L'avvenire!?/Capitolo terzo
Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | Capitolo secondo | Capitolo quarto | ► |
CAPITOLO TERZO
«Egli apre gli occhi. Sarebbe meglio che prima vedesse soltanto uno di noi».
«Promettimi però, che tu non glielo dirai».
Le prime parole furono dette da un uomo, le seconde da una donna, e tutti e due parlavano sotto voce.
«Io voglio vedere come stà», replicò l’uomo.
«No, no, promettimelo» ripetè l’altra.
«Fa la sua volontà» disse piano una terza voce, anche di donna.
«Sì, sì, lo prometto», rispose l’uomo. «Presto, andate, egli torna già in sè.»
Intesi un fruscìo di abiti ed apersi gli occhi. Un uomo sulla sessantina, di piacevole aspetto, si chinò verso di me, con l’espressione della benevolenza e nei suoi lineamenti si scorgeva l’inquietudine. Egli mi era affatto estraneo. Mi appoggiai sul gomito e guardai intorno. La stanza era vuota. Per quanto sapessi, non ero mai stato in quella camera. Guardai nuovamente l’uomo che sorrideva domandandomi:
«Come vi sentite?»
«Dove sono?» dimandai a mia volta:
«In casa mia», fu la risposta.
«Ma, come vi sono venuto?»
«Ne parleremo, quando sarete rinforzato. Intanto vi prego di essere tranquillo, siete in casa d’amici e in buone mani. E ora come vi sentite?»
«Un po’ stanco», dissi, «ma credo di star bene. Vorreste esser tanto cortese di dirmi come va che io fruisco della vostra ospitalità? che mi è accaduto? come venni qui? mi coricai però in casa mia».
«Ci sarà tempo di spiegar tutto», rispose il mio ospite sconosciuto, sorridendo benignamente.
«È meglio aspettare che stiate bene per discorrere di ciò. Abbiate la bontà di prendere un sorso di questa bevanda; essa vi farà bene. Io sono medico».
Respinsi il bicchiere e mi misi a sedere sul letto, però ciò mi costò qualche fatica che la mia testa era stranamente confusa.
«Insisto per sapere, prima d’ogni altra cosa, ove sono e che cosa mi avete fatto», dissi.
«Mio caro signore», rispose il dottore. «vi prego di non agitarvi. Preferirei che non insisteste a chieder spiegazioni, per ora, però se volete proprio così, proverò di soddisfarvi, a condizione che beviate questo cordiale, vi rinforzerà».
Allora presi la bevanda offertami ed egli continuò: «Non è sì facile come lo credete, spiegarvi in qual modo vi trovate qui. Vi siete or ora destato da un sonno profondo o piuttosto da uno stordimento. Ecco quanto posso dirvi. Voi asserite di esservi addormentato a casa vostra».
«Oserei chiedervi quando ciò accadde?»
«Quando?» replicai, «quando? Ieri sera, verso le 10. Ordinai al mio servitore Saverio di svegliarmi alle 9. Che ne è di Saverio?»
«Non sono in caso di dirvelo», rispose quegli guardandomi con una strana espressione, «ma credo che la sua assenza sia giustificabile. Potreste forse, più facilmente, indicarmi la data del giorno in cui pigliaste il sonno».
«Ieri sera, non ve l’ho forse già detto? A meno che io non abbia dormito una giornata intera. Dio buono!, ciò non è possibile; eppure provo un’impressione speciale; mi pare di aver dormito un pezzo. Quando mi coricai era giorno di decorazione».
«Giorno di decorazione?»
«Sì, lunedì 30».
«Scusate, il 30, di che mese?»
«Ma, di questo mese, s’intende, a meno che non avessi incominciato il mese di Giugno dormendo, e ciò è ben impossibile!»
«Ora siamo in Settembre».
«In Settembre! spero che non vorrete darmi ad intendere che io abbia dormito fin dal mese di Maggio! Mio Dio!; ma ciò è incredibile!»
«Vedrete», disse il mio ospite; «voi dite di esservi coricato il 30 Maggio».
«Sì».
«Posso chiedervi di quale anno?»
Incapace di parlare, lo fissai per un istante.
«Ma sì, in quale anno, se mi è concesso il chiedervelo. Quando mi avrete, risposto, potrò dirvi per quanto tempo avete dormito».
«Era nell’anno 1887», dissi.
Il mio ospite insistè perchè bevessi ancora e mi tastò il polso. «Mio caro amico,» disse quindi, «la vostra condotta mi prova che voi siete un uomo colto, ciò che non era facile ai dì vostri come lo è ora. Indubbiamente avrete osservato che, a questo mondo, non si può mai dire che una cosa sia più strana d’un’altra, poichè ogni effetto sta in relazione diretta con la sua causa. Ammetto che quanto sto per dirvi vi sorprenda: ma spero che non perderete per ciò la vostra tranquillità d’animo. Voi non dovete aver più di trent’anni e non avete nemmeno l’aria d’aver dormito tanto; eppure, oggi è il 10 Settembre dell’anno 2000, sicchè voi avete dormito 113 anni, 3 mesi e 11 giorni».
Sentendomi alquanto sbalordito, seguii il consiglio del mio dottore, bevvi una tazza di una specie di brodo, e quindi mi addormentai profondamente.
Quando mi svegliai, la camera, che prima era illuminata artificialmente, era inondata dalla luce del sole. Il mio ospite misterioso era seduto vicino a me, e siccome egli non mi guardava quando apersi gli occhi, potei osservarlo e pensare alla mia straordinaria situazione prima che egli si accorgesse che ero desto. Il mio capogiro era cessato e la mia mente era interamente lucida. La storia del mio sonno di 113 anni che avevo ascoltata senza discutere in causa della mia confusione, mi parve ora una mistificazione della quale volevo chiedere spiegazione.
Qualche cosa di straordinario doveva certamente essere accaduto poichè mi svegliavo in una casa straniera, ma per quanto la mia fantasia lavorasse, non potevo che congetturare. Era mai possibile che io fossi vittima di una congiura? Le apparenze c’erano; epperò se mai viso umano espresse la franchezza, l’uomo che mi stava vicino, colla sua fronte intelligente, mi parve incapace di poter partecipare ad un delitto qualsiasi. Mi chiesi quindi se non si trattasse di uno scherzo dei miei amici allo scopo di provarmi il pericolo della mia camera sotterranea e dei miei tentativi mesmerici. Questa supposizione era inammissibile; Saverio non mi avrebbe tradito per nulla al mondo e non avevo nessun amico capace di farmi un tiro simile, eppure la supposizione che si trattasse di uno scherzo era la sola accettabile. Aspettavo, da un momento all’altro, di veder, dietro ad una cortina o dietro ad una seggiola, un viso amico che mi guardasse sghignazzando.
Allorquando rivolsi lo sguardo sul mio ospite vidi che mi guardava.
«Ecco dodici ore che dormite bene», disse egli con aria soddisfatta, «e vedo che ciò vi ha giovato. Avete miglior ciera, l’occhio è più limpido, come vi sentite?»
«Non mi son mai sentito meglio», risposi, e mi rizzai a sedere sul letto.
«Vi rammentate, senza dubbio, della prima volta che vi destaste», proseguì egli, «e del vostro stupore all’udire che avevate dormito sì a lungo?»
«Voi diceste, mi pare, che avevo dormito 113 anni».
«Per l’appunto!»
«Confesserete», aggiunsi con un sorriso ironico, «che questa storia è abbastanza inverosimile».
«Straordinaria, lo ammetto», rispose egli, «ma non inverosimile, nè in contraddizione con ciò che sappiamo circa lo stordimento. Quando esso è completo, come nel caso vostro, la facoltà vitale cessa. Quando le condizioni esteriori proteggono contro le offese fisiche, non si può dire quanto possa durare uno stordimento simile. Lo stordimento da voi sofferto è, invero, il più lungo che sia finora successo; ma chissà fino a quando sarebbe durato se non foste stato trovato e se il locale, in cui eravate, fosse rimasto non tocco da nessuno. Il progressivo raffreddamento della terra avrebbe distrutto il tessuto cellulare e liberato lo spirito».
Se io era vittima di uno scherzo, bisogna, proprio dire che s’era scelto, per farmelo, uno strumento dei più adatti. Col suo fare eloquente e convincente, quell’uomo sarebbe riuscito a provare che la luna era un formaggio. Il sorriso col quale accolsi la sua ipotesi sullo stordimento, non lo imbarazzò menomamente.
«Non volete voi proseguire», dissi, «e narrarmi con precisione tutte le circostanze che vi condussero a trovare la camera della quale mi parlaste dianzi? Io sono amante delle storie ben trovate».
«Nel caso nostro», disse con serietà, «nessuna invenzione uguaglierebbe in stranezza la verità. Già da vari anni volevo costrurre, nel vasto giardino annesso a questa casa, un laboratorio per esperimenti chimici. Giovedì scorso, finalmente, si incominciarono gli scavi, la stessa sera essi erano terminati ed al venerdì dovevano venire i muratori. Il giovedì sera avemmo un acquazzone tremendo ed al venerdì mattina trovai i miei scavi convertiti in uno stagno e le pareti tutte allagate.
Mia figlia che era venuta con me per vedere i danni, mi fece osservare un angolo di muro messo a nudo dalla caduta delle pareti. Tolsi la terra, e siccome vidi che doveva esser una parte di una gran massa, risolvetti di esaminarla più minutamente. Feci venire degli operai che scopersero un lungo edifizio, a circa otto piedi sotterra, che sembrava aver appartenuto ad una vecchia casa. Uno strato di cenere e di legno carbonizzato ci provarono che la casa doveva esser stata distrutta dal fuoco. Il sotterraneo era intatto, il cemento pareva messo allora, allora. La casa aveva una porta che non riuscimmo ad atterrare; allora togliemmo una delle lastre di pietra che ne formavano il tetto ed entrammo. L’aria era rarefatta; ma pura ed asciutta e non fredda. Alla luce della mia lanterna, potei vedere che il locale era una camera da letto ammobigliata secondo la moda del secolo XIX. Sul letto giaceva un giovanotto. Non dubitammo neppure un istante che egli fosse morto da più di un secolo; ma io ed un altro mio collega che avevo condotto meco, fummo colpiti dal perfetto stato di conservazione di quel corpo. Non volevamo credere che si fosse mai raggiunta una tal perfezione nell’imbalsamazione, eppure il corpo che ci stava dinanzi pareva provare che i nostri antenati avessero posseduto un’arte simile.
I miei colleghi, la cui curiosità era stata punta al più alto grado, volevano fare subito alcuni esperimenti: ma io li trattenni dal farlo. Il motivo che mi spinse a ciò fu questo: mi rammentai che, all’epoca vostra, s’era coltivato assai il magnetismo animale. Non mi parve inammissibile che voi foste immerso in un sonno magnetico e che il segreto della conservazione del vostro corpo fosse da ricercarsi nella vita anzichè nell’imbalsamazione. Questo pensiero però mi parve tanto chimerico, che non ardii esternarlo ai miei colleghi e addussi altre ragioni per ottenere che si rimandassero gli esperimenti. Non appena i miei colleghi si furono allontanati, mi accinsi sistematicamente all’opera per far tornare in voi la vita, sapete già ciò che ottenni».
Se la sua narrazione fosse stata ancora più incredibile, il preciso ragguaglio di tutte le circostanze, non meno che il fare persuasivo e la personalità del narratore, avrebbero tuttavia sorpreso qualsiasi ascoltatore; quando egli ebbe terminato, il mio sguardo cadde a caso sullo specchio che mi stava dirimpetto, e quanto vidi cominciò ad inquietarmi. Il viso che vi si rifletteva era assolutamente lo stesso di quello che vi avevo scorto annodando la mia cravatta prima di recarmi da Editta, quel tal giorno di decorazione, giorno che, al dire di quell’uomo, era passato da 113 anni. Allora sorse nuovamente in me la persuasione di essere vittima di un inganno. Fui grandemente sdegnato che si osasse prendersi tanta libertà con me.
«Siete sorpreso di vedere», disse il mio ospite, «che il vostro aspetto non è cambiato, sebbene sian scorsi più di cento anni dacchè vi poneste a dormire? Eppure non dovete meravigliarvene. In causa del completo riposo di tutte le facoltà vitali, voi avete, per così dire, sopravvissuto a tutto quel periodo di anni. Se, durante questo stordimento, il vostro corpo fosse stato suscettibile di cambiamento, esso si sarebbe scomposto da un pezzo».
Mi volsi a guardarlo e gli dissi: «Signore, io non giungo a comprendere per qual motivo voi continuate a narrarmi, con tanta serietà, tutta questa filastrocca; però mi sembrate abbastanza intelligente per capire che, per credervi, bisognerebbe essere di cervello ben debole. Tralasciate quindi tutte queste sciocchezze e se non volete dirmi ove sono, lasciate che provi a saperlo altrimenti».
«Voi dunque ricusate di credere che siamo ora nell’anno 2000?»
«Vi par necessaria una simile domanda?» soggiunsi.
«Ebbene», rispose il mio strano ospite, «giacchè non riesco a persuadervi, vi persuaderete da voi. Vi sentite voi forte abbastanza per seguirmi al piano superiore?»
«Sono forte come lo son sempre stato» risposi stizzito. «e ve lo proverò se persistete a continuare questo scherzo.»
«Vorrei pregarvi,» così mi rispose «di non esser tanto persuaso che si tratti di uno scherzo, chè il contraccolpo che provereste nel riconoscere la verità delle mie asserzioni, potrebbe esservi fatale».
Il suo fare pieno di sollecitudine e di compassione, come pure la sua calma nell’udire le mie parole, mi colpirono e lo seguii combattuto da sentimenti assai contrarii. Mi fece salire due scale, quindi un’altra più piccola che conduceva ad una terrazzina posta sul tetto. «Guardatevi intorno, vi prego» mi disse egli quando fummo giunti là in alto, «e ditemi se è quella la Boston del secolo decimonono.»
Ai miei piedi giaceva una gran città. Larghe strade, ornate di piante ombrose e di vasti edifizii si estendevano alla distanza di miglia ed in tutte le direzioni. In ogni quartiere si vedevano piazze grandissime circondate da alberi ed adorne di statue e di fontane. Da ogni parte vedevansi colossali edifizi pubblici, di una grandiosità architettonica sconosciuta all’epoca mia, ergere le loro maestose colonne. Invero io non avevo mai visto quella città, nè un’altra che le somigliasse. Finalmente alzai lo sguardo all’orizzonte, verso ponente. Quella striscia azzurra e serpeggiante non era forse il fiume Charles? Guardai verso levante; il porto di Boston mi stava dinanzi, nessuna delle sue verdi isolette mancava.
Sapevo ora che quanto mi avevan narrato era pura verità.