a Crisobolo, poichè ho la maggior fortezza espugnata, prima che li nemici avessino drizzata l’artiglieria, per battere l’ultima rôcca che mi fa guerra, che è la borsa di questo tenacissimo vecchio: che se mi succede, come io spero,15 di aver rotti, vinti ed esterminati gli nemici averò tutta la gloria solo. Or, bussando a questa porta, assalterò le sprovedute guardie.

Marso.     Chi è?

Fulcio.     Fa assapere a Crisobolo, che un messo del signor Bassam gli ha da fare una imbasciata.

Marso.     Che, non entri tu in casa?

Fulcio.     Dìgli che si degni venir fôra per buon rispetto, e che per una sua gran faccenda io son venuto.


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SCENA IV.

CRISOBOLO, FULCIO.


Crisobolo.     Chi a quest’ora importuna mi domanda?

Fulcio.     Non ti maravigliare; e perdonami s’io t’ho chiamato qui fôra, chè avendoti a dire cose secretissime, non mi fido costà drento di non essere udito da gente che poi lo rapporti. Io mi potrò meglio qui vedere a torno, nè averò dubbio che mi ascolti uomo che io non veggia. Ma ritiriânci più nella strada, e fa che questi tuoi si stieno drento.

Crisobolo.     Espettatemi in casa voi. Tu di’ ciò che ti pare.

Fulcio.     Io t’ho da salutare prima in nome di Caridoro, figliuolo di Bassam di Metellino, il quale, per la amicizia che è fra tuo figliuolo e lui, t’ha in osservanzia ed ama come patre; e per questo, dove lui veggia di posserti fare utile e onore e schivarti biasimo e danno, non è mai per mancarti.

Crisobolo.     Io lo ringrazio, e gli sono obbligatissimo sempre.

Fulcio.     Or odi. Uscendo egli testè di casa per andare, come usano li gioveni, a spasso (ed io era con lui), ci scontramo innanzi al palazzo, come la tua buona sorte vuole, in uno certo ruffiano, che dice essere tuo vicino...

Crisobolo.     Oh bene!

Fulcio.     Che veniva irato, gridando; e con dui, che non so chi si sieno, molto di te e di tuo figliuolo si doleano.16

Crisobolo.     E che dicea?

Fulcio.     E’ se n’andava al Bassam diritto a querelarsi, se non l’avesse Caridoro ritenuto, di un giunto che gli ha fatto il figliuol tuo; che in verità, se dice il vero, ch’è di pessima natura e sorte.

Crisobolo.     (Or pon mente che travaglio mi si apparecchia per la pazzia di costui!)

Fulcio.     Dicea che un certo barro, che vestito a guisa di mercatante...

Crisobolo.     (Or vedi che pur...)

Fulcio.     Gli avea mandato con certo pegno a tôrre una sua femmina. Io non l’ho inteso a punto, perchè m’ha Caridoro con troppa fretta mandato ad avvisarti correndo. [p. 57 modifica]

Crisobolo.     Ha fatto l’offizio di buono amico.

Fulcio.     E quelli dui che ha seco il ruffiano, come t’ho detto, mi par che vogliano testificar per lui a tuo carico.

Crisobolo.     E di che?

Fulcio.     Dicono che ’l barro che ha fatto il giunto, è in casa tua, e che di tuo consentimento è condotta questa cosa.

Crisobolo.     Di mio consentimento?

Fulcio.     Così dice; e mi17 par d’aver anco inteso, che tu in persona sei andato a tôrre o cassa o forziere di casa del ruffiano.

Crisobolo.     Ah di quanto male sarà causa la leggerezza18 d’uno fanciullo, sollicitata dal stimulo d’un ribaldo!

Fulcio.     Io non ti so ben dire il tutto, chè per la fretta d’avvisarti ho auto, non gli potetti se non in confuso intendere. Caridoro ti manda a dire, che ritenerà quanto gli sarà possibile il ruffiano chè non parli al signore; ma che intanto tu vi veggia di provedere,19 acciò che oltra il danno, che saría molto, non ricevessi col tuo figliuolo alcuna pubblica vergogna.

Crisobolo.     Che provisione vi posso fare io? Vedi se tutte le sciagure mi perseguono sempre!

Fulcio.     Fàgli restituire la femmina, o dàgli qualche aspro, chè si taccia.

Crisobolo.     Gli farei la femmina restituire di grazia; ma mi pare che se l’hanno, per loro sciocchezza, lasciata tra via tôrre, non sanno da chi.

Fulcio.     Non ha Erofilo, dunque, la femmina in mano?

Crisobolo.     Non, ti dico, e non sa che ne sia.

Fulcio.     Cotesto è il peggio. Come si potrà fare adunque?

Crisobolo.     Che so io? Ben so’ il più sfortunato e miser uomo che sia al mondo.

Fulcio.     La più corta e miglior via è che tu gli paghi la femmina quello che ad altri l’ha possuta vendere, e che si faccia tacere.

Crisobolo.     Mi par strano devere spendere il mio denajo in cosa che non abbia20 ad avere utile.

Fulcio.     Non si può sempre guadagnare, Crisobolo; benchè non sia poco guadagno a vietare con pochi danari uno grandissimo danno, una pubblica vergogna non ti venga [p. 58 modifica]addosso. Se all’orecchie del signore verrà simil querela, a che termine ti troverai? Patirai tu sentire inquirerti21 contra? chiamare tuo figliuolo in ringhiera? gridare in bando? Oltra questo, pensa che hai nome del più ricco uomo di questa terra: a quel che molti altri ripareriano con cento, tu non potrai ben riparare con mille: tu intendi.

Crisobolo.     Che ti par ch’io faccia?

Fulcio.     Questo ruffiano è povero e timido, come sono li pari suoi: se gli sarà la femmina pagata, lo farem tacere; perchè già Caridoro gli ha fatto intendere, che se vorrà litigar teco, non la farà bene, perchè hai danari da tenerlo tutta la vita sua in piato, e de’ parenti ed amici da farlo un dì pentire di averti dato noja.

Crisobolo.     Sai quanto se ne tenessi cara la femmina? o quel che n’abbia possuto avere?

Fulcio.     Mi fu già detto che un soldato valacco glie ne offerse cento saraffi, e dare non glie la volse; chè per meno di cento venti dicea che non la lascería mai.

Crisobolo.     Con minor prezzo s’avría uno armento di vacche. Cotesto saría ben troppo: io non ne vô far nulla: lamentisi, e faccia il peggio che puole.

Fulcio.     Mi par strano che più estimi questi pochi danari....

Crisobolo.     Pochi, eh?

Fulcio.     Che ’l tuo figliuolo, te medesimo, l’onor tuo. Io referirò dunque a Caridoro che non ne vuoi far nulla.

Crisobolo.     Non si potría con meno far tacere questo ruffiano?

Fulcio.     Si potería con uno cortello, che costería meno, e scannarlo.

Crisobolo.     Io non dico così. Cento venti saraffi è pur troppo prezzo.

Fulcio.     Forse lo farai star queto per cento; per quel medesimo che da gli altri n’ha possuto avere.

Crisobolo.     E non per meno?

Fulcio.     Che so io? vorrei in tuo servizio che lo potessi acquetare con nulla. S’io fussi Crisobolo, manderei súbito Erofilo con danari a trovare Caridoro: saremo tutti insieme [p. 59 modifica]addosso al ruffiano, ed acconceremola con minor tua spesa che sia possibile.

Crisobolo.     Meglio è ch’io medesimo vi venga.

Fulcio.     Non far, diavolo! Se ’l ruffiano ti vede caldo in questa pratica, crederà che di tuo consentimento l’abbia il tuo figliuolo gabbato, e con speranza di farti trarre più in grosso,22 ristaràssi e farà l’asino23 il possibile: anzi mi pare che Erofilo venga solo, e che finga di cercare sanza tua saputa questo accordo, e che abbia trovati questi danari o dagli amici o all’interesso.

Crisobolo.     Erofilo vi venga solo? sì, per Dio, perchè gli è molto cauto! Si lasciaría in un tratto avviluppare e tirarsi come ’l buffalo per il naso.

Fulcio.     Non è delli tuoi servo alcuno che sia accorto e pratico, da mandare con lui? Che è di quel tuo Volpino? Suol avere pure il diavol in testa. Egli sarà buono quanto possi desiderare.

Crisobolo.     Quel ladroncello è stato causa, guida e capo di tutta questa ribalderia: io l’ho in ceppi, e trattaròllo come proprio lui merita.

Fulcio.     Non lasciar, Crisobolo, che la collora ti regga: mandalo con Erofilo, chè non puoi far meglio.

Crisobolo.     È il maggior tristo, ogni modo, che sia al mondo: tutta volta io non ho alcuno in casa che sapessi poner due parole insieme, ed è forza, non possendo far altramente, che pur a lui ricorra. Ben mi rincresce.

Fulcio.     Lascia andare: tu arai tempo di castigarlo dell’altre volte.

Crisobolo.     Dio sa ben quanto mi par duro a roder questo osso. Ma sia con Dio; non ti partire: manderògli ora ambidui con teco.

Fulcio.     Io gli aspetto. — Or mi perviene il trionfo meritamente, poichè rotti io ho gli nemici e disfatti totalmente; senza sangue, senza danno delle mie squadre, ho lor ripari e lor fortezze24 tutte spianate a terra, e tutti al mio fisco fatti [p. 60 modifica]di più somma tributarî, che non fu al mio principio mia speranza. Altro non mi resta ora che sciôrre il voto che ti feci. Fortuna, di stare imbriaco quattro giorni25 intieri: io ti satisfarò volentieri, e vi darò principio tosto ch’io n’abbia agio. Ma ecco che li miei soldati escono, carichi di spoglie e preda ostile, di casa di Crisobolo; e sol pônno questa lor ventura al mio ingegno, alla mia virtù attribuire.


SCENA V.

VOLPINO, EROFILO, FULCIO.


Volpino.     Io vederò di farlo rimanere tacito per quel che poterò meno, e farò più che se tu ci fusse in persona, e so che ti loderai di me.

Erofilo.     O Fulcio, quando ti poterò mai referire degne grazie del gran benefizio che tu m’hai fatto? S’io mettessi per te ciò ch’io ho al mondo, non mi par che mai satisfar potessi all’obbligo ch’io ho teco.

Fulcio.     Mi basta assai che mi facci buon viso.

Erofilo.     Ma dove è la mia unica speranza, il mio refugio, la vera mia salute?

Volpino.     Fulcio, di gran travagli, di gran paura, di crudelissimi tormenti hai liberata questa vita; sì che ad ogni tuo cenno io son per spenderla dove ti parrà.

Fulcio.     Volpino, queste son opere che si prestano. Ti pare, Erofilo, ch’io t’abbia saputo ritrovar danari in abondanzia?

Erofilo.     Molto più che quelli che avemo detti.

Fulcio.     Ho voluto che, oltra a quelli che daremo al ruffiano, tu n’abbi per mantenere la fanciulla, e per le spese, e per gli altri suoi bisogni.

Erofilo.     Eccoteli tutti; fanne quel ti pare.

Fulcio.     Tiengli e portagli teco, chè súbito che io abbia condotta Corisca a Caridoro, ti verrò a casa del Moro a ritrovare. — Brigata, tornátevene a casa, chè questa fanciulla ch’io vo a tôrre, non vuole esser veduta uscire; e devendo anco il ruffiano fuggirsene, non è a proposito che ci sieno tanti testimoni. E fate segno d’allegrezza.




Note

  1. E nella lingua francese il modo: c’est le diable, per dire: Qui è la grande difficoltà. In questo luogo lo crediamo imitato per significare: La è cosa di gran pericolo.
  2. Così le antiche stampe.
  3. Va’ è sincope di Varda esclamativo, in que’ luoghi ove così pronunziasi invece di Gua’ e Guarda. Di tutti tace il Vocabolario.
  4. Abbiamo noi pure impresse queste parole come si leggono nelle antiche stampe; non senza però proporne questa molto probabile correzione: già fruita e quasi consunta (o consumata). In quanto a fruita, sta per noi la traslazione in versi, ove è detto: «già buona parte avevomi... fruito del gaudio.» Le parole e quasi communita, che il Barotti ed altri soppressero come inesplicabili, le stimiamo procedenti da mala intelligenza di consumta, o consumata, che sarà già stato nei manoscritti.
  5. Ant. stamp.: vi è più che l’aspettato molesto.
  6. Moneta turchesca di picciolissimo valore.
  7. Le antiche stampe: fameglio. E così molte volte la e, dove i moderni pronunziano i: al che, per amore di chiarezza, non abbiamo creduto di conformarci.
  8. Allorchè, quando tu crederai ec. — (Tortoli.)
  9. Così le antiche stampe e il Barotti.
  10. Accagiona. Latinismo non frequente, e già registrato.
  11. Ant. stamp.: e che.
  12. Respettivamente a questa scena, il Baruffaldi, nella Vita dell’autore, riporta un aneddoto che sembra essersi come per tradizione conservato nella famiglia di lui; cioè, che essendo egli un giorno, come spesso accadeva, ammonito dal padre pe’ suoi giovanili trascorsi, «soffrì la correzione in silenzio, e senza arrecare discolpa. Del che avendo di lì a poco ragionamento con Gabriele suo minor fratello (presso del quale bravamente purgòssi), e pressandolo questi a dire perchè mai usata avesse col padre tanta moderazione, Lodovico rispose, che in quel frattempo egli corse colla fantasia ad una scena della sua commedia intitolata la Cassaria, intorno alla quale stava attualmente travagliando; e mentre appunto il padre lo ammoniva, egli studiavasi di trasportare dal vero al finto i tratti di quella scena. Peraltro, io con alcuni sono d’avviso, che tanto l’idea di quella scena, quanto il carattere di qualche personaggio nella Commedia introdotto, debbansi dire piuttosto una studiata imitazione dell’Andria di Terenzio, che un improvviso pensiero nato dall’incontro avuto col padre.» Pag. 23-24.
  13. Così ci è parso d’interpretare la forma certamente della stampa del Zoppino: resti, et che far à prima. Cercò, ma non trovò, al parer nostro, un senso il Barotti, che ponendo il punto dopo resti, emendò: «E che faranno prima col liscio?»
  14. Stropicciarsi. — (Tortoli.) — In questo senso non è voce toscana.
  15. Gli antichi editori tramettono: rapporterò.
  16. Così tutte le stampe; solo la più recente corregge: si dolea. Non è impossibile questa relazione, come dicono, intellettuale, poichè il discorso facevasi in tre persone, due delle quali si suppongono consenzienti ai detti dell’altro.
  17. Manca mi nelle antiche edizioni.
  18. Così corresse il Barotti l’errore delle stampe ov’è scritto: l’allegrezza.
  19. Tu vegga di provvedervi.
  20. Così le stampe; ma potrebbe anco sciogliersi: non n’abbia.
  21. Male le stampe antiche: inquirarti. Vedi il luogo corrispondente della Commedia in versi. Il verbo Inquirere (che tutti al certo preferiranno a Inquirire) fu, dopo l’Ariosto, tre volte usato da Camillo Porzio, nella Storia della congiura de’ Baroni, cioè a pag. 225 e 229 dell’edizione procurata dal Monzani (tip. Le Monnier) nel 1846.
  22. Trarre in grosso è frase in questo o in altri sensi non osservata. In grosso bensì, per In quantità maggiore, trovasi accompagnato con verbi diversi nelle Novelle antiche ed altrove.
  23. La frase di chiaro senso, e ripetuta nella commedia in versi, Fare l’asino, è pure tra le non raccolte fra quelle che si formano con quel nome e quel verbo medesimi.
  24. Le altre edizioni hanno forze; ma io correggo fortezze, come ha la commedia in versi, e come richiede il senso. — (Tortoli.)
  25. Così hanno le stampe; ma nella scena ottava dell’atto IV aveva detto tre giorni. — (Tortoli.)