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corse quelle gallerie, vi si accesero delle resine, si frugò in ogni minima cavità, si scandagliarono tutte le profondità — per ogni dove silenzio e tenebre. Non pareva che alcun essere umano avesse mai portato i suoi passi in quegli antichi corridoj, o che il suo braccio avesse rimosso un solo di quei macigni. Ogni cosa era certo tal quale il volcano l’aveva gettata fuori delle acque al tempo dell’emersione dell’isola.

Pure, se quelle substruzioni parvero assolutamente deserte, se l’oscurità v’era perfetta, Cyrus Smith dovette riconoscere che non vi regnava l’assoluto silenzio.

Giunto al fondo d’una di quelle buje cavità, che s’addentravano per molte centinaja di piedi nella montagna, fu maravigliato d’udire un sordo brontolío fatto più intenso dalla sonorità delle roccie.

Gedeone Spilett, che l’accompagnava, udì anch’esso quel mormorío lontano, che indicava un ravvivamento dei fuochi sotterranei. Porsero orecchio entrambi più volte, e convennero in dire che qualche reazione chimica si elaborava nelle viscere del terreno.

— Forse che il vulcano non è del tutto spento? disse il reporter.

— È possibile che dopo la nostra esplorazione del cratere siasi compiuto qualche lavorío negli strati inferiori. Qualsiasi vulcano spento può, senza dubbio, riaccendersi.

— Ma se avvenisse un’eruzione del monte Franklin, domandò Gedeone Spilett, non vi sarebbe pericolo per l’isola Lincoln?

— Non credo, rispose l’ingegnere. Il cratere, vale a dire la valvola di sicurezza, esiste, ed il soverchio dei vapori e delle lave sfuggirà come un tempo dalla sua bocca.

— Se pure le lave non s’apriranno un nuovo passaggio verso le parti fertili dell’isola.

— E perchè, mio caro Spilett, non seguirebbero invece la strada che hanno bell’e tracciata?