L'isola misteriosa/Parte terza/Capitolo XII

Parte terza - Capitolo XII

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Jules Verne - L'isola misteriosa (1874-1875)
Traduzione dal francese di Anonimo (1890)
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CAPITOLO XII.


Esplorazione alla penisola Serpentina – Attendamento ai piedi della cascata – A seicento passi dal ricinto – Esplorazione fatta da Gedeone Spilett e da Pencroff – Loro ritorno – Tutti avanti – Una porta aperta – Una finestra illuminata – Alla luce della luna.

La giornata del domani, 18 febbrajo, fu consacrata all’esplorazione di tutta la parte boschiva che for maya il litorale, dal promontorio del Rettile fino al rivo della Cascata.

I coloni poterono frugare a fondo quella foresta, la cui larghezza variava da tre a quattro miglia, perchè era compresa fra le due spiagge della peni sola Serpentina.

Gli alberi coi loro alti fusti e i rami folti attestavano la potenza vegetale del suolo più maravigliosa che in alcun’altra parte dell’isola. Sembrava un cantuccio delle foreste vergini dell’America e dell’Africa centrale trasportato su quella zona temperata. Il che induceva ad ammettere che la superba vegetazione trovasse in quella terra umida nello strato superiore, ma scaldata all’interno dai fuochi vulcanici, un calore che non poteva appartenere ad un clima temperato.

Le essenze dominanti erano infatti i kauris e gli eucalipti che pigliano forme gigantesche.

Ma non era già scopo dei coloni l’osservare la magnifica vegetazione. Essi sapevano già che, per tale [p. 118 modifica]rispetto, l’isola Lincoln avrebbe meritato di far parte del gruppo delle Canarie, il cui primo nome fu quello di Isole Fortunate.

Oramai l’isola non apparteneva più a loro per intero. Altri ne avevano preso possesso, ed erano scellerati che bisognava distruggere fino all’ultimo.

Sulla costa occidentale non si trovò più alcuna traccia, per quanta cura si mettesse nelle ricerche. Non più pedate, non più rami rotti, non più ceneri fredde, non più attendamenti abbandonati.

— Ciò non mi stupisce, disse Cyrus Smith ai compagni; i deportati hanno approdato nell’isola ai dintorni della punta del Rottame e si sono immediatamente gettati nelle foreste del Far-West, dopo aver attraversato il marese delle Tadorne. Essi hanno adunque seguíto quasi la stessa strada che abbiamo seguito noi lasciando il Palazzo di Granito, e ciò spiega le traccie che abbiamo trovato nel bosco. Ma, giunti al litorale, i deportati hanno compreso che non vi potevano trovare alcun ricovero conveniente, ed allora, risalendo verso il nord, hanno scoperto il ricinto.

— Dove sono forse tornati, disse Pencroff.

— Non credo, disse l’ingegnere, giacchè essi devono ben supporre che le nostre ricerche incominceranno da quella parte. Il ricinto non è per essi che un luogo d’approvvigionamento, non un attendamento vero.

— Così penso anch’io, disse il reporter, e secondo me deve essere in mezzo ai contrafforti del monte Franklin che i deportati hanno scelto il loro rifugio.

— Quand’è così, signor Cyrus, andiamo al ricinto! esclamò Pencroff; bisogna finirla, e finora abbiamo perduto il nostro tempo.

— No, amico mio, rispose l’ingegnere; voi dimenticate che c’importava sapere se le foreste del Far-West non contenessero qualche abitazione. La nostra [p. 119 modifica]esplorazione ha un doppio scopo, Pencroff; se da una parte dobbiamo castigare il crimine, dall’altra abbiamo un atto di riconoscenza da compiere.

— Ben detto, signor Cyrus, rispose il marinajo; credo per altro che non troveremo codesto messere, se non quando egli lo voglia.

Veramente Pencroff non faceva che esprimere l’opinione di tutti. Non era probabilmente meno misterioso dell’incognito il suo nascondiglio.

Alla sera, il carro s’arrestò alla foce del rivo della Cascata; furono prese per la notte le precauzioni consuete. Harbert, riacquistata la robustezza che aveva prima della malattia, approfittava largamente di quell’esistenza all’aria aperta, fra le brezze dell’oceano e l’atmosfera vivificante delle foreste. Egli non stava ormai più sul carro, ma andava in capo alla carovana.

Il domani, 19 febbrajo, i coloni, abbandonando il litorale, su cui oltre la foce s’ammucchiavano pittorescamente basalti di tutte le forme, risalirono il corso del fiume per la riva manca. La via era in parte sgombra, in seguito alle precedenti escursioni fatte dal ricinto fino alla costa ovest. I coloni si trovavano allora ad una distanza di sei miglia dal monte Franklin.

Il disegno dell’ingegnere era questo: osservare minuziosamente tutta la valle, di cui il thalweg formava il letto del fiume, e giungere con circospezione ai dintorni del ricinto; se questo fosse occupato, pigliarlo a viva forza; se non fosse, chiudervisi, e farne il centro delle operazioni aventi per oggetto l’esplorazione del monte Franklin.

Questo disegno fu all’unanimità approvato dai coloni, i quali in vero non vedevano l’ora di ripigliare l’intero possesso dell’isola.

Si camminò adunque nella stretta valle che separava due dei più robusti contrafforti del monte Franklin. Gli alberi, stretti sui margini del fiume, si fa[p. 120 modifica]cevano rari verso le zone superiori del vulcano. Era un suolo montuoso, accidentato, acconcio alle imboscate, e nel quale non bisognava rischiarsi senza la massima precauzione, Top e Jup facevano da battistrada, buttandosi a dritta ed a mancina nel fitto del bosco e gareggiando d’intelligenza e d’abilità. Ma nulla accennava che le rive del corso d’acqua fossero state frequentate di recente; nulla annunziava la presenza o la prossimità dei deportati.

Verso le cinque pomeridiane il carro si arrestò a seicento passi circa dalla cinta, tuttavia nascosta da una cortina semicircolare di grandi alberi.

Si trattava ora d’accertarsi se il ricinto fosse o no occupato. Andarvi apertamente in piena luce era esporsi a ricevere qualche schioppettata, come era accaduto ad Harbert, se i deportati vi si trovavano imboscati. Meglio adunque aspettare la notte.

Pure, Gedeone Spilett voleva senz’altro indugio riconoscere i dintorni del ricinto, e Pencroff, perduta la pazienza, s’offrì d’accompagnarlo.

— No, amici miei, rispose l’ingegnere, aspettate la notte; io non lascerò che alcuno di voi si esponga di pieno giorno.

— Ma, signor Cyrus...! replicò il marinajo, poco disposto ad obbedire.

— Ve ne prego, Pencroff, rispose l’ingegnere.

— Sia! rispose il marinajo, e, per dare un altro corso alla sua collera, regalò ai deportati gli epiteti meno lusinghieri del repertorio marittimo.

I coloni stettero adunque intorno al carro e sorvegliarono attentamente le parti vicine della foresta.

Passarono così tre ore. Il vento era cessato, silenzio assoluto regnava sotto i grand’alberi. Il minimo rumore dei passi sulle foglie secche, o lo spezzarsi d’un ramo, o il passaggio d’un corpo fra le erbe, sarebbero stati uditi agevolmente, tanto ogni cosa era tranquilla. Top, coricato a terra, colla testa al[p. 121 modifica]lungata sulle zampe, non dava alcun indizio d’inquietudine.

Alle otto, la sera parve tanto innoltrata da permettere una ricognizione. Gedeone Spilett si dichiarò pronto a partire in compagnia di Pencroff, e Cyrus Smith vi acconsentì. Top e Jup dovettero rimanere coll’ingegnere, con Harbert e con Nab, giacchè non bisognava che un latrato od un grido inopportuno desse la sveglia.

— Non v’impegnate imprudentemente in una lotta, raccomandò Cyrus Smith al marinajo ed al reporter. Voi non dovete già prendere possesso del ricinto, ma solo riconoscere se è occupato o no.

— Siamo intesi, rispose Pencroff.

Ed entrambi partirono.

Sotto gli alberi, in grazia del fogliame folto, una certa oscurità rendeva già invisibili gli oggetti oltre un raggio di trenta o quaranta piedi. Il reporter e Pencroff arrestavansi appena un rumore qualsiasi sembrava loro sospetto, e andavano innanzi con somma precauzione.

Camminavano l’uno separato dall’altro, per offrir meno bersaglio alle schioppettate. E, per dir tutto, s’aspettavano ad ogni istante di udire uno sparo.

Cinque minuti dopo d’aver lasciato il carro, Gedeone Spilett e Pencroff erano giunti sul lembo del bosco, dinanzi alla radura, in fondo alla quale sorgeva la cinta di palizzate.

S’arrestarono. Incerti bagliori mandavano ancora le praterie sguernite d’alberi. A trenta passi sorgeva la porta del ricinto, che sembrava chiusa. Codesti trenta passi, che si trattava di superare, fra il lembo del bosco e la cinta, formavano la zona pericolosa, per usare una frase di balistica. In fatti, una o più palle partite dalla cresta della palizzata avrebbero atterrato chiunque si fosse arrischiato su quella zona.

Gedeone Spilett ed il marinajo non erano uomini [p. 122 modifica]da dare indietro, ma sapevano che una loro imprudenza, oltre al farli vittime per i primi, ricadrebbe poi sui compagni. Morti loro, che ne sarebbe di Cyrus Smith, di Nab e di Harbert?

Ma Pencroff, accalorato nel sentirsi tanto vicino al ricinto, dove supponeva rifugiati i deportati, voleva spingersi innanzi, quando il reporter lo trattenne con robusta mano.

— Fra pochi istanti, mormorò Gedeone Spilett all’orecchio di Pencroff, sarà notte perfetta, allora agiremo.

Pencroff stringendo convulsivamente il calcio del fucile, si trattenne ed attese dispettoso.

Non andò molto che si cancellarono gli ultimi bagliori del crepuscolo. L’ombra, che sembrava uscire dalla folta foresta, invase la radura. Il monte Franklin sorgeva dinanzi all’orizzonte del tramonto, e l’oscurità si fece rapidamente, come accade nelle regioni basse di latitudine.

Era il momento.

Il reporter e Pencroff, dacchè s’erano appostati sul lembo del bosco, non avevan perduto di vista la palizzata. Il ricinto sembrava assolutamente abbandonato. La cresta della palizzata formava una linea al quanto più nera dell’ombra circostante, e nulla ne alterava il contorno netto. Pure, se i deportati erano lì, avevano dovuto porre uno di loro in sentinella.

Gedeone Spilett strinse la mano del compagno, ed entrambi s’avanzarono strisciando verso il ricinto, coi fucili pronti a far fuoco.

Giunsero presso al ricinto, senza che l’ombra fosse stata solcata da un solo raggio di luce.

Pencroff tentò di spingere la porta, che, come entrambi avevano immaginato, era chiusa. Pure il marinajo potè accertarsi che le stanghe interne non erano state messe.

Si poteva dunque argomentare che i deportati oc[p. 123 modifica]cupassero allora il ricinto e che verisimilmente avessero assicurato la porta in guisa da non poterla sfondare.

Gedeone Spilett e Pencroff porsero orecchio.

Nessun rumore all’interno del ricinto. I mufloni e le capre, dormenti, senza dubbio nelle stalle, non turbavano la calma della notte.

Non udendo nulla, il reporter ed il marinajo si domandarono se dovessero dare la scalata e penetrare: così nel ricinto: la qual cosa era contraria alle istruzioni di Cyrus Smith.

È vero che l’operazione poteva riuscire, ma poteva anche fallire. Ora, se i deportati non sospettavano di nulla, se non avevano cognizione della spedizione tentata contro di loro, se infine si aveva in questo momento una speranza di sorprenderli, dovevano essi arrischiare di guastare tutto con un’imprudenza?

Non fu tale il parere del reporter. Egli trovò ragionevole aspettare che i coloni fossero tutti riuniti per cercar di penetrare nel ricinto. Certo è che si poteva giungere fino alla palizzata senza esser visti, e che il ricinto non sembrava guardato. Determinati questi punti, non si trattava più che di tornare verso il carro per deliberare.

Pencroff probabilmente fu di questa opinione, perchè non fece alcuna difficoltà a seguire il reporter, quando costui si ricacciò sotto il bosco.

Alcuni minuti dopo, l’ingegnere era al fatto di tutto.

— Ebbene, diss’egli dopo averci pensato su, ora ho ragione di credere che i deportati non siano al ricinto.

— Lo sapremo, rispose Pencroff, quando avremo scavalcato la palizzata.

— Al ricinto, amici! disse Cyrus Smith.

— Dobbiamo lasciare il carro nel bosco? domandò Nab.

— No, rispose l’ingegnere, è il nostro forgone di [p. 124 modifica]munizioni e di viveri, ed al bisogno ci servirà di trincea.

— Avanti dunque! disse Gedeone Spilett.

Il carro uscì dal bosco e mosse senza rumore verso la palizzata. Profonda era allora l’oscurità, il silenzio perfetto come nel momento in cui Pencroff ed il reporter si erano allontanati strisciando a terra. L’erba fitta soffocava interamente il rumore dei passi.

I coloni erano pronti a far fuoco. Jup, sotto l’ordine di Pencroff, veniva dietro, e Nab conduceva Top al guinzaglio perchè non si slanciasse innanzi.

Apparve presto la radura. Era deserta. Senza esitare, il piccolo drappello mosse verso il ricinto. In breve tempo fu attraversata la zona pericolosa. Nessuna schioppettata. Quando il carro fu giunto alla palizzata, s’arresto. Nab rimase alla testa degli onaggas per trattenerli; l’ingegnere, il reporter, Harbert e Pencroff si diressero verso l’uscio per accertarsi che fosse sbarrato all’interno. Uno dei battenti era aperto!

— Ma che dicevate? domandò l’ingegnere volgendosi al marinajo ed a Gedeone Spilett.

Costui era stupefatto.

— Sull’anima mia, disse Pencroff, questa porta era chiusa poc’anzi!

I coloni allora esitarono. Forse che i deportati si trovarono al ricinto al momento in cui Pencroff ed il reporter ne facevano la ricognizione! Non vi poteva esser dubbio in ciò, giacchè la porta allora chiusa non aveva potuto essere aperta che da essi. O vi erano ancora tutti, o uno era uscito.

Tutte queste domande si presentarono istantaneamente allo spirito di ciascuno; ma come rispondervi?

In quella Harbert, che si era fatto alcuni passi innanzi entro il ricinto, rinculò precipitosamente ed afferrò la mano di Cyrus Smith.

— Che cosa è stato? domandò l’ingegnere.

— Una luce! [p. 125 modifica]

— Nella casa?

— Sì.

Tutti cinque s’avanzarono verso la porta, ed in fatti, attraverso i vetri della finestra dirimpetto, videro tremare un lieve bagliore.

Cyrus Smith prese rapidamente il suo partito.

— È davvero una fortuna, diss’egli ai compagni, di trovare i deportati chiusi in questa casa e non timorosi d’essere sorpresi. Oramai sono nostri! Avanti!

I coloni si cacciarono allora nel ricinto, tenendo pronti i fucili. Il carro era stato lasciato al di fuori, sotto la guardia di Jup e di Top, che per prudenza furono legati.

Cyrus Smith, Pencroff, Gedeone Spilett da un lato, Harbert e Nab dall’altra, rasentando la palizzata, osservarono quella parte del ricinto che era assoluta mente oscura e deserta.

In pochi istanti tutti furono presso alla casa, innanzi alla porta chiusa.

Cyrus Smith fece ai compagni un cenno della mano che comandava loro di non muoversi, e s’accostò al vetro allora lievemente illuminato dalla luce interna.

Il suo sguardo si cacciò nell’unica camera che formava il pian terreno della casa.

Sulla tavola brillava un fanale acceso. Presso alla tavola era il letto che una volta serviva ad Ayrton. Sul letto riposava il corpo d’un uomo.

D’un tratto Cyrus Smith diè indietro, e con voce soffocata:

— Ayrton! esclamò.

La porta fu sfondata meglio che aperta, ed i coloni si precipitarono nella casa.

Ayrton sembrava dormire. La sua faccia attestava come avesse sofferto a lungo e crudelmente; ai suoi polsi ed alle sue caviglie si vedevano larghe lividure. Cyrus Smith si curvò sopra di lui. [p. 126 modifica]

— Ayrton! esclamò afferrando il braccio di colui che aveva ritrovato in condizioni così inaspettate.

A questa chiamata, Ayrton aprì gli occhi, e guardando in faccia Cyrus Smith e gli altri, esclamò:

— Voi! voi!

— Ayrton! Ayrton! disse Cyrus Smith.

— Dove sono io?

— Nell’abitazione del ricinto.

— Solo?

— Sì.

— Ma essi verranno! esclamò Ayrton; difendetevi! difendetevi!

E ricadde sfinito.

— Spilett, disse allora l’ingegnere, possiamo essere assaliti da un momento all’altro; fate entrare il carro nel ricinto, poi sbarrate l’uscio e tornate tutti qui.

Pencroff, Nab ed il reporter s’affrettarono ad eseguire gli ordini dell’ingegnere. Non vi era un istante da perdere. Fors’anco il carro era già nelle mani dei deportati.

In un istante il reporter e i due compagni ebbero attraversato il ricinto e l’uscio della palizzata, dietro la quale si udiva Top ringhiar sordamente.

L’ingegnere, lasciando Ayrton un istante, uscì dalla casa, pronto a far le schioppettate; Harbert gli stava al fianco. Entrambi sorvegliavano la cresta del contrafforte che sormontava il ricinto; poichè se i deportati fossero imboscati in quel luogo, potevano colpire i coloni l’un dopo l’altro.

In quella la luna apparve nell’est, dietro la nera cortina della foresta, ed una bianca zona di luce si sparse nell’interno della cinta. Il ricinto fu tutto illuminato coi suoi gruppi d’alberi, col rigagnolo che lo inaffiava, col largo tappeto d’erbe. Dal lato della montagna, la casa e una parte della palizzata si staccavano in bianco; dalla parte opposta, verso l’uscio, il ricinto era bujo. [p. 127 modifica]

Apparve presto una massa nera. Era il carro che entrava nella cerchia di luce, e Cyrus Smith potè intendere il rumore della porta che i compagni richiudevano e di cui assicuravano saldamente i bat enti all’interno.

Ma allora Top, rompendo il guinzaglio, prese a latrare con furore e si slanciò verso il fondo del ricinto a dritta della casa.

— Attenti, amici! gridò Cyrus Smith.

I coloni avevano spianato i fucili ed aspettavano il momento di far fuoco. Top latrava sempre, e Jup, correndo verso il cane, fece intendere acuti fischi.

I coloni lo seguirono e giunsero sull’orlo del rigagnolo ombreggiato da grand’alberi.

E colà, in piena luce, che videro essi?

Cinque corpi giacenti sull’argine!

Appunto quei deportati che quattro mesi prima erano sbarcati sull’isola Lincoln!




FINE DEL VOLUME QUINTO.