L'Economico/Capitolo VII
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CAPITOLO VII.
Veggendolo adunque un giorno seduto nel portico di Giove Liberatore, e sembrandomi essere ozioso, me gli accostai, e assisomi a lui vicino, gli dissi: come è, o Iscomaco, che tu, il quale non molto sei solito a startene ozioso, ora qui ti siedi senza far nulla? Perocchè per lo più ti veggio occupato in alcuna cosa, o almeno non rimanertene, come or fai, così affatto ozioso nel foro. Nè anche ora, rispose Iscomaco, mi ci vedresti, o Socrate, se non avessi appostato con alcuni ospiti di attenderli qui. Quando poi non ti accade di dover fare alcuna cosa a questa simigliante, dimmi, ti prego, gli dissi io, dove ti trattieni, e che cosa fai? Poichè sono assai desideroso d‘intendere da te per quali tue operazioni sii chiamato bello, e buono, imperciocchè nè ti stai molto tempo rinchiuso entro la tua casa, nè in alcuna cosa si dimostra singolare l’esteriore figura del tuo corpo. E Iscomaco ridendosi di queste parole, che io aveva detto per quali tue operazioni sei chiamato bello, e buono e compiacendosene secondo che mi parve, risposemi: veramente, se teco ragionando di me alcuni mi chiamino a questo modo io nol so: questo però so io bene, disse egli, che quando mi chiamano alla permutazione, o a comandare alle triremi, o a presiedere ai cori, niuno va cercando di quel bello, e buono, ma nominandomi chiaramente col paterno nome d’Iscomaco, mi chiamano in giudizio. Io poi, o Socrate, non mi sto molto tempo in casa, come tu già dicesti, perchè tutte le cose di casa la mia donna sa ella ottimamente governare. Questo pure, dissi io, assai volontieri saprei da te, o Iscomaco, se ammaestrasti tu stesso la tua donna ad essere quale si richiede, o vero la prendesti già ammaestrata dal suo padre, e dalla sua madre a governare tutto ciò, che si appartiene. E come, disse, o Socrate, l’avrei io presa già di tutto questo ammaestrata, se venne ella a me prima ancora, che compito avesse i quindici anni, e tutto quel tempo si era stata seduta in casa, dove grandissima cura ebbero, ehe vedesse, udisse, e domandasse il meno, che fosse possibile? E non ti par egli, che dovesse bastare se avesse solamente saputo, prendendo le lane, farne una veste, e conoscesse come si hanno a distribuire i lavori alle ancelle? Poichè quanto alla sobrietà del vitto, disse, venne ella ottimamente accostumata, ciò che io avviso, o Socrate, essere importantissima parte di educazione, e per l’uomo, e per la donna. Del rimanente poi, diss’io, tu stesso, o Iscomaco, ammaestrasti la tua donna in tutto quello, che le si apparteneva? Questo, disse Iscomaco, non feci io già prima di aver fatto sagrificii e suppliche, perchè io mi potessi rendere tale, che sapessi insegnarle, ed essa apprendere tutto quello che ottimo fosse per ambedue. E la tua donna, dissi io, sacrificò ella teco, e fece le medesime preghiere? E ferventemente, Iscomaco disse, faceva ella molte impromesse agli Dei, perchè tale la facessero divenire, quale esser dovea; e ben si pareva, che nulla avrebbe essa trascurato di quanto le si volesse insegnare. Ora narrami, ti prego, diss’io, quello che alla prima cominciasti a insegnarle, perchè con più piacere ti udirò fare cotesto racconto, che se mi descrivessi un qualche bellissimo certame, o ginnastico, o vero di cavalli. E Iscomaco rispose: odilo adunque, o Socrate: dappoichè ebbi già preso seco lei dimestichezza, e disposta la vidi a volersi intertenere meco a ragionare, la interrogai presso a poco a questo modo; dimmi, o donna, hai tu mai considerato a qual fine io ti abbia presa, e i tuoi genitori mi ti abbino data? poichè ben so, conoscersi ora da te, che a me non sarebbero mancate donne, le quali meco si stessero; ma consultando io per me stesso, e i tuoi genitori per te, quale compagnia potessimo prendere che ottima fosse, e a governare la casa, e ad acquistarne figliuoli, io te, e i tuoi genitori me fra tutti gli altri prescelsero. Quanto ai figli adunque, se Dio un giorno ci concederà di averne, allora consulteremo intorno a quelli come poterli ottimamente educare, perché sarà un bene ad ambedue comune di avere chi ci dia aiuto, e nella vecchiezza ci sostenti. Fin d’ora poi abbiamo in comune questa casa, poichè quanto io ho, tutto in comune ti pongo, e tu pure quanto hai recato tutto ponesti in comune, e non si dee già di questo tener conto chi di noi due abbia posto un maggior numero di cose in questa comunione, ma questo dobbiamo ben sapere, che qualunque di noi sia il miglior socio, quegli è che vi pone le cose di maggior pregio. A questo risposemi, o Socrate, la mia donna: e qual cosa mai potrei io adoperare in tuo aiuto? e quale si è egli il mio potere? tutto sta in te: il mio officio, diceami la mia madre, egli è di esser saggia. Si certo, diss’io, o donna, e anche a me il’padre diceva lo stesso; ma ben si appartiene ai saggi, sieno essi uomini, o donne di fare in modo che i propri averi sieno tutti conservati, come si può il meglio, e di aggiungervene quanti altri con onorevoli, e giusti modi acquistare se ne potranno. E vedi tu alcuna cosa, disse la mia donna, la quale io facendo, potessi assieme con te accrescere la casa? Si, le dissi, tutte quelle cose, che gli Dei ti dettero facoltà di poter fare, e le leggi te le approvano, tu studiati di farle il più che saprai meglio. E quali cose mai, rispose, fian desse? Parmi, le risposi, che non sieno già cose di piccol momento, se pure non vogliam dire che a cose di piccol momento sia preposta nell’arnia la regina delle api. E nel vero così seguì Iscomaco a narrare di aver detto alla sua donna; io avviso, che gli Dei nell’ordinare il maritaggio, cioè a dire invitando ad unirsi assieme il maschio e la femmina, con assai sottile considerazione riguardassero, che una sì fatta piacevole unione di tal modo fosse composta, che anche utilissima riuscir dovesse agli uomini in tutte le opportunità della loro vita: perocchè in prima, provenendo da tale scambievole unione in ogni generazione di viventi il procrearsi della prole, si provvede così a ciascuna di queste, che non abbia a venir meno: agli uomini poi, dalla medesima unione ne deriva inoltre il potersi acquistare anche sostegni per la vecchiezza. Di poi, non facendosi tutte le operazioni della vita umana all’aperto, come fassi dalle fiere, ben si vede, che agli uomini è necessario di avere le case. Acciocchè poi le case esser possano fornite di tutto ciò che si richiede, fa d’uopo che fra gli uomini altri vi sia che vaglia a sostenere quelle operazioni, che sono da farsi all‘aperto: poichè il rompere il terreno, il seminare, il porre arbori, il condurre a’ pascoli gli armenti, sono tutte opere che si fanno al1‘aperto, e mediante le quali si hanno quelle cose, che bisognano alla vita: e d‘altra parte altri pure esser vi dee, il quale dappoi che tali cose condotte sieno nella casa, sappia con diligente cura conservarle, e attenda a compiere quelle faccende, che dentro la casa sono da farsi. Poichè dentro la casa si hanno a nutricare i piccoli fanciulli, dentro la casa si hanno ad apparecchiare i cibi, e simigliantemente dovranno pur quivi lavorarsi le lane, e farne vesti, e perchè tanto queste cose che dentro la casa debbonsi fare, quanto quelle che detto abbiamo doversi fare al di fuori, ambedue particolari opere, e cure richiedono, perciò dirittamente, come parmi, Dio fece la donna di tal qualità che disposta fosse a compiere le opere, e cure domestiche, e l’uomo quelle al di fuori: imperciocchè così formando il corpo, e l‘animo dell’uomo che sostener potesse, e il caldo, e il freddo, e i lunghi viaggi, e le fatiche militari, diede a divedere, che avealo destinato a quelle opere che all’aperto si fanno, e dato avendo alla donna delicate membra, e a queste cose meno atte, parmi, che si conosca, disse egli di averle detto, come Dio abbiale assegnate le faccende domestiche. E ponendo mente Iddio, che alla donna aveva ordinato, ed infuso pur anco il nutrimento dei piccoli fanciulli, più di sollecita tenerezza per quelli ad essa diede, che all‘uomo. Di poi siccome assegnato anche avea alla donna la custodia di tutto ciò che venisse recato dentro la casa, conoscendo Iddio come a ben custodire non è picciolo stimolo l’avere un animo timido, però più larga parte di timore alla donna diede, che all‘uomo. Veggendo poi come chi dovea aver cura delle cose di fuori, avea anche d’uopo di difenderle dalle altrui ingiurie, perciò distribuì all’uomo assai più d‘ardimento. Dovendo poi ambedue assai cose, e dare, e ricevere, in cotal guisa Dio fra di loro divise la memoria e la diligenza, che non potresti agevolmente discernere se più le donne, se ne abbiano, o vero gli uomini. Il potersi poi contenere dal non trascorrere in veruna azione, che onesta non sia, questo volle che embedue egual facoltà avessero di conseguire, in guisa però, che qualunque di essi, o l’uomo, o la donna migliore si fosse, quegli di tale virtù se ne prendesse la più gran parte. Quindi per non essere la natura di niuno di loro ben appropriata a poter fare tutte quelle operazioni che necessarie pur sono a condurre felicemente la vita ben si vede come utilissima si rende ad ambedue la maritale unione, poichè quello che non può l’uno, il può l’altro. Sapendoci noi adunque, o donna, tutto questo ben dovremo con ogni studio attendere a fornire il più che potremo meglio, quegli officii, i quali Dio ha voluto assegnare a ciascuno di noi. Ed a queste medesime divine ordinazioni, diceva di averle detto, anche le leggi si conformano, approvando ancor esse l‘unione dell’uomo colla donna, e siccome Dio diede in comune ad ambedue il generare la prole, così le leggi hanno pur dato loro in comune la casa, e quelle medesime operazioni nell’uomo, e nella donna sono più dalle leggi commendate, alle quali ciascuno di essi venne già da Dio destinato, giudicando essere alla donna più convenevole lo starsi in casa, che l’andar fuori, e per lo contrario si giudica disdirsi all’uomo il rimanere in casa, e non aver cura di quelle cose, che all‘aperto gli si appartengono di operare „ e se alcun uomo contrasta a quello, che Dio ha ordinato, forse non rimane occulto agli Dei, e ne viene punito, lasciando le opere che gli si convengono, e quelle facendo ehe appartengonsi alla donna”. Parmi poi, diceva io, che la regina delle api in simiglianti cose si adoperi a quelle, che Dio ha assegnato alla donna. E quali sono, disse ella, 1e opere che fa la regina delle api perché possa a me assomigliarsi in quelle, che mi si appartiene di fare? Perché, 1e diceva io, standosi quella nella sua arnia, non lascia che le altre api si rimangano oziose, ma quelle che debbono recarsi a travagliare al di fuori le invia al lavoro, e quindi ciò che ciascuna di loro reca poi dentro, essa medesima, e lo vede, e lo riceve, e lo conserva flnché non faccia d’uopo servirsene: venuto poi i1 tempo di doversene far uso con giustizia lo distribuisce a ciascuno. Sopraintende pure ai favi, che dentro si compongono, acciocché bene e prestamente si facciano; ed ha cura che con diligenza si allevino i nascenti parti, e poiché le novelle api si sono rese adulte, e capaci di operare, le manda fuori a guisa di una colonia con alcuna regina della nuova discendenza. E tali cose, disse la donna, dovrò fare ancor io? Certo, 1e dissi, che anche a te si converrà di startene dentro della casa, e quei servi, che dovranno andare a lavorare al di fuori, di aver cura, che tutti unitamente vi si rechino, e di soprastare a quelli, ai quali é assegnato il lavoro dentro della casa. Dovrai pure tu stessa ricevere tutte 1e cosce, che ti verranno recate, e quelle distribuire, delle quali subito si convenga farne uso: di quello poi che rimane da conservarsi, tu dovrai ben provvedere, e guardarti che non avvenga, che quella provigione che si era riposta per un anno, in un solo mese sia consumata. E quando ti verranno portate le lane tu dovrai farne fare 1e vesti a tutti quelli, che ne hanno d’uopo, e quel grano che si ripone per cibo dovrai procurare diligentemente che si conservi per modo che riesca sempre grato a mangiarsi. Una poi delle molte cure che dovrai avere, ti parrà forse alquanto spiacevole perché infermandosi i servi a te stessa si spetterà di attendere che questi vengano diligentemente curati. Certo, diss’ella, che ciò non mi spiacerà, poichè quelli che per mia opera saranno stali curati con diligenza, me ne dovranno poi saper grado, e più benevoli che prima mi si renderanno. Allora, continuò Iscomaco, ammirando la sua risposta 1e dissi: appunto, o donna, per certe simili cure della regina delle api nell’arnia, così sono tutte le api verso di lei disposte, che quando ella si parte, niuna pensa di doverla abbandonare, ma tutte quante vogliono seguitarla. Quindi la mia donna soggiunse: assai mi farebbe meraviglia se veramente queste opere della regina delle api a te piuttosto non si dovessero rapportare, che a me, poichè il mio officio di custodire, e dispensare parrebbe, cred’io, da deridere se tu non avessi cura, che alcuna cosa venisse recata di fuori. E da deridere pure aarebbe, diss’io, il mio portare, se non vi fosse chi custodisse le cose, che dentro si conducono. E non vedi tu, le dissi, come coloro, i quali si dice, che cavano l’acqua con un vaso forato nel fondo, sono da tutti compianti conoscendosi che inutilmente si affaticano. E nel vero, disse la mia donna, se questo fanno, ben sono essi infelici. Alcune altre poi delle cure, che sono di te proprie assai, le dissi, ti diletteranno: come quando renderai esperta nei lavori della lana alcuna delle tue ancelle che prima n‘era affatto incapace, e così quella ti varrà i1 doppio di più, e quando alcun’altra al tutto inetta all’officio di dispensiera la renderai tale, che divenga una saggia e fedele dispensatrice, onde poi ti parrà essa di un prezzo inestimabile, e così pure quando premierai quelli che conosci essere virtuosi, ed utili alla casa, e se alcuno malvagio vi si mostra il punirai. Sopra tutto poi di questo dovrai essere lietissima se ti dimostrerai migliore anche di me, e mi renderai tuo servo, e se non avrai luogo, a temere che coll‘avvanzarsi dell’età non abbi ad essere meno onorata nella casa, anzi ti confiderai che, divenendo più vecchia, quanto migliore nella casa sarai tu stata, e a me compagna, e ai figli custode, tanto più sarai ognora nella casa stessa tcnuta in pregio. Imperciocché quelle cose che sono veramente belle, e buone, non già per la vaghezza esteriore, ma per la virtù si vanno sempre accrescendo negli uomini flnchè dura la loro vita. Si fatte cose, o Socrate, mi pare di rammentarmi di averle detto in sulle prime che mi feci con lei a ragionare.