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il caronte | 117 |
Diog. — Purchè tu non mi chiami «cane».
Car. — Nemmeno «pescecane»?
Diog. — Quello sì.
Car. — E allora dimmi, Pescecane: fra le tante cose originali che hai fatte in vita, quale è quella di cui ora ti ricordi più volentieri?
Diog. — Questa. Un giorno avendo fame e freddo insieme, ho preso un dio di legno, l’ho fatto in pezzi e lo arsi, scaldandomi e cuocendomi la cena.
Car. — E quel dio lasciò fare senza difendersi e senza vendicarsi?
Diog. — Oh sì! mi voleva accecare con un po’ di fumo; ma io gonfiai le gote e soffiando e agitando il berretto lo vinsi e lo scacciai.
Car. — Non fai soltanto il filosofo, ma anche il gladiatore... a quel che pare.
Diog. — Non c’è da maravigliarsi; avevo studiato scherma. E fu in Atene, alla scuola di Platone, quel giorno che presentai al maestro il suo uomo, ossia un «bipede implume». Allora quegli, vedendo le mie braccia forti e robuste, mi disse di esercitarmi nell’arte dei gladiatori; e così imparai a difendermi e parare e schermire, a ferire di punta e di taglio.
Car. — E per aver combattuto contro un dio, non t’hanno accusato di sacrilegio?
Diog. — Ma io mi difesi facilmente. La sala del tribunale era piena di gente. Quando toccò a me di parlare dissi: «Tu sai, o pretore, che tutti mi chiamano «Cane»: ora le leggi puniscono gli uomini, non i cani; dunque io non ho nulla da fare con le leggi». I presenti risero e applaudirono; il pretore mi assolse.
Car. — Oh dimmene un’altra, allora, di cui ti ricordi volentieri...
Diog. — Tu sai che Alessandro il Grande venne