L'aes grave del Museo Kircheriano/Tavola IV. B.

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Tavole III. e IV. A. Tavola I.
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TAVOLA IV. B.


Il Passeri e dietro lui il Lanzi per la doppia ragione della provenienza e della impronta riconoscono per tudertine quelle monete ovali su cui v’ è scolpita la clava. Le nostre osservazioni convengono con le loro, e in quella clava abbiam già detto anche noi, nascondersi il nome . Ma la copia grande de’ nostri monumenti, e quindi la comodità nostra di moltiplicare i confronti, ci mettono in mano un terzo argomento dimostrativo di questa proprietà de’ tudertini. L’argomento consiste nel fatto della diminuzione del peso, per cui possiamo irrepugnabilmente conchiudere, che questi quadranti, sestanti ed oncie o sono tre monete tudertine, o sono romane; mercechè in tutta l’Italia tirrenica non abbiamo fuor di Roma e di Todi officina alcuna, la qual ne additi moneta di doppio peso. Roma qui non può entrare competitrice, perchè non sono le sue terre che nascondono questi tre bronzi, ma bensì quelle degli umbri, e più particolarmente quelle de’ tudertini, i quali anche vi hanno sopra il simbolo del proprio nome. Dunque rimanga pure Todi nel suo legitimo possesso.

Non perciò mai vorremo noi credere che l’officina urbana di Todi segnasse quelle tre monete. Una tale credenza avrebbe contrario il costume di quelle antiche genti, le quali non raddoppiarono mai né variarono la moneta propria nella forma che qui si vede: Todi non ebbe mai due diversi quadranti, né due sestanti, né due oncie. Crederemmo meno improbabile, che una piccola città, nata da Todi e a Todi vicina, avesse voluto anch’essa erigere una zecca, ma che la gelosia della metropoli, per non negarle in tutto la domanda, né in tutto concedergliela, ne stabilisse il metodo e il diritto come qui i monumenti ce lo palesano: la forma fosse ovale, l’impronta la sola clava senza epigrafe, il numero delle monete non andasse mai al di sopra del quadrante.

Ma i numeri 4. e 6. di questa Tavola, del primo de’ quali l’originale conservasi nel museo di Perugia, del secondo in questo medagliere, ci avvisano di altre varietà in questo genere, delle quali potrà dirsi con fondamento qualche cosa, quando i monumenti sieno in maggior numero. Rispetto ai num. 5. e 7. abbiamo esposto il nostro giudizio nella descrizione. Il disegno che ne dà l’Olivieri dimostra quel bronzo traforato in tutta la sua lunghezza: d’altronde non è molta l’affinità di quella forma né con la vera moneta quadrata né coll’ovale. Almeno converrà aspettare che altri bronzi somiglianti vengano in conferma della sentenza oliveriana.

La moneta del n. 8. è stata daprima illustrata dal dotto Professor Vermiglioli, il quale stimò di poterla attribuire all’antica Ereto città Sabina. Ne tenne di poi discorso l’illustre avvocato ed archeologo Gaetano De Minicis, che ha creduto poter essa appartenere alla sua Fermo. Ella è grande e sincera la [p. 86 modifica]venerazione in che noi teniamo amendue que’ letterati, e desidereremmo di cuore che tutte le città italiane contassero tra’ loro cittadini uomini che con pari studio ed amore attendessero a raccogliere ed illustrare le patrie memorie ed antichità. Tuttavia siamo costretti ad allontanarci dalla opinione di amendue. Non prendiam noi ad esame una moneta isolata, com’eglino han potuto fare: ci studiamo d’interpretare tutte quelle che incontriamo di questo genere, e su tutte pronunziamo la nostra opinione comparativa. In questa comparazione non può crear meraviglia, se abbiam veduto ciò che essi non han potuto ravvisare.

Quando fosse vero, che Ereto avesse dati i natali a quel quadrante, questo formerebbe parte delle monete della nostra prima classe, nella quale comprese sono tutte le monete sabine; se pur la Sabina ha avuto mai moneta propria; ciò che per noi è finora molto ubbioso. Perciò il quadrante del Vermiglioli accordar dovrebbesi con l’altre tutte monete della prima classe, in quanto dovrebb’essere sfornito d’ogni epigrafe ed avere un peso a quello della intera provincia proporzionato. Qui invece e il peso trovasi in una grave discordanza, e l’epigrafe ne conduce ad una terra che se non è gran fatto da questa lontana, è al certo dalla Sabina diversa.

Così se il De Minicis si fosse apposto al vero, il quadrante perugino dovrebbe collegarsi con le altre monete picene tanto nel peso quanto nella epigrafe. Ma la discordanza è quivi manifesta nulla meno che nel caso precedente. Mercechè le vere monete picene che son quelle d’Atri, o pesano, se sono assi, quattordici delle nostr’oncie, o se sono parti di asse, rispondono a queste medesime quattordici oncie, se non anche ad un peso maggiore. Un quadrante relativo ad un asse d’otto oncie crediamo che non potrà mai congiungersi alle quattordici oncie della libra picena. E quando non volesse farsi alcun conto di questa disunione, l’epigrafe basterà sola a togliere a quella provincia questa moneta. Eccone il perchè. Atri è città picena, e Fermo altresì è città picena. Ma Atri si dà a conoscere con una iscrizione tutta latina HAT. Dunque se Fermo vuol mostrare se medesima nella lingua del paese, deve anch’essa far uso della medesima lingua: dunque non possono essere i fermani que’ che hanno scolpita l’epigrafe tutta umbra od etrusca su la moneta del museo di Perugia.

Esclusi i cistiberini, esclusi i popoli adriatici da un tal possesso, non rimangono che gli etruschi e gli umbri che se la possano tra loro contrastare. Ma chi guardi al sestante del n. 9., che noi qui publichiamo congiunto al quadrante, e confronti queste due monete con le undici tavole che costituiscono la nostra classe etrusca, si convincerà facilmente, che neppure all’Etruria questa moneta può appartenere. Perciocché la moneta etrusca non fa che ripetere le due imagini dell’asse nelle parti minori che costituiscono la serie: laddove qui in due monete d’una medesima officina abbiamo quattro imagini diverse. [p. 87 modifica]Umbra adunque è la moneta contrastata, e per tale la dichiara il peso, che è un medesimo col più antico della zecca di Todi; per tale la riconosce la lingua che è quella stessa degl’iguvini e de’ tudertini; per tale la conferma la varietà delle impronte, nelle quali tuttavia quest’officina s’accorderebbe piuttosto co’ tudertini che con gl’iguvini. Due oncie abbondanti sono il peso di questo quadrante; e pesan due abbondanti oncie i tre quadranti di Todi della prima epoca che conserviamo in questo medagliere. Qui l’epigrafe è ; e nell’iscrizione iguvina abbiam queste prime due lettere con questa medesima forma di digamma quadrato ; nell’epigrafe tudertina abbiamo questa medesima foggia di , non già la triangolare dell’epigrafe di Volterra . Finalmente dodici diverse impronte conta Todi nelle sei monete della sua serie; e dodici ne debbe aver questa, che quattro ne conta in due monete.

La maggiore difficoltà consiste ora nel trovare nell’Umbria un popolo od una città, di cui possa dirsi propria quella tronca epigrafe. Cominceremo la nostra ricerca rammentando a’ nostri lettori il fatto delle iscrizioni di queste nostre monete, tanto discordanti da’ nomi che ebbero le città italiche cadute che furono in poter de’ romani. Il nome umbro di Todi fu , il nome romano Tudertum: i confederati di Gubbio si davano il nome di , ma i romani li chiamarono Eugubini. Di Volterra e di Chiusi parleremo qui appresso, e vedremo in esse eguali trasformazioni. Posto ciò sarebbe vana presunzione il voler trovare il nella latina geografia dell’Umbria col suo nome primitivo così intatto, che non abbia anch’esso sofferta una qualche alterazione. La fiorente città di Spello, città umbra posta quasi nel mezzo della linea che divide Todi da Gubbio, Hispellum fu chiamata d’ romani. Noi sospettiamo che ad essa sola spetti la presente epigrafe. Nella lingua de’ secoli migliori di Roma in troppo gran numero sono gli esempj del primitivo rotacismo trapassato a forme meno aspre e dure. Oltredichè nella epigrafe del sestante, quantunque meno conservata, abbiamo per terza lettera non il del quadrante, ma forse quel monogramma in cui gli umbri annodavano il col ; talché qui forse dovrebbesi leggere in luogo del semplice : ed i romani che al primo loro mettere il piede nell’Umbria pronunciavano forse Hirspellum o Hirspellud, ne’ tempi successivi di migliore eleganza non dissero più che Hispellum. Tale è la nostra sentenza intorno a questa moneta: il tempo scoprirà se con essa andiam lontani dal vero. Il tempo che lentamente trae in luce tutto ciò che è sepolto nelle oscure viscere della terra, ci darà un giorno a vedere il triente, il semisse e l’asse di questa officina. Su di esse tre monete si avrà la leggenda tutta intera come nella serie di Todi; e vi leggerem per ventura v.

Gitteremo innanzi un’ultima congettura intorno alla ragione di questa voce. Nel paese de’ rutuli trovammo la sede primitiva di Pico e Fauno, trovammo un irpo in alto di mettersi in viaggio, trovammo una ruota simboleggiante [p. 88 modifica]il nome di quella nazione. Salendo le rive del Tevere, presso la cui foce ebbero i rutuli la prima stanza, c’incontrammo alle falde del Soratte in una popolazione d'irpini, i quali per noi sono quasi sinonimi de’ rutuli e de’ piceni. Progredendo oltre su la riva opposta al Soratte, c’imbattemmo in Todi, dove e Pico e Fauno e l’irpo in riposo ci mostravano una seconda colonia di rutuli. Tra gl’iguvini altresì abbiam veduta ricomparire la ruota de’ rutuli, e abbiamo udito farsi una menzione solenne di campi latini posseduti da piceni. Di nuovo su la destra del Tevere ci verrà innanzi una quarta e numerosa famiglia di rutuli. Quale inverosimiglianza che tra i rutuli tudertini e gl’iguvini ve n’avessero degli altri nelle terre dove tuttora sorge Spello, e che questa città dall’irpo prendesse il nome?

Noi non pretenderemo di dare alle nostre monete quella virtù parlatrice che non hanno; ma neppure possiam rimanerci sordi alla forza di quel linguaggio che pure anch’esse favellano. Quivi i loro sensi sono tanto più meritevoli d’attenzione, quanto più conforme a natura è il fatto che ci rivelano. Nelle monete della prima classe abbiam veduta una illustre tribù d’uomini, venuti senza più d’oltre il mare, stabilirsi presso la foce del Tevere su la sinistra riva. Mancavan di porti allora quelle incolte spiagge d’Italia: né il navigatore poteva lunghesse trovare al suo legno stanza più sicura della foce del maggior fiume che dalla penisola scenda in quel mare. Le monete della seconda classe ci additano questa tribù medesima che fattasi maggiore della grandezza del paese da prima occupato, si propaga lungo la medesima sinistra riva, e progressivamente stabilisce quasi i primi germi de’ tudertini, degl’ispellati, degl’iguvini. Una seconda propagazione cammina lungo la destra riva del medesimo fiume; e di essa ci danno pure un qualche avviso le monete della terza classe le quali è oramai tempo che prendiamo ad illustrare.

CLASSE III.


Il nobilissimo Signor Marchese Carlo Strozzi da Firenze, Monsignor Vicario Giovan Battista Pasquini ed il Signor Canonico Antonio Mazzetti da Chiusi, il Marchese Antonio Albergotti, il Cavaliere Girolamo Bacci ed il Dottore Antonio Fabroni, segretario della imperiale Società Aretina di scienze lettere ed arti, ci hanno somministrati con insigne liberalità monumenti ed avvisi opportunissimi a meglio conoscere la moneta etrusca e a ragionarne con buon fondamento. Di pari gratitudine ci professiam debitori verso l’illustre numismatico fiorentino Signor Avvocato Busca, il quale divenuto padrone delle monete de’ Signori Coltellini di Cortona, piuttosto che a’ doviziosi raccoglitori stranieri, s’è compiaciuto cederle a’ nostri studj e far cosi che passassero ad arricchire il medagliere di questo museo. Un tale avviso dovevasi da noi permettere non pure per il debito della riconoscenza verso [p. 89 modifica]i fautori e proteggitori di queste dottrine, ma eziandio per togliere ogni maraviglia a coloro, che confrontando la publicazione del Cardinale Zelada con questa nostra, non saprebbono intendere il come questo museo da sì grande scarsezza abbia potuto in pochissimi anni venire in tanta dovizia di monete etrusche.

Distinguonsi queste dalle cistiberine e dalle umbre primieramente nel peso. Non meno di novanta son quelle da cui ricaviamo il fatto, che gli etruschi non ebbero mai un asse maggiore di sette oncie. Vero è che in novanta monete non contiamo più che dieci assi e tre dupondj: ma anche questi tredici testimonj a noi pajono più che bastevoli ad aver decisa la presente quistione. Riflettasi inoltre che tre sole delle undici serie etrusche da noi conosciute sorpassano d’alcun poco le sei oncie; le altre stanno al di sotto di quel peso: talché ne’ confronti troviamo che il peso minimo de’ cistiberini sono le nove oncie, il massimo degli umbri le otto, il massimo degli etruschi le sei o poco più.

La seconda particolarità delle monete etrusche consiste nella semplicità delle loro impronte. Se l’officina è d’una metropoli, stampa nel rovescio l’imagine medesima del diritto, e la ripete immutabilmente dall’asse alla parte minima che è l’oncia. Se è d’una città nata dalla metropoli, ritiene nel diritto l’imagine della madre patria e nel rovescio vi scolpisce l’impronta sua propria, ripetendole amendue in tutta la serie. Che se la città va libera da queste relazioni, segna nell’asse le imagini sue proprie disciolte e libere, e le rinnova, giusta il costume nazionale, nelle monete inferiori all’asse. Potrebbe non esser vana la congettura nostra intorno ad un somigliante sistema presso gl’iguvini, ma la rarità di loro monete ci lascia tuttora nell’incertezza. Tornerebbe in qualche modo utile alle nostre dottrine il poter avere compiute alcune delle serie iguvine. Queste ci confermerebbono nel giudizio datoci dal peso, che gli etruschi cioè non furono solamente posteriori agli umbri nell’uso della moneta, ma furono altresì ad essi discepoli nel modo di effigiarla.