L'Economico/Capitolo XXI

Capitolo XXI

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Senofonte - L'Economico (IV secolo a.C.)
Traduzione di Girolamo Fiorenzi (1825)
Capitolo XXI
Capitolo XX
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CAPITOLO XXI.


Ora vado considerando, o Iscomaco, diceva io, come bene hai tu condotto il tuo ragionamento a confermare quello, che ti avevi proposto. Perocchè questo tu volevi dimostrarmi, che l‘arte dell’agricoltura si era la più facile di tutte ad apprendersi, e da quanto hai detto, così veramente essere, al tutto ne sono persuaso. E lo è in fatti, disse Iscomaco: ma in quanto a quello che massimamente si rende necessario a poter far bene ogni nostra operazione, sia dell’agricoltura, sia del reggimento della città, sia del governo domestico, sia della condotta della guerra, all’essere, cioè, tal uomo da saper soprastare agli altri, in questo io ti debbo confessare, o Socrate, che troppo differiscono fra di loro gli uomini per qualità di mente. E in fatti veggiamo, disse, che nelle triremi mentre i rematori sono già in alto mare [p. 107 modifica]e che debbono condurle al destinato viaggio, alcuni nocchieri, così bene sanno dire e fare, che accendono gli animi di coloro a sostenere di buon grado ogni fatica; altri poi tanto sono da costoro differenti, che appena possono giungere a compiere la medesima navigazione in un tempo al doppio maggiore di quegli altri, e quei primi pieni di sudore, animandosi reciprocamente e nocchieri e galeotti, giungono lietamente a proda; gli altri si stanno pigri, e lenti avendo in odio il nocchiero, ed essendone a vicenda odiati. E al medesimo modo anche i comandanti degli eserciti differiscono gli uni dagli altri, perocchè taluno di essi di tal qualità rende quelli che al di lui comando sono sottoposti, che nè sostener fatiche, nè esporsi a pericoli, nè loro obbedir voglion in cosa del mondo, se non in quanto ne sieno dalla necessità sforzati; solo nel contrastare ai suoi voleri animosi addimostrandosi; e se ben anche alcuna di quelle cose intervenga per cui coperti si rimangono d’infamia, quel comandante nemmeno di questo può fargli sentire vergogna alcuna. Ma quei duci cari agli Dei, che sono animosi e sapienti, sovente prendendo il comando di questi medesimi, o di altri, qualunque e’sieno, tosto li rendono tali, che hanno a gran vergogna di far cosa veruna la quale rechi loro infamia, e si persuadono che meglio sia per essi di essergli ubbidienti; e di codesta obbedienza [p. 108 modifica]e ciascuno per se, e tutti quanti insieme ne vanno lieti, e se il bisogno richieda di affaticarsi non a mal grado vi si conducono, ma volentieri. E siccome nelle private persone s‘ingenera alcuna volta un certo amore per la fatica, così questo amore per mezzo dei buoni comandanti s’ingenera in tutto un esercito, e la brama di farsi vedere dal comandante operare alcuna onorevole azione, perocchè quali sono i capi, tali sogliono essere coloro che li seguitano. E codesti che tanto eccellenti riescono nel ben comandare altrui, non sono già quelli che più robuste hanno le membra, nè quelli che meglio sanno ferire, o saettare, nè quelli che avendo un bellissimo cavallo vanno con esso più destramente di ogni altro a combattere coi nimlci; ma quei tali bensì i quali hanno potere di persuader alle milizie, che ad esse fa d’uopo di seguitarli anche per mezzo alle fiamme, ed in qual si voglia altro più pauroso rischio, questi a ragione si chiamerebbero uomini di mente grandissima, poichè le menti di tante persone alla loro si conformano, e potrebbero pur dirsi potentissimi di mano, cotante mani sendo ognora pronte a compiere ogni loro volere. E quell’uomo è veramente grande, che grandi cose può facilmente condurre a fine piuttosto colla sapienza, che colla forza. Così addiviene nelle private faccende; se il castaldo che vi è stato preposto, e qualunque altro sopraintendente possa in tal modo [p. 109 modifica]disporre gli animi di quelli che i lavori eseguiscono; in modo che di buon animo, e bene ordinati, e tutti concordemente riuniti si adoperino in ciò che loro si conviene di fare, e questi tali soprastanti sono quelli che conducono ogni operazione a buon fine, e che hanno potere di produrre l’abbondanza. E quel padrone, o Socrate, che rendendosi presente ai lavori, quantunque tale si fosse da poter punire con severità ogni cattivo operaio, e da sapere largamente ricompensare i diligenti, tuttavia se alla sua venuta nulla di straordinario si studiassero di fare coloro che lavorano, io non saprei al certo ammirarlo, ma quegli alla cui vista tutti i lavoranti si commuovono, che infonde in ciascuno un nuovo vigore, e desta gara grandissima fra di loro, ed ardente desiderio in ognuno di venire da quello riguardato e lodato; un si fatto padrone, io direi, che di quelle doti alquanto partecipi che ai re particolarmente si appartengono. E grandissima cosa si è questa in qualunque operazione che dall’uomo si faccia non meno che in quelle dell’agricoltura: e questo non già ti dico io, che apprender si possa col vederlo, o coll’udirne una volta soltanto ragionare; ma ben ti so dire di grave ammaestramento abbisognare chi vuole poter ciò fare, e richiedersi che di eccellente natura sia fornito; e ciò ch’è più, dal divino favore soltanto questo a noi può esser conceduto: [p. 110 modifica]imperciocchè un così gran bene al tutto umana cosa non mi sembra, ma divina; cioè il poter soprastare a quelli, che apparecchiati sieno a volerti ubbidire; ed è ben chiaro che questo a coloro solamente si concede, i quali colla sapienza si sono resi perfetti. Il dominar poi con violenza agli uomini a loro dispetto, gli Dei come parmi, lo danno a quelli, i quali stimano, che sieno degni di condurre la vita, come si dice di Tantalo, che nell’Erebo eternalmente si viva, temendo di avere ancora per la seconda volta a morire.