L'Economico/Capitolo XX
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CAPITOLO XX.
Quindi io così lo interrogai: se cotanto sono facili ad apprendersi le opere dell’agricoltura, e tutti sanno egualmente quello che debba farsi, d‘onde avviene che non tutti gli agricoltori se la passino allo stesso modo, ma alcuni si vivano nell‘abbondanza, e facciano anche qualche avanzo, mentre alcuni altri neppur ne ricavano ciò che gli bisogna per vivere, e sono costretti a far debiti? Io te lo dirò, o Socrate, risposemi Iscomaco; imperciocchè nè la scienza, nè la ignoranza degli agricoltori si è quella che rende gli uni copiosi, e gli altri indigenti. Nè tu udiresti mai alcuno così andar discorrendo: quella casa va in rovina, perchè il padrone non sa che la semenza si ha da spargere con eguaglianza, o perchè non sa che si hanno a far diritte le fosse da porvi gli alberi, o perchè ignorando qual terreno richieda la vite l‘ha egli posta dove non prospera, o perchè non conosce che innanzi di gittarvi la semenza si conviene, che il campo vi sia apparecchiato con molti lavori, o perchè in fine gli è ignoto, che giova alla terra mescolarvi il concime: ma piuttosto assai spesso udirai dire a questo modo: quell’uomo non raccoglie grano a sufficienza dal suo campo, perchè non ha cura ch’egli venga seminato come si conviene, nè pon mente come abbia a procacciarsi il concime: nemmeno il vino ha quell’uomo, perchè non ha cura di porre novelle viti, nè che quelle che ha gli rechino frutto. Nè anche l’olio, nè i fichi si ha quell’uomo, perchè trascura que‘frutti, e nulla fa di ciò che si richiede per averne. Queste adunque, o Socrate, diceva egli, sono quelle cose, nelle quali essendo fra loro differenti gli agricoltori, differentemente ancora se la passano; assai più profittando coloro, che usano in ogni cosa molta diligenza, che quelli, i quali si pensano di aver trovato colla loro dottrina alcun più sottile modo da adoperarsi nell‘agricoltura. Ed anche fra quelli che comandano agli eserciti alcuni ne veggiamo riescir migliori, ed altri peggiori nelle opere della guerra essendo fra loro differenti non già nella dottrina, ma fuori di ogni dubbio nella diligenza, perocchè quelle medesime cose che tutti i capi degli eserciti sanno, ed anche la maggior parte delle persone private, queste alcuni di essi le adoperano, ed alcuni no. Come, per esempio, tutti sanno, che andandosi dove sonoi nimici, si conviene andare ordinati in maniera da potere ottimamente combattere ogni volta, che d’uopo ne sia: eppure, tutti sapendo questo, alcuni così fanno, ed alcuni fanno il contrario. Tutti sanno ottima cosa essere, che le sentinelle di giorno, e di notte sieno poste dinanzi all’esercito, ed anche di ciò alcuni hanno cura, che così si faccia, ed altri non ne prendono verun pensiero. E dovendosi condurre l’esercito in luoghi aspri, ed angusti, non è egli assai difficile di trovare chi non conosca, come il meglio sia di essere piuttosto i primi ad occupare gli opportuni passi, che farsi prevenire dai nemici, e anche questo altri si studiano di farlo, ed altri no. Così ancora nell’agricoltura tutti dicono, che il concime sia di gran giovamento alla terra, e in ogni parte veggiamo naturalmente formarsene, tuttavia, conoscendosi benissimo come si produca, e potendosene avere agevolmente in abbondanza, altri hanno cura di accumolarne in gran copia, ed altri al tutto trascurano di farlo. E nel vero, Dio ci manda dall’alto la pioggia, e ogni fossa diviene paludosa, e la terra dappertutto genera molta cattiva erba, dalla quale si conviene purgare i campi a chi vuole seminarvi: questa erba dunque che si ha alla mano, se venga gittata nell‘acqua, dopo alquanto spazio di tempo, si ridurrà tale da poterne far lieto il terreno, perciocchè qual‘erba, o pur‘anche qual terra dopo di esser stata nell’acqua stagnante non diviene letame? Similmente qual terra abbisogni di rimedio per essere, o troppo umida a seminarvi, o troppo salsa a piantarvi ciascuno sel vede, e sa pure, come l’acqua si tolga dal campo con fossatelli, e come la salsuggine della terra si corregga mescolandovi altre materie, o umide, o secche, purchè salse non siano: tuttavia anche di far ciò alcuni procurano, ed altri no. )♦(....)♦()⁂(....)⁂( Gran differenza, disse pure, cagionarsi nell‘agricoltura quanto al guadagnarvi, o non guadagnarvi, se alcuno, quando abbia molte opere le quali lavorino nel campo, stia ben attento che quelle si occupino nel lavoro in tutto il debito tempo, ed alcun altro per niun modo a ciò ponga mente. Perocchè fra dieci opere agevolmente se ne guadagna una coll’incominciare per tempo, ed un’altra se ne guadagna col non partirsene prima del tempo, e questa si è non dispregevole differenza; se poi si permetta ai lavoranti di andar perdendo il tempo in tutta la giornata, potrà facilmente trovarsi tra due lavori tal differenza, che la metà sia maggiore del tutto: siccome avviene che in un viaggio di duecento stadi vi sia fra due uomini la differenza di cento stadi nella celerità, quando l’uno di essi del continuo cammini verso dove è inviato, e l’altro con trascuraggine presso a ciascuna fonte, e sotto di ciascun’ombra si posi, e spesso si fermi a riguardare all’intorno, e delle molli aure vada in traccia; così ancora nel compiere alcuna faccenda, quelli che attendono a fare quel lavoro che ad essi venne assegnato, molto differiscono da quegli altri che non attendono a farlo, ma vanno mendicando pretesti per non affaticarsi, e perchè gli si lasci perder tempo. Tanta differenza poi passa dall’aver cura, che un lavoro sia fatto bene, e dal non curarsi che venga fatto male, quanta ve n’ha tra il far tutto, e il non far nulla: perchè a cagion di esempio, se coloro, che sarchiano le novelle viti, acciocchè abbiano a restar monde dalla malvagia erba, per tal modo il facessero, che quell’erba avesse tosto a rinascervi in maggior copia, e più vigorosa, come non diresti, che costoro facciano anche peggio, che starsi in ozio? Queste adunque sono quelle cose per le quali vengono le case a consumarsi assai più, che per l’ignoranza; perocchè accadendo che per ogni spesa tutto il danaio debba uscire dalla casa, e quando dai lavori che si fanno, tale utile non si ricavi che risponda alle spese, non è meraviglia se da questo, anzi che la copia, si produca l‘inopia. Ad ammaestramento poi di coloro che in ogni cosa sanno usar diligenza, e con saggi provvedimenti condursi nelle operazioni dell’agricoltura, un modo assai acconcio a procacciarsi ricchezze, ed esso praticò, ed a me poscia insegnò il mio padre: perocchè mai non permise che si comperasse un podere ottimamente coltivato, ma qualunque, o per la trascuraggine, o per la povertà di chi lo possedeva, fosse ozioso, e senza piantagioni di utili alberi, questo esortava che si comperasse; perchè, diceva, che quei poderi, che sono ben coltivati, e si acquistano con grande dispendio, e non possono poi migliorarsi, e quello, che non si può rendere migliore, parevagli che nemmeno potesse recar diletto, ma ogni terreno che si possegga, ed ogni animale che si nutrichi, andando ogni giorno a rendersi migliore, giudicava, che veramente dovesse ognuno far lieto: niuna cosa poi di così gran miglioramento è capace, quanto un campo che dall’essere ozioso si conduca a generare ogni sorta di prodotti. E tu ben sai, o Socrate, come noi abbiamo dei poderi resi già di un valore assai più grande di quello, che per lo innanzi potesse loro attribuirsi: e questo trovato, o Socrate, cotanto utile, egli è pure così agevole ad apprendersi, che tu ora avendolo udito da me, partendotene lo sai egualmente che io, e lo insegnerai anche ad altri, se il vorrai; e il mio padre non lo imparò già da altri, nè venne a discoprirlo con molte meditazioni; ma sendo egli amantissimo del coltivare i campi, e molto piacendogli di esercitarsi nella fatica, vennegli brama di avere tali campi, ne quali potesse nel tempo medesimo, e affaticarsi a coltivarli, e compiacersi del guadagno, imperocchè veramente il mio padre, o Socrate, per propria natura si era l‘uomo il più amante del coltivamento della terra fra tutti quanti gli ateniesi. Come ebbi udito questo, io mi feci così a domandargli: cotesti terreni, o Iscomaco, che il tuo padre così aveva coltivati, li riteneva egli tutti in suo potere, o vero anche li vendeva, quando ne avesse trovato molto denaro? Sicuramente, disse Iscomaco, che li vendeva, ma tosto ne comperava altri, che fossero oziosi per l'amore che aveva di affaticarsi nell‘agricoltura. Tu mi dici nel vero, o Iscomaco, soggiunsi io, che il tuo padre fu amante del coltivare la terra, come alcuni mercatanti sono amatori del grano, poichè anche cotesti mercatanti per lo grande amore che portano al grano, dove odono che ve ne sia di molto, colà si recano colle loro navi varcando o l‘Egeo, o l’Eusino o il Siculo mare: quindi prendendone quanto possono il più, lo conducono al mare ponendolo nella nave medesima in cui essi navigano: quando hanno poi bisogno di denaro, non lo danno gia così a caso a chiunque lo richieda, ma dove sentono che il grano sia tenuto in maggior pregio, e dove gli uomini fanno di quello un maggior conto, quivi essi recanlo e il vendono, ed anche il tuo padre dovea essere a questa guisa amante dell‘agricoltura. Allora Iscomaco disse: tu ti prendi gioco di me, o Socrate, ma io tuttavia giudico, che sieno amanti del fabbricare coloro, che le case da essi fabbricate vendono, e poi ne fabbricano delle altre. Ed io ancora, o Iscomaco, dissi, ti affermo, giurandotelo, che questo io ti credo aversi a tener per fermo, tutti per natura essere amanti di quelle cose dalle quali stimano di aver guadagno.