L'apatista o sia L'indifferente/Atto I
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ATTO PRIMO.
SCENA PRIMA.
Il Cavaliere e don Paolino.
D’affetto e d’amicizia a rendervi un tributo.
Cavaliere. Sempre caro mi siete. De’ cari amici miei,
Per tempo, o lontananza, scordarmi io non saprei.
Se vengono a vedermi, ne ho piacer, ne ho diletto;
Serbo lor, se non vengono, il medesimo affetto;
Stessero i mesi e gli anni a favorirmi ancora.
Quando mi favoriscono, son grato a chi mi onora.
Paolino. Bel rimprovero, amico, gentile ed amoroso!
Lo so che al mio dovere fui finor neghittoso.
Dovea, due mesi sono, venire al Feudo vostro,
A darvi un testimonio del primo affetto nostro;
Ma i domestici affari...
Sono le cerimonie sbandite in casa mia.
Se amor qua vi conduce, gradisco il vostro affetto,
E se obbedirvi io deggio, che comandiate aspetto.
Paolino. Sì, amico, a voi mi guida l’amore e il dover mio;
Con voi me ne condolgo....
Cavaliere. Di che?
Paolino. Di vostro zio.
So che dopo due mesi ch’egli mancò di vita,
Non dovrei rinnovarvi nel cuore una ferita.
Lo so ch’egli vi amava, so che voi pur l’amaste,
E fui a parte anch’io del duol che ne provaste.
Cavaliere. Gradisco i buoni uffici di un generoso amico,
Ma noto esser dovrebbevi il mio costume antico.
Delle sventure umane affliggermi non soglio,
Nè con vil debolezza, nè con soverchio orgoglio.
Lo zio, ch’era mortale, pagato ha il suo tributo;
Per prolungar suoi giorni fec’io quanto ho potuto.
Della natura umana i primi moti ho intesi,
Ma a rispettare il fato dalla ragione appresi;
Dicendo fra me stesso, se morto ora è lo zio,
Perchè dolermi tanto, se ho da morire anch’io?
E dopo la mia morte a me che gioveranno
Le lacrime e i singhiozzi di quei che resteranno?
La vita è troppo breve per trapassarla in guai;
Abbiam delle sventure da tollerare assai;
E quei che più si affliggono degl’infortuni usati,
Vivono men degli altri, sono a se stessi ingrati.
Paolino. Questa filosofìa piacemi estremamente.
Il mal non è più male, se l’anima nol sente.
Resti in pace lo zio, che fatto ha un sì gran volo;
Della vostra virtude con voi me ne consolo.
E poi, se all’amicizia libertà si concede.
Godo ch’ei v’abbia fatto di sue ricchezze erede.
Ho ricevuto il colpo, accolta ho la mia sorte.
Cosa son questi beni? Parlo col cuor sincero.
Ricusarli non deggio, ma non li stimo un zero.
Col scarso patrimonio dal padre ereditato
Vissi finor tranquillo, contento del mio stato.
Finor la mensa mia ebbi ogni dì imbandita
D’alimento discreto per conservarmi in vita.
Potei decentemente finora andar vestito.
Un servitor bastavami per essere servito.
Qualche piacer potevami prendere onestamente;
Avea de’ buoni amici, vivea felicemente.
E misurando i pesi colle mie scarse entrate,
Le partite bastavami vedere equilibrate.
Or le nuove ricchezze a che mi serviranno,
Se non se per accrescermi qualche novello affanno?
Ma io, per evitare qualunque dispiacenza,
Serberò in ogni stato l’usata indifferenza.
Paolino. Un simile costume è ottimo, lo so;
Ma sempre indifferente essere non si può.
Nascono di quei casi, in cui non val ragione
Per superare i stimoli d’ingenita passione.
L’uomo non è insensibile; lo stoico più severo
Pena sugli appetiti a sostener l’impero;
E ad onta dello studio, in pratica si vede.
Che alla natura umana l’uom si risente e cede.
Cavaliere. Tutti siam d’una pasta, anch’io ve lo concedo,
Ma vincolato il cuore negli uomini non credo.
Se fossimo costretti cedere alla passione,
Inutile sarebbe l’arbitrio e la ragione;
Nè merto, nè demerito si avria nel mal, nel bene,
Lo che all’uom ragionevole di attribuir sconviene.
E il seguitar dell’anima i volontari aiuti,
È quel che ci distingue dal genere dei bruti.
Siete un novel filosofo più stoico di Zenone.
Cavaliere. Non fondo il mio sistema sopra gli esempi altrui;
Ciascun dee onestamente seguire i pensier sui.
Amo il ben della vita, i comodi non sprezzo.
Ma sono anche agl’incomodi a rassegnarmi avvezzo.
Talora un ben mi arriva, un mal talor m’avviene;
Io sono indifferente al mal siccome al bene.
Paolino. Voi, che avete sinora l’indifferenza amato,
Ditemi, foste mai di donna innamorato?
Cavaliere. Mai, per grazia del cielo.
Paolino. Grazia è del cielo, è vero.
Io posso dir per prova quanto amor sia severo.
Cavaliere. Non ho, per dire il vero, cercato innamorarmi.
Ma dall’amar nemmeno cercato ho di sottrarmi;
Di belle donne al fianco mi ritrovai talora,
Conobbi il loro merito, ma non mi accesi ancora;
Onde, o finor non vidi donna in cuor mio possente,
O il cuore ho per natura da tal passione esente.
Questa freddezza interna so che un piacer mi toglie,
Ma so ancor, che l’amore reca tormenti e doglie;
E in dubbio che mi rechi amor gioia, o tormento,
Son dell’indifferenza lietissimo e contento.
Paolino. Cavaliere, credetemi, arriverà quel dì,
Che il vostro core acceso non penserà così.
Cavaliere. Può darsi, anch’io son uomo, so che l’uom s’innamora.
Posso anch’io innamorarmi, ma non l’ho fatto ancora.
Paolino. Sarà pur necessario, che voi prendiate stato.
Cavaliere. Necessario? perchè?
Paolino. Lo zio non vi ha lasciato
L’obbligo in testamento, ragionevole, onesto.
Di maritarvi?
Cavaliere. È vero. Ma qual ragion per questo?
Quand’io non mi marito, e altrui le facoltà
Passin del testatore, per me, che mal sarà?
Potrei senza i suoi beni viver contento ancora.
Paolino. La contessa Lavinia, che a voi fu destinata
Dallo zio per consorte, da voi non è curata?
Cavaliere. La venero, la stimo, di soddisfare io bramo
Dello zio l’intenzione, ma per dir ver, non l’amo.
Paolino. Ma se voi di marito non date a lei la fede,
Ella dal testatore vien dichiarata erede.
Cavaliere. Questa minaccia orribile non giunge a spaventarmi.
Come non mi spaventa l’idea d’accompagnarmi.
Darò alla Contessina forse la mano e il core.
Ma violentar non voglio l’indifferente amore.
Paolino. (Buon per me, ch’ei negasse di acconsentire al nodo.
Di conseguir Lavinia mi si offrirebbe il modo). (da sè)
Pigliereste una donna senza provarne affetto?
Cavaliere. L’amerei per dovere, se non per mio diletto.
Esser potrà sicura, ch’io non farolle un torto,
Ma per amor non speri vedermi a cascar morto.
Di me sarà contenta, se bastale la fede.
Paolino. Eh, la donna, signore, altro dall’uom richiede.
Sollecita agli amplessi, quel ch’ella brama, io so.
Cavaliere. Io non mi vo’ confondere, farò quel che potrò.
Paolino. (L’amore e l’amicizia guerra mi fan nel seno.
Alla passion che agita, ponga ragione il freno). (da sè)
SCENA ii.
Fabrizio e detti.
Il conte Policastro e la Contessa figlia.
Cavaliere. Da me? che stravaganza?
Paolino. (Oh incontro periglioso!)
(da sè)
Cavaliere. Vengano, son padroni. (a Fabrizio, che parte)
Paolino. (Stiasi il dolore ascoso). (da sè)
Il padre a qual motivo venir colla signora?
Paolino. Questo è un segno di stima.
Cavaliere. È ver, ma ciò non si usa.
Paolino. Il sangue, la campagna, gli può servir di scusa.
Cavaliere. Sentiam che cosa dicono la figlia e il genitore.
Paolino. In simile sorpresa cosa vi dice il cuore?
Cavaliere. Il cuor non mi predice nulla di stravagante;
Più volte la Contessa veduta ho nel sembiante,
E con l’indifferenza con cui l’ho già veduta,
Spero di rivederla in casa mia venuta.
Paolino. Ora vi si presenta con titolo specioso.
Cavaliere. Che vuol dir?
Paolino. Come sposa dinanzi al caro sposo.
Cavaliere. Il titolo di sposo ancor non accettai.
Paolino. (Prego il cielo di cuore, che non l’accetti mai). (da sè)
SCENA III.
Il Conte Policastro, la Contessa Lavinia e detti.
Contessa. Schiavo di lor signori.
Cavaliere. Riverente m’inchino: che grazie, che favori
Impartiti mi vengono con generoso cuore
Da una dama compita, da un sì gentil signore?
Conte. L’amore ed il rispetto... anzi le brame nostre...
Fate voi, Contessina, le mie parti e le vostre.
Contessa. Alla città tornando, siamo di qui passati;
Riposano i cavalli dal corso affaticati,
E di fermarci un poco l’agio da voi si spera.
Cavaliere. (Quanto cortese è il padre, tanto la figlia è altera).
(da sè)
Contessa. (Temo che don Paolino disturbi il mio disegno). (da sè)
Paolino. (La Contessa è confusa). (da sè)
Conte. (Sono in un doppio impegno).
(da sè)
Casa mia è casa vostra, di lei vi fo padroni.
Ehi, da seder. (i servitori recano le sedie)
Conte. Signore, venuti a ritrovarvi
Siamo per desiderio... (al Cavaliere)
Contessa. Non già d’incomodarvi.
(al Cavaliere)
Ma trapassando, a caso, ci siam fermati qui.
Non è vero, signore? (al Conte)
Conte. Bene; sarà così.
Paolino. Perdon (se troppo ardisco) alla Contessa io chiedo;
Che opera sia del caso il suo venir non credo.
E il Cavaliere istesso, benchè di creder finga,
Di una cagion più bella l’animo suo lusinga.
Cavaliere. Senza ragione, amico, voi giudicate al certo.
So ben che una finezza, so che un favor non merto.
Senza fatica alcuna da me son persuaso,
Che abbia qui trattenuta questa damina il caso.
Conte. Non signor, per parlarvi con tutta verità...
Contessa. Di veder questo Feudo s’avea curiosità.
Il zio del Cavaliere, ch’era mio zio non meno,
So che piacer vi prese, so che l’ha reso ameno.
Parlar delle fontane, parlar de’ bei giardini.
Ho più volte sentito ancor ne’ miei confini.
Bramai con tale incontro veder le cose udite.
Ditel voi, non è vero? (al Conte)
Conte. Sarà come voi dite.
Paolino. Ma delle tante cose degne d’ammirazione
Veder non desiate anche il gentil padrone? (alla Contessa)
Cavaliere. Qual brama aver potrebbe la nobile fanciulla
Di veder un che al mondo conta sì poco, o nulla?
Parlar di tai delizie avrà sentito assai;
Non avrà di me inteso a favellar giammai.
Poco son io sociabile, vivo al rumor lontano.
Scarsissimo di mente, filosofo un po’ strano;
Che altrui di rivedermi possa ispirar l’oggetto.
Conte. Non è la prima volta, che noi ci siam veduti:
Sono i meriti vostri palesi e conosciuti.
Mia figlia che, per dirla, ne sa più di un dottore,
Fa di voi molta stima.
Cavaliere. Non merto un tale onore.
Conte. Io che padre le sono, e padre compiacente,
So che il suo cor...
Contessa. Scusate; non sapete niente.
(al Conte)
Conte. Sarà così.
Contessa. Il mio core conosce il suo dovere.
Sa che a figlia non lice venir da un cavaliere.
Sol per vedere il Feudo si prese un tal sentiero;
Non è vero, signore? (al Conte, arditamente)
Conte. Sì, cara figlia, è vero.
Paolino. Da un simile discorso chiaro si può capire,
Cavalier, ch’ella teme di farvi insuperbire.
Maschera la cagione, che a lei servì di scorta.
Ma non è per nascondersi bastantemente accorta.
Conte. Male le mie parole, signore, interpretate. (a don Paolino)
Cavaliere. Amico, questa volta, lo so anch’io, v’ingannate.
(a don Paolino)
Questa dama di spirito sa quel che mi conviene;
Per me il tempo prezioso a perdere non viene;
E quando un tanto onore venissemi da lei,
Credetemi, superbo per questo io non sarei.
Contessa. Crederebbe il tributo men del suo merto ancora.
Conte. Che prontezza di spirito!
Cavaliere. Non per ciò, mia signora.
Ma io, per mio costume, sono egualmente avvezzo
A non curar gli onori, e a non curar lo sprezzo.
Contessa. Signor, l’avete inteso? può dir più francamente,
Che di me non si cura? (al Conte)
(alla Contessa)
Cavaliere. Eppure il mio rispetto in ogni tempo e caso
Son pronto a dimostrarle. (al Conte)
Conte. Di ciò son persuaso.
Paolino. Questo linguaggio oscuro capite, Conte mio,
Cosa voglia inferire? (al Conte)
Conte. Non lo so nemmen io.
Contessa. Pare che non vi voglia a intenderlo gran cosa:
Il Cavalier paventa ch’io voglia esser sua sposa;
Teme che il testamento ad osservar lo astringa,
Ch’io voglia porre in pratica la forza o la lusinga.
Spiacegli rinunziare de’ beni una metà;
Meco goderli unito inclinazion non ha.
Il coraggio gli manca per dire, io non ti voglio;
Cerca le vie più facili per ischivar lo scoglio.
Onde in forma ci tratta dubbia, confusa e strana.
Parvi che al ver mi apponga? (al Conte)
Conte. Non siete al ver lontana.
Cavaliere. La Contessa s’inganna, s’ella mi crede avaro;
Poco i comodi apprezzo, pochissimo il danaro.
Tanto è lontan ch’io peni seco a spartire il frutto.
Che se il desia, son pronto a rilasciarle il tutto.
Molto più sbaglia ancora, se crede ai desir miei
Possa riescir penoso il vincolarmi a lei.
Del zio dopo la morte non si è parlato ancora.
Il mio pensiere in questo non ispiegai finora;
E se in lei tal sospetto senza ragion prevale,
Sembra ch’ella mi sprezzi. (al Conte)
Conte. Affè, non dice male.
(alla Contessa)
Paolino. Conte, non vi affliggete, temendo i loro sdegni;
Questi arguti rimproveri sono d’amore i segni.
Da così buon principio molto sperar conviene.
Conte. Don Paolino, io credo che voi diciate bene.
,alla Contessa, in modo di rimproverarla con arte)
Conte. Ah! che dite, figliuola? (alla Conlessa)
Contessa. (Don Paolino intendo), (da sè)
Paolino. Il Cavaliere anch’esso arde d’amor per lei.
Conte. Sentite? rispondete. (al Cavaliere)
Cavaliere. Non dico i fatti miei.
Conte. Orsù, noi siam venuti...
Contessa. Per divertirci, a caso.
(con aria sprezzante)
Cavaliere. Via, non vi affaticate, che ne son persuaso.
(alla Contessa)
Conte. Sì signor, siam venuti a caso, come vuole;
Ma posto che ci siamo, diciam quattro parole.
Parliam del testamento...
Contessa. Signor, con sua licenza, (s’alza)
Parlar di tal affare non deesi in mia presenza.
Se immaginar poteva tal cosa intavolata,
Signor, ve lo protesto, non mi sarei fermata.
Impedire non deggio che il genitor ragioni;
Servisi pur, ma intanto, s’io vado via, perdoni.
D’uopo di mia presenza in quest’affar non c’è.
Le mie ragioni il padre può dir senza di me.
Egli non ha bisogno della figliuola allato.
Conte. Ma io senza di voi mi troverò imbrogliato.
Cavaliere. Sola vuol la Contessa partir da questo loco?
Contessa. Anderò nel giardino a passeggiare un poco.
Conte. Dunque il parlar sospendo.
Contessa. Anzi parlar dovete.
Conte. Ma che poss’io risolvere, quando voi non ci siete?
Io non ho gran memoria; mi scordo facilmente.
Contessa. Con voi don Paolino può rimaner presente.
Paolino. Ch’io nel giardin vi serva, signora mia, sdegnate?
Contessa. Per compagnia del padre bramo che voi restiate.
Non so se il Cavaliere in mio favore inclini,
E in voi, don Paolino, che siete un uom d’onore,
Lascio alle mie ragioni l’amico e il difensore. (parte)
SCENA IV.
Il Conte, il Cavaliere e don Paolino.
Cavaliere. Don Paolino, si vede
Ch’io sono un uom sospetto, e che in voi solo ha fede.
Paolino. Se di ciò vi dolete, io parto in sul momento.
Cavaliere. No, no, restate pure, anzi ne son contento.
Un uomo come me, che parla chiaro e tondo,
Non teme di spiegarsi in faccia a tutto il mondo.
Parli il Conte a sua posta, e quando egli ha parlato,
Fate voi per la dama l’amico e l’avvocato.
Conte. In pochissimi accenti dirò il mio sentimento.
D’Alfonso mio cugino vi è noto il testamento.
Per noi siamo prontissimi a dargli esecuzione;
Di voi saper si brama quale sia l’intenzione.
Cavaliere. Dirò...
Paolino. Con buona grazia; pria che il parlar si avanzi,
Del cuor della fanciulla siete sicuro innanzi?
Conte. Non crederei che avesse dissimile intenzione;
E poi son io suo padre, son io quel che dispone.
Paolino. È ver, ma il di lei cuore meglio convien sapere.
Nè si dee ad un affronto esporre il Cavaliere.
Cavaliere. No, amico, vi ringrazio; so compatire il sesso;
Mi accetti, o mi ricusi, per me sarà lo stesso.
Basta che non si dica, ch’io sono un uomo ingrato
Al zio, che a mio dispetto mi vuol beneficato.
Conte. Meglio non può parlare. Su dunque, in testimonio
D’amor, di gratitudine, facciamo il matrimonio.
Paolino. Farlo per l’interesse sarebbe un folle inganno:
Non ebbe il testatore l’idea d’esser tiranno.
Esser cagion potete di un pessimo destino. (al Conte)
Conte. Non vorrei aggravarmi, per dir la verità.
Paolino. Dunque espiar dovete dei cor le volontà.
Cavaliere. Della mia disponete.
Paolino. E se la figlia oppone?
Conte. Sarebbe un altro imbroglio. Saria una confusione.
Lo zio col testamento vuole che siano uniti,
E se un di lor ricusa, suscita imbrogli e liti.
Cavaliere. Io litigar non voglio.
Paolino. Il Cavalier si vede
Che è di cuor generoso, e che si accheta e cede,
Pronto a lasciare ad essa tutto l’intiero stato.
Cavaliere. Fate assai ben le parti d’amico e d’avvocato.
So disprezzare i beni, posso donare il mio;
Ma gli altri non dispongono, quando il padron son io.
Lodo che per la dama siate di zelo acceso,
Parmi aver di tal zelo l’occulto fin compreso.
Non curo le ricchezze, non sono innamorato.
Ma per soffrire i torti, non sono un insensato.
Parli pur la Contessa, esponga i suoi desiri.
Non creda che il mio cuore a violentarla aspiri.
Son pronto un sagrifizio fare alla dama onesta.
Ma d' obbligarmi a farlo la via non è codesta;
E voi, don Paolino, che forse in altro aspetto
Veniste a prevenire la dama in questo tetto.
Sappiate ch’io son tutto a compatire usato,
Fuori che un cuor mendace, ed un amico ingrato, (parte)
Conte. Questo latino oscuro spiegatemi in volgare.
Paolino. Evvi ragione alcuna, ond’abbia a sospettare?
Conte. Non crederei.
Paolino. Vi pare ch’io non sia un onest’uomo?
Conte. Almeno all’apparenza sembrate un galantuomo.
Conte. Sarà, non me n’intendo.
Paolino. Le mie soddisfazioni da voi medesmo attendo.
Conte. Da me?
Paolino. Da voi, signore. Da voi solo si deve...
Basta, ci parleremo: ci rivedremo in breve. (parte)
Conte. Ecco un novello imbroglio. Che diavolo sarà?
Io soddisfar lo deggio. Oh bella in verità!
Lo dirò alla figliuola; che fare io non saprei.
S’ella ritrova il modo, che lo soddisfi lei. (parte)
Fine dell’Atto Primo.
Note
- ↑ Così le edd. Guibert-Orgeas, Zatta e altre. Nell’ed. Pitteri leggesi: accetteta.