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atto quinto. — sc. ii. 53

dieci giorni andarli innanzi. Ma chi apre la porta? Aimè, che è esso! io mi sento struggere il cuore.)

Crisobolo.     Come tardano a ritornare quest’altri! Ancor non gli sento apparire da nessun canto: e dove possono essere li gaglioffi a questa ora? Vedi che saría s’io ci stessi da casa tre mesi o quattro assente, ch’un mezzo dì ch’io ne son stato, mi trovo sì bene! Ma se mi giunta il scelerato più, gli perdono. Come ero io sciocco ad ascoltare le sua ciance!

Erofilo.     (Io sono in dubbio s’io me gli appresento o s’io mi resto.)

Crisobolo.     S’egli sa con sue astuzie uscir di ceppi ove io l’ho fatto porre, gli do licenzia che mi vi metta in suo cambio.

Erofilo.     (Bisogna, infine, far buono animo: altramente. Volpino starà fresco.)

Crisobolo.     Tu sei qui, valent’uomo?

Erofilo.     O patre, tu non sei ito? E quando ritornasti?

Crisobolo.     Con che audacia, ribaldo e sfacciato, tu mi vieni innanzi?

Erofilo.     M’incresce, patre, fino al cuore averti dato causa di turbarti.

Crisobolo.     Se dicessi il vero, viveresti meglio che tu non fai. Va pur, ch’io ti gastigherò da tempo che1 tu crederai ch’io me l’abbia scordato.

Erofilo.     Io sarò un’altra volta meglio avvertito, nè mai più darò causa di dolerti di me.

Crisobolo.     Io non voglio che con parole dimostri di donar quello che tu studi con fatti levarmi sempre. Io non pensavo già, Erofilo, che di buon fanciullo che con sì gran studio ti allevai, tu devessi riuscire uno delli più tristi e dissoluti gioveni di questa città; e quando io t’aspettavo2 che mi fussi bastone per sustentare la mia vecchiezza, mi devessi essere bastone per battermi, per rompermi e farmi innanzi l’ora morire.

Erofilo.     O patre!

Crisobolo.     Tu m’appelli patre con ciance, ma con l’opre tu dimostri poi essermi il più capital nemico ch’io abbia al mondo.

Erofilo.     Perdonami, patre.


  1. Allorchè, quando tu crederai ec. — (Tortoli.)
  2. Così le antiche stampe e il Barotti.