L'isola misteriosa/Parte terza/Capitolo XIII
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L’ISOLA MISTERIOSA
PARTE TERZA
CAPITOLO XIII.
Che era mai accaduto? Chi aveva colpito i deportati? Ayrton forse? No, perchè un istante prima temeva il loro ritorno.
Ma Ayrton era allora immerso in un profondo sopore, da cui non fu possibile toglierlo. Dopo le poche parole che aveva proferite, il torpore si era impadronito di lui, ed egli era ricaduto sul letto senza movimento.
I coloni, in preda a mille confusi pensieri, aspettarono tutta notte senza lasciar la casa di Ayrton, senza tornare là dove giacevano i cadaveri dei deportati. Pensando alle circostanze in cui costoro avevano trovato la morte, era verosimile che Ayrton non saprebbe loro dirne nulla, poichè non sapeva egli medesimo di trovarsi nella casa del ricinto; ma almeno doveva essere in grado di raccontare i fatti che avevano preceduto la terribile catastrofe.
Il domani, Ayrton uscì dal torpore, ed i suoi compagni gli mostrarono cordialmente tutta la gioja che provavano in rivederlo quasi sano e salvo, dopo centoventiquattro giorni di separazione.
Ayrton allora narrò in poche parole l’accaduto, od almeno tutto quanto sapeva.
Il domani del suo arrivo al ricinto, il 10 novembre passato, al cader della notte, egli era stato sorpreso dai deportati che avevano dato la scalata alla cinta.
Costoro lo legarono e lo imbavagliarono, poi lo trassero in una caverna oscura a’ piedi del monte Franklin, là dove i deportati si erano rifugiati.
La sua morte era stata deliberata, ed il domani egli stava per essere ucciso, quando uno dei deportati lo riconobbe e lo chiamò col nome che portava in Australia. Quei miserabili volevano trucidare Ayrton, rispettarono Ben Joyce!
Ma, da quel momento, Ayrton fu fatto segno alle ossessioni dei suoi antichi complici, i quali volevano ricondurlo ad essi e contavano sopra di lui per impadronirsi del Palazzo di Granito, per penetrare in quell’inaccessibile dimora e divenire i padroni dell’isola dopo averne assassinato i coloni.
Ayrton resistette. L’antico pirata, pentito e perdonato, sarebbe morto meglio che tradire i compagni.
Ayrton, legato, imbavagliato, tenuto d’occhio, visse in quella caverna per quasi quattro mesi.
Frattanto i deportati avevano scoperto il ricinto, poco tempo dopo il loro arrivo nell’isola, e d’allora in poi avevano vissuto colle provviste colà trovate, ma senza abitarlo.
L’11 novembre, due dei banditi, sorpresi dall’arrivo dei coloni, fecero fuoco su Harbert, e uno di essi tornò, vantandosi di aver ucciso uno degli abitanti dell’isola, ma tornò solo. L’altro, come è noto, era caduto sotto il pugnale di Cyrus Smith.
S’immagini la disperazione ed il dolore di Ayrton quando udì la notizia della morte di uno de’ suoi amici.
I coloni non erano più che quattro, e per così dire alla mercè dei deportati.
In tutto quel tempo i deportati non lasciarono la caverna, ed anzi, dopo aver saccheggiato l’altipiano di Lunga Vista, non credettero prudente abbandonarlo.
I maltrattamenti inflitti ad Ayrton raddoppiarono.
Le sue mani ed i suoi piedi portavano ancora la sanguinosa impronta dei lacci che lo legavano giorno e notte. Ad ogni istante aspettava una morte, alla quale non gli sembrava poter sottrarsi.
Fu così fino alla terza settimana di febbrajo. I deportati, spiando sempre un’occasione favorevole, lasciavano raramente il loro ricovero, e fecero solo qualche escursione di caccia nell’interno dell’isola e sulla costa meridionale. Ayrton non aveva notizie degli amici e non sperava più di rivederli.
Finalmente il disgraziato, indebolito dai maltrattamenti, cadde in una prostrazione profonda, che più non gli permise nè di vedere, nè di intendere. Così da quel momento, vale a dire da due giorni, non poteva dire neanche che fosse accaduto.
— Ma, signor Smith, aggiunse egli, poichè ero imprigionato in quella caverna, come avviene che mi trovo al ricinto?
— E come avviene che i deportati siano là, morti, in mezzo alla cinta? interrogò l’ingegnere.
— Morti! esclamò Ayrton, il quale, malgrado la sua debolezza, si sollevò a mezzo.
I compagni lo sorressero. Egli volle levarsi, e fu lasciato fare, poi tutti insieme si diressero verso il rigagnolo.
Era giorno chiaro.
Colà, sull’argine, nella posizione in cui li aveva colti una morte che aveva dovuto essere fulminante, giacevano i cinque deportati.
Ayrton era come atterrito. I coloni lo guardavano senza proferir parola.
Ad un cenno dell’ingegnere, Pencroff e Nab visitarono quei corpi già irrigiditi dal freddo.
Non portavano alcuna traccia apparente di ferite.
Solo, dopo di averli esaminati attentamente, Pencroff vide in fronte dell’uno, nel petto o nelle spalle degli altri, un punticino rosso, specie di contusione visibile appena, e di cui non si poteva riconoscere l’origine.
— Ecco dove sono stati colpiti! disse Cyrus Smith.
— Ma con qual’arme!? esclamò il reporter.
— Con un’arme fulminante di cui non abbiamo il segreto.
— E chi li ha fulminati? domandò Pencroff.
— Il giustiziere dell’isola, rispose Cyrus Smith, colui che vi ha trasportato qui, Ayrton, colui la cui influenza si è ancora manifestata, colui che fa per noi tutto quanto non possiamo fare noi medesimi e che ciò fatto ci si nasconde.
— Cerchiamolo adunque! esclamò Pencroff.
— Sì, cerchiamolo, rispose Cyrus Smith, ma l’essere superiore che compie di siffatti prodigi non lo troveremo se non piaccia finalmente a lui di chiamarci.
Codesta protezione invisibile, che riduceva a nulla la loro propria azione, irritava e commoveva insieme l’ingegnere. La sua inferiorità relativa, fatta così manifesta, era di quelle di cui un’anima fiera può sentirsi ferita. Una generosità che si accomoda in guisa da eludere ogni ricompensa, mostrava una specie di disprezzo che guastava, agli occhi di Cyrus Smith, il valore del benefizio.
— Cerchiamolo, aggiunse egli, e voglia Iddio che ci sia permesso un giorno di provare a questo protettore altero ch’egli non ha da fare con ingrati! Che non darei io perchè potessimo pagarlo, rendendogli alla nostra volta, anche a prezzo della vita, qualche segnalato servigio!
Quind’innanzi questa ricerca fu l’unico pensiero degli abitanti dell’isola Lincoln; ogni cosa li spingeva a scoprire la parola di quell’enigma, parola che non poteva essere che il nome d’un uomo dotato d’una potenza inesplicabile e per così dire sovrumana.
Dopo alcuni istanti, i coloni rientrarono nel ricinto, dove le loro cure ridonarono ad Ayrton l’energia morale e fisica.
Nab e Pencroff portarono i cadaveri dei deportati nella foresta, a qualche distanza dal ricinto, e li seppellirono profondamente.
Poi Ayrton fu informato degli avvenimenti compiutisi durante la sua prigionia. Egli apprese allora le avventure di Harbert e seppe per qual serie di prove i coloni fossero passati. Quanto a costoro più non speravano di rivedere Ayrton, e temevano che i deportati l’avessero spietatamente trucidato.
— Ed ora, disse Cyrus Smith terminando il suo racconto, ci rimane un dovere da compiere. La nostra impresa è fatta per metà, ma se i deportati non sono più da temere, non è già a noi stessi che dobbiamo d’essere ridivenuti padroni dell’isola.
— Ebbene, rispose Gedeone Spilett, esploriamo tutto questo labirinto di contrafforti del monte Franklin! Non lasciamo un vano inesplorato! Ah! se mai reporter si è trovato dinanzi ad un mistero commovente, sono io quello, amici miei!
— E non torniamo al Palazzo di Granito, soggiunse Harbert, se non quando abbiamo ritrovato il nostro benefattore.
— Sì, disse l’ingegnere, faremo tutto quanto è umanamente possibile fare; ma, lo ripeto, non lo troveremo, se non ce lo vorrà permettere.
— Rimaniamo al ricinto? disse Pencroff.
— Rimaniamo, rispose Cyrus Smith; le provviste sono abbondanti, e qui siamo nel centro delle nostre investigazioni. D’altra parte, se sarà necessario, il carro andrà prontamente al Palazzo di Granito.
— Bene! esclamò il marinajo; soltanto un’osservazione.
— Quale?
— La bella stagione si avanza, e non bisogna dimenticare che abbiamo da fare una traversata.
— Una traversata? disse Gedeone Spilett.
— Sì, quella dell’isola Tabor, rispose Pencroff. È necessario portarvi una notizia, che indichi la situazione dell’isola Lincoln in cui si trova ora Ayrton, per il caso che lo yacht scozzese venisse a riprenderlo. Chissà che non sia già troppo tardi!
— Ma, Pencroff, domandò Ayrton, come volete fare la traversata?
— Col Bonaventura!
— Il Bonaventura non esiste più.
— Il mio Bonaventura non esiste più! urlò Pencroff dando un balzo.
— No, rispose Ayrton, i deportati l’hanno scoperto nel suo piccolo porto, otto giorni sono appena, hanno preso il mare, e....
— E!... disse Pencroff a cui batteva il cuore.
— E, non avendo più Bob Harvey per manovrarlo, sono andati ad urtare contro gli scogli, dove il battello si è sfasciato interamente.
— Ah! i miserabili! i banditi! gl’infami! esclamò Pencroff.
— Pencroff, disse Harbert pigliando la mano del marinajo, faremo un altro Bonaventura, ne faremo un altro più grosso; abbiamo tutte le fasciature e tutte le ferramenta del brik a nostra disposizione.
— Ma sapete, rispose Pencroff, che ci vogliono almeno cinque o sei mesi per costrurre un battello di trenta o quaranta tonnellate!
— V’impiegheremo il tempo che ci vorrà, e per quest’anno rinunziamo a fare la traversata dell’isola Tabor.
— Che volete, Pencroff, aggiunse l’ingegnere, bisogna pur rassegnarci! Spero che questo ritardo non ci recherà danno.
— Ah! il mio Bonaventura! il mio povero Bonaventura! esclamò Pencroff, costernato davvero per la perdita del suo battello di cui andava tanto fiero.
La distruzione del Bonaventura era proprio un fatto spiacevole per i coloni, e fu convenuto che tal perdita venisse riparata al più presto. Ciò stabilito, non si trattava più che di compiere l’esplorazione delle più segrete parti dell’isola. Furono incominciate le ricerche nel giorno medesimo, il 19 febbrajo, e durarono una settimana intiera.
La base della montagna, tra i suoi contrafforti e le loro numerose ramificazioni, formava un capriccioso labirinto di valli e controvalli.
Era là evidentemente, in fondo a quelle strette gole, fors’anco entro il monte Franklin, che conveniva proseguire le ricerche. Nessuna parte dell’isola sarebbe stata più acconcia a nascondere un’abitazione, il cui inquilino volesse rimanere sconosciuto. Ma tale era il viluppo di quei contrafforti, che Cyrus Smith dovette procedere all’esplorazione con metodo severo.
I coloni visitarono dapprima la vallata che era al sud del vulcano e che raccoglieva tutte le filtrazioni del rivo della Cascata. Fu là che Ayrton mostrò la caverna, in cui era stato portato ed in cui restò prigioniero fino al suo ritorno nel ricinto. Quella caverna era quale Ayrton l’aveva lasciata, e vi si trovava una certa quantità di viveri e di munizioni che i deportati avevano ammucchiato coll’intenzione di farvi una provvista.
Tutta la valle che metteva alla grotta, valle ombreggiata da conifere, venne esplorata con estrema cura; fatto il giro del fianco sud-ovest, i coloni si cacciarono in una gola più stretta, scavata in quel cumulo pittoresco di basalti del litorale.
Colà gli alberi erano più rari, il sasso sostituiva l’erbe, le capre selvatiche ed i mufloni saltellavano fra le rupi. Cominciava la parte arida dell’isola. Si poteva già riconoscere che delle numerose valli che s’ammucchiavano a’ piedi del monte Franklin, tre sole erano boschive, come quella del ricinto che confinava all’ovest colla valle del rivo della Cascata, ed all’est coll’altra del rivo Rosso. I due rigagnoli, che più giù si mutavano in rivi per l’alimento di alcuni affluenti, erano formati da tutte le acque della montagna, ed erano così cagione della fertilità della sua parte meridionale. Quanto alla Grazia, era più direttamente alimentata da copiose sorgenti perdentesi sotto il fitto del bosco del Jacamar, ed erano pure sorgenti di tale natura, che diramandosi in mille filucci, inaffiavano il terreno della penisola Serpentina.
Ora di queste tre valli, in cui non mancava l’acqua, una avrebbe potuto servire di ricovero a qualche solitario, il quale vi avrebbe trovato tutte le cose necessarie alla vita. Ma già i coloni le avevano esplorate senza poter scorgere in alcun luogo la presenza dell’uomo.
Era dunque in fondo a quelle gole aride ed in mezzo alle frane di roccie, negli aspri burroni del nord, fra i rivi di lava, che si doveva trovare il ricovero e l’ospite suo?
La parte nord del monte Franklin si componeva unicamente, alla sua base, di due valli larghe, poco profonde, senza traccia di verdura, sparse di massi erratici, solcate da lunghe morene, lastricate da lave, accidentate da grossi tumori minerali e come spolverate di obsidiani e di labradoriti. Questa parte richiese lunghe e difficili esplorazioni. Quivi si scavavano molte grotte, poco comode certamente, ma del tutto nascoste e di difficile accesso. I coloni visitarono anche buje gallerie, che datavano dall’epoca plutonica, annerite ancora dai fuochi d’una volta e che s’addentravano nel masso del monte. Vennero percorse quelle gallerie, vi si accesero delle resine, si frugò in ogni minima cavità, si scandagliarono tutte le profondità — per ogni dove silenzio e tenebre. Non pareva che alcun essere umano avesse mai portato i suoi passi in quegli antichi corridoj, o che il suo braccio avesse rimosso un solo di quei macigni. Ogni cosa era certo tal quale il volcano l’aveva gettata fuori delle acque al tempo dell’emersione dell’isola.
Pure, se quelle substruzioni parvero assolutamente deserte, se l’oscurità v’era perfetta, Cyrus Smith dovette riconoscere che non vi regnava l’assoluto silenzio.
Giunto al fondo d’una di quelle buje cavità, che s’addentravano per molte centinaja di piedi nella montagna, fu maravigliato d’udire un sordo brontolío fatto più intenso dalla sonorità delle roccie.
Gedeone Spilett, che l’accompagnava, udì anch’esso quel mormorío lontano, che indicava un ravvivamento dei fuochi sotterranei. Porsero orecchio entrambi più volte, e convennero in dire che qualche reazione chimica si elaborava nelle viscere del terreno.
— Forse che il vulcano non è del tutto spento? disse il reporter.
— È possibile che dopo la nostra esplorazione del cratere siasi compiuto qualche lavorío negli strati inferiori. Qualsiasi vulcano spento può, senza dubbio, riaccendersi.
— Ma se avvenisse un’eruzione del monte Franklin, domandò Gedeone Spilett, non vi sarebbe pericolo per l’isola Lincoln?
— Non credo, rispose l’ingegnere. Il cratere, vale a dire la valvola di sicurezza, esiste, ed il soverchio dei vapori e delle lave sfuggirà come un tempo dalla sua bocca.
— Se pure le lave non s’apriranno un nuovo passaggio verso le parti fertili dell’isola.
— E perchè, mio caro Spilett, non seguirebbero invece la strada che hanno bell’e tracciata?
— Eh! i vulcani sono capricciosi! rispose il reporter.
— Notate, soggiunge l’ingegnere, che l’inclinazione del monte Franklin favorisce lo scolo delle materie verso le valli ch’esploriamo ora. Bisognerebbe che un terremoto mutasse il centro di gravità della montagna perchè lo scolo si modificasse.
— Ma un terremoto è sempre da temersi in queste condizioni? interrogò Gedeone Spilett.
— Sempre, rispose l’ingegnere, sopratutto quando le forze sotterranee cominciano a svegliarsi e le viscere del globo rischiano d’essere ostruite dopo un lungo riposo. Dunque, mio caro Spilett, un’eruzione sarebbe per noi un fatto grave; meglio, molto meglio, che quel vulcano non avesse la velleità di svegliarsi. Ma non ci possiamo far nulla, non è vero? In ogni caso, checchè accada, non credo che il nostro dominio di Lunga Vista possa essere minacciato sul serio. Fra esso la montagna, il suolo è molto avvallato, se mai le lave pigliassero la via del lago, verrebbero gettate sulle dune e sulle parti vicine al golfo del Pesce-cane.
— Non abbiamo ancor visto in cima al monte alcun fumo che indichi una prossima eruzione, disse Gedeone Spilett.
— No, disse Cyrus Smith, nessun vapore sfugge dal cratere, di cui appunto jeri ho esaminato la cima, ma può darsi che nella parte inferiore il tempo abbia già accumulato macigni, ceneri, lave indurite, e che la valvola di cui parlavo sia per ora troppo carica. Al primo sforzo l’ostacolo scomparirà, e potete esser certo, caro Spilett, che nè l’isola, che è una caldaja, nè il vulcano, che ne è il tubo, scoppieranno sotto la pressione dei gas. Pure, lo ripeto, sarebbe meglio che non avvenisse alcuna eruzione.
— Ma non c’inganniamo, soggiunse il reporter, s’ode pure un sordo brontolío nelle viscere medesime del vulcano!
— Sicuro, rispose l’ingegnere ascoltando ancora attentissimo, non è inganno; là sotto avviene una reazione di cui non possiamo apprezzare l’importanza od il risultato ultimo.
Cyrus Smith e Gedeone Spilett, dopo essere usciti, trovarono i compagni, ai quali fecero conoscere quello stato di cose.
— Buono! esclamò Pencroff, il vulcano ne vuol far delle sue; ma provi! troverà il suo padrone.
— Chi mai? domandò Nab.
— Il nostro genio, che gl’imbavaglierà il cratere, sol che minacci d’aprirlo.
Come si vede, la fiducia del marinajo nel Dio speciale della sua isola era assoluta, e certo la forza occulta, che s’era fatta manifesta finora con tanti atti inesplicabili, sembrava non aver confini; ma d’altra parte seppe sottrarsi alle minuziose ricerche dei coloni, i quali, malgrado ogni loro sforzo, malgrado lo zelo e, più che lo zelo, la tenacità messa nelle esplorazioni, non poterono scoprire la strana dimora.
Dal 19 al 25 febbrajo, la cerchia delle investigazioni fu estesa a tutta la regione settentrionale dell’isola Lincoln, di cui vennero frugati tutti gli anditi più segreti.
I coloni giunsero fino a scandagliar le pareti rocciose, come fanno gli agenti di polizia in quelle d’una casa sospetta. L’ingegnere prese anzi una pianta esatta della montagna e portò le sue indagini fin nell’ultime assise che la sorreggevano. Fu esplorata del pari all’altezza del cono tronco, che terminava il primo piano di roccie, poi fino alla cresta superiore in quell’enorme cappello, in fondo a cui s’apriva il cratere.
Si fece più ancora; si visitò l’abisso, tuttavia spento, ma nelle profondità del quale s’udiva un brontolio distinto. Pure, nè fumo, nè vapore, nè riscaldamento delle pareti annunziava una prossima eruzione.
In quella, come in ogni altra parte del monte Franklin, i coloni non trovarono le traccie di colui che cercavano.
Le investigazioni furono allora dirette su tutta la regione delle dune. Vennero visitate attentamente le alte muraglie laviche del golfo del Pesce-cane, dalla base alla cresta, benchè fosse estremamente difficile giungere al livello medesimo del golfo. Nessuno! nulla!
Finalmente, queste due parole compendiarono tante fatiche inutilmente spese, tanta ostinazione senza frutto, ed una specie di collera segnalò la sconfitta di Cyrus e dei suoi compagni.
Bisognò dunque pensare al ritorno, perchè quelle ricerche non potevano durare all’infinito. I coloni erano veramente in diritto di credere che l’essere misterioso non abitasse la superficie dell’isola, ed allora le più pazze ipotesi balenarono alle loro immaginazioni riscaldate. Sopra tutti, Pencroff e Nab non si contentavano più del bizzarro, e si lasciavano andare nel mondo del soprannaturale.
Il 25 febbrajo, i coloni rientrarono nel Palazzo di Granito, e colla doppia corda, che una freccia portò sul pianerottolo dell’uscio, ristabilirono la comunicazione fra il loro dominio ed il suolo.
Un mese più tardi salutarono, nel venticinquesimo giorno di marzo, il terzo anniversario dell’arrivo nell’isola Lincoln.