L'aes grave del Museo Kircheriano/Tavole X. e XI.

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Tavole III. IV. V. VI. VII. VIII. IX. Classe IV. Tavola I.
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TAVOLE X. e XI.


Le località ove si rinvengono le monete di queste due serie, sono quelle medesime da cui tornano in luce quelle delle sei precedenti serie. Dal museo Coltellini noi avemmo il dupondio della Tavola X., ma in Cortona, per quanto noi conosciamo, ne son rimasti altri due, l’un de’ quali porta nel diritto la vocale , ciò che abbiam dato a vedere nella Tavola di supplemento, nel rovescio la , non la v, come per errore si è stampato nella descrizione. Aggiungasi che al modo stesso delle monete della Tavola III, una semplice ruota è qui il solo simbolo di tutta la serie; e che se colà quella insegna dovea prendersi per prototipo d’una metropoli, qui non può certamente tenersi in minor conto. Abbiamo tuttavia due piccole differenze da rimarcare. Laddove gli assi della prima ruota non sono di difficile ritrovamento, della seconda non sono rari i dupondj. Oltrediciò il peso di queste nuove ruote è alquanto minore di quello delle precedenti, la qual diminuzione se fosse maggiore, ne indicherebbe una età alquanto più tarda.

Da tutti questi fatti non altro noi sappiamo conchiudere, se non che i cortonesi possono per ventura verso il secondo tempo della loro zecca aver mutata la forma del loro simbolo, senza mutarne perciò la natura. Meno difficile sarebbe il dimostrare la probabilità di questa congettura, che il rinvenire in que’ luoghi d’Etruria una seconda metropoli, a cui possano appropriarsi le insegne identiche di Cortona. Dietro a quella conchiusione ne verrebbe, che un’altra città, non molto da Cortona distante e colonia di lei, circa quel medesimo tempo aprisse la sua officina congiungendo a questa [p. 101 modifica]nuova ruota la propria insegna delle tre mezze lune, colle quali noi stimiamo che siasi voluto alludere alla triforme Ecate, come abbiamo altrove accennato, non già a’ ricurvi seni, entro a’ quali le etrusche spiagge accolgono il mare.

Pervenuti al termine di questa terza classe dell’aes grave italico non chiediamo agli studiosi, che diano lode alle cure con che siamo riusciti a raccogliere ed ordinare un tanto numero di monumenti, molto meno che approvino il discorso con che ci siamo studiati d’ illustrarli. Intraprendevamo la prima opera non per accattar lodi, ma solo per aggiungere a’ fondamenti della primitiva storia italica ed etrusca quel genere di documenti, che con troppo pregiudizio del vero ne pareva in quest’ultimi anni trasandato. Ci mettevamo alla seconda impresa non come maestri che voglian dettar dalla cattedra, ma quasi a maniera di esploratori che si argomentino di pure additare una via a’ veri dotti che entreranno dietro a noi a mietere in questo ubertoso campo. Egli è per un altro titolo che dobbiamo raccomandarci alla discrezione de’ nostri giudici.

L’aes grave dichiarato e riconosciuto da noi come esclusivamente etrusco, se star debbasi all’ordine di città ed officine in che l’abbiamo distribuito, è ben altro fuorché bastevole a fornir di moneta le dodici principali città di quella confederazione e l’ampiezza intera di quella provincia. Eppure se nel concentramento del nostro studio avessimo voluto appigliarci a ciò che la mente avrebbe saputo facilmente suggerirci, nulla cosa ci sarebbe riuscita si agevole, come il rinvenire nel nostro medagliere tutte quelle dodici lucumonie. Quando del delfino volterrano avessimo voluto creare una serie distinta dalle due altre, dodici né più né meno sarebbono state le varie insegne, e perciò dodici le officine etrusche: distribuendone una in ciascuna delle dodici città, saremmo usciti d’ impaccio, e non avremmo eccitate le maraviglie e le querele di chi per ventura volesse che questa scienza numismatica s’avesse a studiare su’ medaglieri e su’ geografi e storici latini e greci, senza dare alle osservazioni topografiche intorno alla provenienza de’ monumenti quell’autorità, che la continua esperienza ci dimostra cotanto necessaria allo scoprimento del vero.

Quell’assurdo metodo di distribuzione avrebbe destati contra noi i reclami di tutti que’ molti osservatori, che da molt’anni, quivi in Roma singolarmente, tengono gli occhi aperti su tutta la varietà di monumenti, che quella porzion d’Etruria che più a Roma si accosta, lascia continuamente uscir dal suo seno. Noi ci appelliamo di buon grado alla testimonianza di costoro, e li preghiamo a volerci indicare quali tra le monete delle nostre undici tavole etrusche abbiano eglino mai veduto recarsi dalle escavazioni di Vejo, di Cere, di Tuscana o Toscanella, di Tarquinia, di Vulci, di Bomarzo. Noi dal canto nostro ripeterem quivi il fatto, che nel Febrajo dello scorso anno raccontavamo alla Pontificia Accademia Romana d'Archeologia [p. 102 modifica]per questa ragione medesima. Il signor Luigi Arduini, nostro amorevolissimo, ritornava nel 1837, agli scavi d’Orte tentati da lui con buon esito nell’anno precedente. A lui caldamente ci raccomandavamo, perchè ne tenesse esatto conto delle monete di tutta sorte che per ventura gli sarebbon venute alle mani. Giace Orte su la destra del Tevere, quasi ad egual distanza da Roma e da Chiusi e Perugia, città etrusche e ricche, secondo il nostro avviso, di moneta autonoma. Avevamo fiducia che nell’antica di lei necropoli le monete romane e cistiberine sarebbonsi trovate intramischiate con le etrusche: ma furon vane le nostre speranze; perchè ricavò l’Arduini presso a cinquanta monete dalle grotte che aperse, delle quali tre sole erano di quelle che noi abbiamo attribuite a’ confederati latini, l’altre tutte romane.

Cotale osservazione ci metteva nella necessità di conchiudere, o che questa parte d’Etruria cotanto illustre, cotanto agiata ed industriosa non avesse mai avuta moneta propria, o che ad essa appartengano alcune di quelle serie della prima classe, che noi abbiam dichiarate esclusivamente per cistiberine. La prima conchiusione ci parea poco onorevole, massime nel concetto di que’ moltissimi; i quali forse con soverchia sicurezza vanno insegnando, che solo al sopravenire della colonia di Demarato l’ingegno de’ popoli di queste terre italiche, segnatamente degli etruschi di Tarquinia, Vulci, Cere, e Vejo, uscì dalla rozza condizion sua primitiva. Si dirà poco credibile, che il greco rigeneratore, il qual veniva da quel Corinto, che in celebrità ed eccellenza d’arti non la cedea forse ad alcun’ altra città greca, e vi veniva con dietro una schiera di valenti maestri d’arti diverse, non si fosse preso cura d’ammaestrare i suoi ospiti alla fabricazione utilissima della moneta, la qual pure fin d’allora avea corso nella prossima provincia cistiberina. Tra mezzo a questi pensieri raddoppiavasi la nostra attenzione; ma non ne avemmo altro compenso, fuorché il medaglioncino d’argento disegnato nella Tavola di supplemento sotto il num. 9. classe III., uscito per quanto possiamo credere dalle escavazioni vulcenti. Che esso poi abbia tutti i caratteri della etrusca nazionalità, altri di noi più perito lo giudichi.

La seconda conchiusione vorrebbe che togliessimo alla provincia cistiberina alcune delle serie attribuitele, e le recassimo in Etruria: il quale traslocamento sarà da’ meno cauti giudicato tanto meno condannevole, quanto che non di rado si rivengono non lungi molto dalla destra riva del Tevere parecchie di cotali monete. Noi non faremo grandi sforzi per contraporci a questa divisione: vorremo solamente che la si eseguisse con sana critica, perchè, se non la giustizia e l’onestà, almeno il buon senso non avesse a chiamarsi offeso. Daremo anzi mano all’opera, e incomincieremo dalla moneta romana. Questa è che in copia maggiore di quella d’altri popoli s’incontra nelle prossime terre trastiberine, ciò che è pur facile a spiegarsi per la vicinanza maggiore di Roma al fiume, per la maggiore sua possanza [p. 103 modifica]e grandezza, per la più lunga durata delle sue officine. E se in poche grotte della necropoli d’ Orte si ebbero oltre a quaranta monete romane, a ragione almeno la serie romana potrà donarsi a quella città.

Neppure rispetto all’altre serie converrà prendersi alcuna cura di quelle note nazionali che qui non veggonsi, e che sarebbon pure tanto necessarie a dimostrare il diritto etrusco sopra di loro. Le undici serie, date da noi per etrusche, hanno, egli è vero, il peso, la maniera delle impronte, le lettere nazionali non poco diverse dalle latine, il costume di segnare il semisse con un ), o con sei globetti, mentre le serie della prima classe non adoperano mai se non la S latina; hanno queste ed altre particolarità, che sono la più evidente testimonianza della divisione tra popolo e popolo. Ma di tutto ciò non giova ora il prendersi pensiero, come neppure della via per cui l’arte della moneta s’introdusse e si propagò per l’Etruria. Cortona e le sue colonie dicevamo altrove, aver ricopiato il magistero dagl’iguvini, per quanto può rilevarsi dalle relazioni che hanno tra loro le monete de’ due paesi. Ma tengasi pure il nostro detto per una chimera; e quind’innanzi s’insegni, che l’Etruria subapennina o mediterranea ebbe quest’arte dall’ Etruria maritima; che le città tutte etrusche furono ad un medesimo tempo provedute di questa nuova foggia di commercio, che fu il puro caso, se non il capriccio delle città subapennine, che alzò quel quasi muro di divisione, in cui s’imbatte l’occhio d’ognuno il qual guardi le monete ordinate da noi nella prima classe in confronto di quelle della classe terza.

Se non che a cotali regole di critica attengasi altri a cui piacciano: noi continueremo a rimanerci, se non nella certezza, almeno in un gravissimo dubbio, che le città etrusche più a noi vicine non abbiano avuta mai moneta propria. Il congetturarne le cagioni sarà uno de’ nostri soliti ardimenti. Primieramente diciamo che l’Etruria maritima non poteva essere costretta da niuna legge a ricopiare il nuovo artifizio cistiberino. Si reggevano gli etruschi a proprio talento: potevano fare, e non fare senz’esser obligati a render conto de’ fatti proprj a chichesia. Non tutti i ritrovamenti della moderna industria europea ed americana si propagano in un tempo medesimo da città a città, da popolo a popolo; ne v’ha chi abbia ragione di muover querela contra di noi, perchè non ci aiutiamo col vapore a navigare per il nostro Tevere. Se qualcuno volesse maravigliarsi d’una cotale indifferenza in una nazione tutta data a’ traffici e alla navigazione com’era l’etrusca, noi pregheremmo costui che allargasse le sue meraviglie a’ campani, a’ lucani, a’ siculi e a tante altre genti, che quantunque vedessero l’aes grave signatum in mano a’ cistiberini, pur tuttavia non si curarono di averlo del proprio.

Una seconda ragione potè essere l’orgoglio nazionale, che anche al presente è autore di somiglianti dispregi. I trastiberini per potenza, per ricchezze, per ingegno, per arti, egli è ben verisimile che si tenessero per molto di più de’ cistiberini. Inventata l’arte e venuta in onore al di qua del fiume, [p. 104 modifica]gli etruschi avrebbon dovuto abbassarsi a trasportarla nelle loro città, al quale avvilimento non seppe umiliarsi la loro superbia. L’avrebbon forse voluto fare nel decorso del tempo, ma la cresciuta potenza di Roma non si accordò col loro volere.

Era venuto al trono di questa nuova città l’etrusco Tarquinio, allora che insorsero acerbe cagioni di guerra tra romani ed etruschi. Tarquinio disfece gli eserciti nemici, recò l’esterminio nelle loro terre, e li costrinse a chieder pace, la cui prima condizione fosse, che gli etruschi riconoscessero il re di Roma per capo e principe di tutte le loro città. Gli estremi a cui la nazione era condotta fecero che non si guardasse al danno e all’obbrobrio d’un tanto abbassamento. Gli etruschi confederati nella persona de’ loro rappresentanti furono a piè di Tarquinio a sanzionare il trattato, e non l’ebbero forse a piccola mercè. Ne giovi l’aggiungere che fu in quella occorrenza che gli etruschi gli recarono le insegne reali, seggio d’avorio, corona d’oro, scettro con aquila alla sommità, manto di porpora tessuta e ricamata in oro con altre vestimenta pure di porpora, alla maniera de’ re lidj e persiani, e v’ha chi aggiunge le dodici scuri come insegna del sommo potere su tutte le loro dodici città.

Queste tutte particolarità le abbiamo dal terzo libro dell’Alicarnassese, il quale se di poi nel quarto accenna il rifiuto delle etrusche città di continuare dopo la morte di Tarquinio ne’ patti a cui verso questo re si erano obligate, ricorda altresì la guerra che perciò contro loro intraprese Servio Tullio. Questa non durò meno di vent’anni, ed ebbe termine col togliere che questo re fece a vejenti, ceretani e tarquiniesi, come a primi autori di quella ribellione, una parte delle loro terre e con obligare la nazione intera a rientrare nella subordinazione da cui avea tentato di esimersi. I tempi che vennero appresso, singolarmente quelli in che i Tarquinj fecero sì gagliardi sforzi per ricuperare il trono perduto, pajono meno sfavorevoli alla libertà etrusca: ma i romani non tardarono a ritornare su le offese e a fare dell’Etruria maritima una delle più pingui loro conquiste. In tale andamento di fatti non sarebbe un’assurdità il credere, che i re di Roma introducessero nell’Etruria vicina la moneta propria e insieme quella degli altri cistiberini che con Roma avevano commercio: gli etruschi avvezzatisi per lunga tratta d’anni a questo genere di servitù converrebbe dire che non si prendessero interesse di liberarsene, quando le occasioni si presentarono a loro favorevoli. Le città subapennine tra le quali Chiusi, sede di quel Porsenna, che fu per poco a’ romani cotanto formidabile, come quelle che più erano da Roma lontane e meglio difese, colsero il buon punto ed apersero le loro officine. Conchiudiamo augurandoci che la lunghezza di questa digressione valga a liberarci da’ lamenti delle città etrusche, contra le quali abbiamo pronunziata la dura sentenza.