L'isola misteriosa/Parte terza/Capitolo XI

Parte terza - Capitolo XI

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Jules Verne - L'isola misteriosa (1874-1875)
Traduzione dal francese di Anonimo (1890)
Parte terza - Capitolo XI
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CAPITOLO XI.


Inesplicabile mistero – La convalescenza di Harbert – Le parti dell’isola da esplorare – Preparativi di partenza – Prima giornata — La notte – Seconda giornata – I kauris – La coppia di casoari – Impronte di passi nella foresta — Arrivo al promontorio del Rettile.

Gedeone Spilett prese la scatola e l’aprì. Conteneva circa dugento grani d’una polvere bianca, di cui assaggiò alcune particelle colla lingua. L’estrema amarezza di quella sostanza non lo poteva ingannare: era proprio il prezioso alcaloide della quinquina, il febbrifugo per eccellenza.

Bisognava senza esitare amministrar quella polvere ad Harbert. Quanto al discutere come si trovasse là, rimaneva tempo.

– Del caffè, domandò Gedeone Spilett.

Alcuni istanti dopo, Nab portava una chicchera dell’infusione tiepida. Gedeone Spilett vi buttò entro diciotto grani di chinino e si riuscì a far bere la mistura ad Harbert.

Era tempo ancora, perchè il terzo accesso della febbre perniciosa non si era manifestato!

E sia permesso aggiungere che non doveva tornare.

D’altra parte, giova pur dirlo, tatti avevano ripreso speranza. L’influenza misteriosa si era di nuovo fatta palese, ed in un momento supremo, quando già si disperava di essa. [p. 108 modifica]

Dopo alcune ore, Harbert riposava placidamente. I coloni poterono allora discorrere dell’incidente. L’intervento dello sconosciuto era più che mai manifesto, ma in qual modo aveva egli potuto penetrare di notte nel Palazzo di Granito? La cosa era assolutamente inesplicabile, e il modo con cui procedeva il genio dell’isola non era meno strano del genio medesimo.

Per tutto quel giorno fu amministrato ad Harbert il chinino.

Il domani l’infermo provava un miglioramento; certo non era guarito, e le febbri sono soggette a pericolose recidive, ma non gli mancavano le cure, e poi lo specifico era là, e senza dubbio non lungi colui che lo aveva portato. Insomma, un’immensa speranza tornava in cuore di tutti.

Questa speranza non fu delusa. Dieci giorni dopo, il 20 dicembre, Harbert entrava in convalescenza. Era debole ancora, ed una dieta severa eragli stata imposta, ma nessun accesso era tornato. E poi, il docile fanciullo s’assoggettava di buon grado a tutte le prescrizioni che gli si imponevano. Aveva tanta voglia di guarire!

Pencroff era come un uomo che sia tolto dal fondo d’un abisso. Aveva crisi di gioja che parevano delirio. Dopo che il momento del terzo accesso fu passato, egli aveva stretto il reporter nelle braccia fino a soffocarlo, nè quind’innanzi lo chiamò altrimenti che il buon dottor Spilett.

Rimaneva a scoprire il vero dottore.

— Lo scopriremo! rispose il marinajo.

Certo, quell’uomo, qualunque egli fosse, doveva aspettarsi un amplesso poderoso dal degno Pencroff!

Il mese di dicembre finì, e con esso l’anno 1867, durante il quale gli abitanti dell’isola erano stati messi a così dure prove. Entrarono nell’anno 1868 con un tempo magnifico, con un caldo tropicale, che [p. 109 modifica]fortunatamente la brezza marina rinfrescava alquanto. Harbert rinasceva, e, da una finestra posta vicino al suo letto, respirava quell’aria salubre piena di emanazioni saline che gli ridonava la salute. Cominciava a mangiare, e sa Dio che buoni bocconi leggeri e saporiti gli preparava Nab!

– Vi è da far venir voglia di esser stato moribondo! diceva Pencroff.

In tutto quel tempo, i deportati non si erano mai fatti vedere nei dintorni del Palazzo di Granito. Di Ayrton non si aveva più novelle, e se l’ingegnere ed Harbert serbavano ancora qualche speranza di ritrovarlo, i suoi compagni non ne mettevano in dubbio la morte. Pure quella incertezza non poteva durare, ed appena il giovinetto fosse in forze, si doveva intraprendere la spedizione, che doveva dare un risultato di tanta importanza. Ma bisognava attendere un mese forse, perchè non basterebbero tutte le forze della colonia per trionfare dei deportati.

Del resto Harbert migliorava sempre. Era scomparsa la congestione del fegato, e le ferite potevano dirsi del tutto cicatrizzate.

In quel mese di gennajo furono fatti importanti lavori nell’altipiano di Lunga Vista; ma consistettero unicamente nel raccogliere tutto quanto era scampato alla devastazione, in biade ed in legumi. I semi e le piante furono raccolti, in guisa da fornire una nuova messe per la mezza stagione prossima. Quanto al ricostrurre gli edifizî del cortile, il mulino e la scuderia, Cyrus preferì aspettare, poichè intanto che essi inseguissero i deportati potevano costoro fare una nuova visita all’altipiano e porre un’altra volta ogni cosa in esterminio. Purgata l’isola dai malfattori, si penserebbe a riedificare.

Il giovane convalescente aveva incominciato a levarsi nella seconda quindicina del mese di gennajo, prima un’ora al giorno, poi due, poi tre. Le forze [p. 110 modifica]gli tornavano a vista d’occhio, tanto era salda la sua costituzione. Aveva allora diciotto anni, era alto di statura e prometteva di diventare un uomo di nobile e bell’aspetto. Quind’innanzi la sua convalescenza, sebbene richiedesse ancora qualche cura – e il dottor Spilett si mostrava severissimo – procedeva regolarmente.

Verso la fine del mese Harbert percorreva già l’altipiano di Lunga Vista ed il greto. Alcuni bagni di mare, fatti in compagnia di Nab e Pencroff, gli fecero un gran bene. Cyrus Smith credette di poter già indicare il giorno della partenza, che fu fissata al 15 di febbrajo. Le notti, chiarissime in quel tempo dell’anno, dovevano esser propizie per le ricerche che si trattava di fare nell’isola.

Furono dunque incominciati i preparativi richiesti per l’esplorazione, preparativi importanti, perchè i coloni avevano fatto voto di non tornare al Palazzo di Granito innanzi di aver raggiunto il loro doppio scopo: da una parte distruggere i deportati e ritrovare Ayrton, se ancora viveva; dall’altra, scoprire colui che presiedeva con tanta efficacia ai destini della colonia.

Dell’isola Lincoln, i coloni conoscevano a fondo tutta la costa orientale, dal capo Artiglio fino al capo Mandibola. I vasti maresi delle Tadorne, i dintorni del lago Grant, i boschi del Jacamar compresi fra la via del ricinto e la Grazia, i corsi della Grazia ed il rivo Rosso, ed infine i contrafforti del monte Franklin, ai quali era addossato il ricinto.

Avevano essi esplorato, ma in modo imperfetto, il vasto litorale della baja Washington, dal capo Artiglio fino al promontorio del Rettile, il lembo boscoso ed acquitrinoso della costa ovest, e quelle dune interminabili che finivano nella gola aperta del golfo del Pesce-cane.

Ma non avevano ancora riconosciuto menomamente [p. 111 modifica]le vaste parti della penisola che comprendevano la penisola Serpentina, la riva destra della Grazia e la sinistra del rivo della Cascata, e quella rete capricciosa di contrafforti e di contravalli che sopportava i tre quarti della base del monte Franklin all’ovest, al nord ed all’est, dove senza dubbio esistevano profonde grotte. Laonde molte migliaja di acri dell’isola erano sfuggite alle loro investigazioni.

Fu dunque deciso che la spedizione si facesse al Far-West, in modo da riunire tutta la parte situata alla destra della Grazia.

Forse sarebbe stato meglio dirigersi prima al ricinto, ove era a temere che i deportati fossero tornati nuovamente o per rifugiarvisi o per devastare. Ma, o la devastazione del ricinto era oramai un fatto compiuto, nè si poteva giungere in tempo; o i deportati avevano avuto interesse a chiudervisi, ed in questo caso doveva sempre esservi tempo ad assediarlo.

Dopo molto discutere, fu dunque mantenuto il primo disegno, ed i coloni risolvettero di recarsi attraverso i boschi al promontorio del Rettile, coll’accetta in mano, gettando le prime traccie di una via che mettesse in comunicazione il Palazzo di Granito coll’estremità dell’isola, per sedici o diciassette miglia di lunghezza.

Il carro era in perfetto stato. Gli onaggas, riposati, potevano fare un lungo tragitto. Viveri, arnesi d’attendamento, cucine portatili ed altro furono caricati sul carro. Armi e munizioni erano state scelte con cura nell’arsenale, ora completo, del Palazzo di Granito. Ma non bisognava dimenticare che i deportati vagavano forse pei boschi e che in mezzo a quelle fitte foreste una scioppettata era presto sparata e ricevuta. Era necessario che il drappello rimanesse compatto, e non si dividesse per nessun pretesto. Fu pure deciso che non rimarrebbe nessuno al Palazzo di Granito. [p. 112 modifica]

Top e Jup dovevano anch’essi far parte della spedizione. L’abitazione era difesa di per sè.

II 14 febbrajo, vigilia della partenza, era una domenica, e fu tutta dedicata al riposo e santificata colle azioni di grazia, che i coloni rivolsero al Creatore. Harbert, interamente guarito, ma tuttavia un po’ debole, doveva avere un posto riserbato sul carro.

Il domani, all’alba, Cyrus Smith prese le precauzioni necessarie per porre il Palazzo di Granito al sicuro d’ogni invasione. Le scale che servivano una volta all’ascensione furono portate ai Camini e sepolte nella sabbia, in guisa da servire pel ritorno, giacchè fu smontato il tamburo dell’ascensore e più nulla rimase dell’apparecchio. Pencroff stette ultimo nel Palazzo di Granito per questa bisogna e ridiscese con una corda, un capo della quale era trattenuto al basso e che, tirata giù, non lasciò più sussistere comunicazione di sorta fra il greto ed il pianerottolo superiore.

Il tempo era magnifico.

— Farà caldo oggi! disse allegramente il reporter.

– Oibò! dottor Spilett, rispose Pencroff, cammineremo all’ombra degli alberi, e non vedremo nemmeno il sole.

— In cammino! disse l’ingegnere.

Il carro aspettava sulla spiaggia dinanzi ai Camini. Il reporter aveva voluto che Harbert vi si accomodasse, almeno nelle prime ore del viaggio, ed il giovane dovette assoggettarsi alle prescrizioni del suo, medico.

Nab si pose a capo degli onaggas. Cyrus Smith, il reporter ed il marinajo procedevano innanzi; Top sgambettava allegramente; Harbert aveva offerto un posto a Jup nel suo veicolo, e costui aveva accettato senza complimenti. Il momento della partenza era giunto e il drappello prese le mosse. [p. 113 modifica]

Il carro girò dapprima l’angolo della foce, poi dopo aver risalito per un miglio la sponda sinistra della Grazia, attraverso il ponte, in capo al quale incominciava la via di porto Pallone; colà gli esploratori lasciarono quella via a mancina e cominciarono a cacciarsi sotto il fitto degli immensi boschi che formavano la regione del Far-West.

Nelle due prime miglia, gli alberi piuttosto diradati permisero al carro di circolare rapidamente. Ogni tanto bisognava recidere qualche liana ed aprirsi il passo in mezzo ai cespugli, ma nessun ostacolo grave arrestò le mosse dei coloni.

I fitti rami degli alberi mantenevano un’ombra fresca al suolo. Deodars, douglas, casuarine, banksie, alberi di gomma, dragoni, ed altre essenze già note, si succedevano oltre i confini dello sguardo. Il mondo degli uccelli che frequentavano l’isola vi si trovava completo: tetraoni, jacamar, fagiani, lori e tutta la famiglia chiacchierona dei pappagalli e dei parrocchetti. Aguti, kanguri, cabiaj, fuggivano fra l’erbe; e tutto ciò ricordava ai coloni le prime escursioni fatte al loro arrivo nell’isola.

– Pure, fece osservare Cyrus Smith, parmi che questi animali, quadrupedi e volatili, siano più paurosi d’una volta. Questi boschi sono stati di recente percorsi dai deportati, di cui dobbiamo incontrar certamente le traccie.

Di fatto, in molti luoghi si potè riconoscere il passaggio più o meno recente d’un drappello d’uomini.

Qui erano rotture fatte agli alberi, forse allo scopo di segnare la via percorsa, colà ceneri d’un focolare spento, e pedate che certe parti argillose del suolo avevano serbato; ma null’altro si potè scorgere che indicasse un attendamento.

L’ingegnere aveva raccomandato ai compagni di astenersi dal cacciare, poichè gli spari delle armi da fuoco avrebbero potuto dare la sveglia ai deportati, [p. 114 modifica]che gironzavano forse nella foresta. D’altra parte, i cacciatori avrebbero dovuto necessariamente spingersi a qualche distanza dal carro, ed era severamente proibito di camminare ad uno ad uno.

Nella seconda metà del giorno, a sei miglia circa dal Palazzo di Granito, la circolazione divenne difficile. Per attraversare certe forre, bisognò abbattere alberi e fare un sentiero, prima di cacciarvisi entro; Cyrus Smith aveva cura di mandare nel fitto del bosco Top e Jup, i quali compivano coscienziosamente il loro mandato; quando il cane e la scimmia tornavano senza aver segnalato nulla, non si aveva più a temere nè dai deportati, nè dalle belve – due specie di individui del regno animale, che erano messi al paro dei loro feroci istinti.

La sera di quel primo giorno i coloni s’attendarono a nove miglia circa dal Palazzo di Granito, sulla sponda d’un piccolo affluente della Grazia, di cui ignoravano l’esistenza, e che doveva collegarsi al sistema idrografico a cui quella terra era debitrice della sua maravigliosa fertilità.

Si ceno abbondantemente – chè l’appetito dei coloni era stimolato – e furono prese tutte le precauzioni per passare la notte senza pericolo. Se l’ingegnere avesse soltanto avuto da fare cogli animali feroci, jaguari o simili, avrebbe semplicemente acceso dei fuochi intorno all’attendamento, e ciò avrebbe bastato a difenderli; ma i deportati, non che arrestati dalle fiamme, ne sarebbero invece stati attirati. Meglio era adunque circondarsi di profonde tenebre.

La sorveglianza fu, d’altra parte, disposta severamente. Due dei coloni dovettero vegliare insieme, ed ogni due ore era convenuto che si dessero il cambio coi camerati. Ora, siccome malgrado i suoi reclami Harbert fu dispensato dalla guardia, Pencroff e Gedeone Spilett da una parte, l’ingegnere e Nab dal[p. 115 modifica]l’altra, fecero la guardia a vicenda vicino all’attendamento. Del resto, la notte durò poche ore. L’oscurità era dovuta meglio alla foltezza dei rami che alla scomparsa del sole.

Il silenzio fu turbato appena da urli rauchi di jaguari e da sghignazzamenti di scimmie, che sembravano irritare in ispecie mastro Jup.

Passò la notte senza incidenti, ed il domani, 16 febbrajo, furono riprese le mosse, più lente che faticose.

In quel giorno non si poterono percorrere che sei miglia, perchè ad ogni istante bisognava aprirsi la via coll’accetta.

I coloni rispettavano i grandi begli alberi, il cui atterramento, del resto, avrebbe loro costato enormi fatiche, e sagrificavano i piccini; ma ne risultò che la via pigliava una direzione poco rettilinea, allungandosi con infinite giravolte.

In quel giorno Harbert scoprì nuove essenze non prima vedute nell’isola, come a dire felci arboree con palme ricadenti, che sembravano spandersi come le acque d’una vasca; carrubbi, di cui gli onaggas mangiarono avidamente i lunghi baccelli, e che fornirono polpe zuccherine d’un gusto eccellente. Colà i coloni trovarono pure magnifici kauris disposti a gruppi ed i cui fusti cilindrici coronati da un cono di verdura si elevavano fino a dugento piedi. Erano ben quelli gli alberi-re della Nuova-Zelanda, celebri al pari dei cedri del Libano.

Quanto alla fauna non offriva altri campioni di cui i cacciatori non avessero già notizia. Pure intravidero, ma senza potersi accostare a tiro, una copia di quei grandi uccelli che sono proprî dell’Australia, specie di casoari alti cinque piedi, bruni di penne, appartenenti all’ordine dei trampolieri e chiamati èmeus. Top corse loro dietro con tutta la velocità delle sue quattro zampe, ma i casoari se lo lasciarono indietro [p. 116 modifica]un bel pezzo, siffattamente prodigiosa era la loro rapidità.

Quanto alle traccie lasciate dai deportati nella foresta, non ne furono ancora viste alcune.

Vicino ad un fuoco, che sembrava essere stato spento di fresco, i coloni notarono pedate che furono osservate con estrema attenzione; misurandole l’una dopo l’altra per lungo e per largo, si trovarono facilmente le traccie di cinque uomini. I deportati si erano evidentemente attendati in quel luogo, ma e questo era l’oggetto dell’attento esame — non si potè discernere una sesta impronta, che doveva essere quella di Ayrton.

– Ayrton non era con essi! disse Harbert.

– No, rispose Pencroff, e se non era con essi segno è che l’hanno ucciso. Ma quei cenciosi non hanno una tana in cui si possa circondarli come tigri?

– No, rispose Gedeone Spilett, è più probabile che vaghino alla ventura fino a che siano padroni dell’isola.

— Padroni dell’isola! ripetè il marinajo, padroni dell’isola! e la sua voce era strangolata come se una mano di ferro l’avesse afferrato alla gola.

Poi, con voce più pacata, disse:

— Sapete, signor Cyrus, qual’è la palla che ho messo nel mio fucile?

– No, Pencroff.

– È la palla che ha attraversato il petto di Harbert, e vi prometto che non andrà fallita.

Ma queste giuste rappresaglie non potevano ridonare la vita ad Ayrton, e da quelle pedate rimaste sul suolo si doveva, ahi! conchiudere che non vi era speranza di rivederlo più mai.

Quella sera l’attendamento fu posto a quattordici miglia dal Palazzo di Granito, e Cyrus Smith reputò che non si dovesse essere a più di cinque miglia dal promontorio del Rettile. [p. 117 modifica]

Ed infatti il domani si era giunti quasi al limite della penisola dopo aver attraversato la foresta per lo lungo; ma nessun indizio aveva permesso di trovare l’asilo dei deportati, nè quello non meno segreto che dava ricovero al misterioso incognito.