L'aes grave del Museo Kircheriano/Tavole III. e IV. A.

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Tavole I. II. Tavola IV. B.

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TAVOLE III. e IV. A.


I Signori della magistratura di Gubbio, singolarmente il Signor Marchese Antonio Benveduti, Monsignor Bonclerici col Cavalier Brancuti nobilissimi patrizi di Cagli, personaggi tutti non meno studiosi de’ patrj monumenti, che cortesi e liberali verso il buon riuscimento di questo nostro lavoro, hanno accresciuto il numero delle monete iguvine di questo museo Kircheriano, ed hanno il merito di quelle nuove cose che intorno ad esse ora [p. 82 modifica]noi ci facciamo a publicare. Per loro opera siamo giunti ad avere in nostra disposizione ben dieci monete iguvine e a conoscerne ben dodici varietà. L’asse, tre diversi semissi, un triente, un quadrante, un sestante e una oncia nella Tavola III.; un triente e un quadrante nella parte A della Tavola IV.; un secondo sestante sotto il num. 13. nella Tavola V. delle Incerte e finalmente una seconda oncia sotto il numero 3. della parte destra nella Tavola di supplemento.

Egli è certo il fatto, che presso i nostri antichi popoli una serie di aes grave componevasi di sole sei monete, se pure la semoncia, il dupondio, il tripondio non la traevano fuori di que’ suoi naturali confini. Qui non abbiamo né semoncie, né dupondj, ma dodici di quelle varietà che entrano nelle comuni serie. Questa grandezza di numeri non può intendersi altrimenti che riconoscendo gl’iguvini per una confederazione di genti e città somigliante alla confederazione delle genti e de’ popoli latini. Quante fossero queste tribù iguvine, non può per ora da noi accertarsi: pare tuttavia che cinque se ne scuoprano in queste dodici diverse monete. Nella Tavola III. i tre semissi tanto variati l’un dall’altro ne fanno certa fede di tre, il triente e il quadrante di questa stessa Tavola ce ne indicano una quarta, ed una quinta il triente e il quadrante della Tavola IV.

Una seconda costumanza propria de’ confederati iguvini s’intravede in queste dodici monete. Nella Tavola III. l’asse e il semisse de’ numeri 1. e 2. hanno l’impronta medesima: identiche pure sono le impronte del triente e del quadrante cosi in questa come nella Tavola IV. Nel sestante e nell’oncia vedesi quest’altra particolarità: il sestante della Tavola III. di questa classe manca di epigrafe; quello che abbiam fatto disegnare nella Tavola V. delle Incerte la porta scolpita sul suo lembo. Cosi V oncia della Tavola III. manca del corno d’abbondanza; laddove in quella della Tavola di supplemento, venutaci in dono dalla cortesia del Cavalier Brancuti, si vede altamente rilevato. Ora da questa identità d’impronte nel’asse e nel semisse, ne’ trienti e ne’ quadranti possiamo giustamente conchiudere, che gli umbri iguvini andavano per una via tutta diversa da quella degli umbri tudertini nel modo di segnare la loro moneta. Aveano questi dodici diverse imagini in sei monete, quelli in due monete non più che due impronte, e forse non più che due in tutte le sei della serie. Ciò è che ne induce a sospettare, che la tribù iguvina, a cui appartengono l’asse e il semisse de’ numeri 1. e 2. abbia un triente, un quadrante, un sestante e un’oncia, su cui, come nel semisse, sia ripetuta l’impronta dell’asse. Dicasi altretanto del triente e del quadrante dal corno d’abbondanza e dalla tenaglia, i quali forse ci rappresentano le imagini del loro asse, e insieme del semisse, sestante ed oncia. Altretanto potrebb’essere nel triente e nel quadrante della doppia ruota, ripetuta forse anch’essa nelle altre monete maggiori e minori.

Sembra tuttavia che questa costanza di ripetizioni andasse soggetta a [p. 83 modifica]qualche alterazione nel sestante e nell’oncia. II sestante della Tavola III. n. 7. o richiama un’altra serie, o più probabilmente corrisponde a quella del corno d’abbondanza e della tenaglia. Più probabile è questa seconda corrispondenza, perchè dove qui il sestante è senza lettere, nell’esemplare della Tavola V. delle Incerte ha l’epigrafe tutta intera. La quale varietà dallo scritto al non scritto esser potrebbe un avviso, che anche quel ramo di palma non sia che una semplice varietà del corno d’abbondanza, come altresì che il grappolo d’uva dell’oncia equivalga anch’esso al medesimo corno, ciò che argomentasi dall’oncia della Tavola di supplemento. Da queste diverse osservazioni potrebbe conchiudersi, che le tribù iguvine, le quali ebbero moneta propria, furono forse cinque, e che tutte forse ebbero il costume di ripetere le imagini nell’asse, semisse, triente e quadrante, con piccole variazioni nel sestante e nell’oncia; e rispetto all’epigrafe coll’arbitrio di scolpirla o di ometterla. Le Tavole X. e XI. della classe III. per ciò che spetta alle variazioni delle impronte, mostrano all’occhio quel che noi per ventura non sappiamo qui con bastevole chiarezza significare a parole.

A queste indicazioni aggiungeremo l’altra de’ luoghi dove ci pare meno improbabile che fossero collocate le cinque officine della moneta iguvina. Iguvio stesso o Gubbio, che doveva essere come la metropoli degli altri; i due Tiferni e principalmente il Tiberino, dal quale son provenute una buona parte di quelle monete che possediamo; Nocera, Assisi o forse Arna. La nostra Tavola geografica e la cognizione che abbiamo di quella parte dell’Umbria, ci presentano quelle genti come le più degne di cosi bella gloria.

Ci siam fatti arditi di annunziare che le monete iguvine manifestano nell’Umbria una confederazione di municipj o città diverse somigliante in diverse cose alla confederazione delle città latine. Per quanto i latini tra loro si distinguano per diversità d’imagini e di simboli, contuttociò le lor monete hanno tutte un vincolo che mirabilmente annoda quelle d’una città a quelle d’un altra. Diverse anche più che le latine sono, sotto un certo aspetto, le impronte iguvine: eppure la medesima epigrafe, che senza la minima alterazione si ripete in quelle loro diverse città ne è certa prova, che non sono eglino se non una sola e medesima gente. Sappiamo che come i latini su la cima del più elevato tra’ loro monti si raccoglievano ne’ giorni delle loro ferie ad onorar in un tempio a tutti comune quel Giove, a cui dato aveano il proprio nome di Laziale, cosi gl’iguvini, che giovini anche si dissero, forse per la particolar loro divozione a Giove, alzato aveano su d’un de’ più alti loro apennini un tempio, ove nelle loro feste accorrevano ad ossequiarlo sotto il titolo di Giove Apennino.

Non ometteremo un altro fatto, da cui apparirà forse anche più probabile il legamento degl’iguvini co’ latini. Nella terza tavola eugubina, scritta in caratteri latini, si leggono tra le altre queste parole, AGRE TLATIE PIQVIER MARTIER, le quali in lingua più colta suonano, secondo il Lanzi [p. 84 modifica]AGRI LATINI PICENTIVM MARTIORVM. L’erudizione con che quel dotto maestro sì argomenta d’ illustrare quel testo è pur molta; ma a fronte del rispetto che noi gli professiamo, la troviamo applicata con qualche violenza. Nella nostra consanguinità de’ latini con gl’iguvini l’interpretazione riuscirebbe forse più spontanea e naturale. La stessa ruota che qui abbiamo, sarebbe una nuova dimostrazione della presenza de’ rutuli e de’ latini nelle terre degl’iguvini, la quale toglierebbe ogni maraviglia intorno al nome di campo latino posseduto da piceni divoti a Marte, che portava una parte di quel paese. Se la storia fosse stata meno avara verso tutti i primitivi popoli della nostra Italia, con altri documenti di molto maggior forza potremmo forse confermare questo nostra opinione.

Della significazione de’ simboli scolpiti su queste monete non si potrà discorrere con bastevole ragione, finché non sieno tutte conosciute e non se ne sieno vedute tutte le scambievoli relazioni. Direm tuttovia, che il grande astro dell’asse e del semisse probabilmente ne rappresenta il sole; nel rovescio v’è la luna con quattro astri minori, i quali potrebbon forse riferirsi a’ quattro pianeti maggiori, che a quelle genti erano meglio conosciuti. Nel semisse del n. 3. v’è pure la luna, e con essa Venere effigiato nell’astragalo: nel rovescio poi i due piccoli astri possono appartenere a’ dioscuri. Il corno d’ abbondanza e il grappolo d’ uva indicano qui, come in Todi, la munificenza del sommo padre Giove: l’elmo è forse di quel Marte, a cui si erano affidati que’ piceni dell’agro latino, de’ quali testé abbiam parlato, le tenaglie spettano a Vulcano, che ci si mostrerà altresì nell’Umbria adriatica.

Gl’iguvini nelle cose dell’arte si rimangono al di sotto de’ tudertini. Pare non sappiano effigiare neppur una delle varie teste che sarebbono richiamate da que’ loro simboli, e non v’è che da fermar l’ occhio sul loro corno d’abbondanza, per intendere di qual ingegno e attitudine di artisti erano provedute le loro città quando segnavano queste preziose monete. Qual fosse precisamente un tal tempo, non è facile il determinarlo. Il peso delle dieci monete di questo museo, tra le quali il secondo e il terzo semisse richiamano con bastevole accordo un asse di sett’oncie. Da ciò potrebbesi argomentare che la moneto iguvina sia di origine alquanto posteriore alla più antica tudertina, ma anteriore a quella degli etruschi, che è nella classe seguente.

Non isfuggirà alla perspicacia degli studiosi della paleografia e della grammatica umbra la forma dell’ultima lettera di quelle epigrafi, la quale non pare un I, ma forse un S voluto dalla declinazione del nome, per indicare la pluralità delle tribù, delle quali componevasi tutto la nazione.