L'Aridosia/Atto I
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ATTO I
SCENA I
Marcantonio e Mona Lucrezia.
Marcantonio. Cert’è, com’io t’ho detto, che la maggior parte de’ costumi de’ giovani, o buoni o cattivi che e’ si sieno, procedono dai padri e dalle madri loro o da quelli che, in luogo di padre o di madre, li custodiscono.
Lucrezia. Gli è vero che e’ padri o e’ tutori o e’ maestri lo posson fare; ma le madri no: perché, sendo donne, in questo, come nelle altre cose del mondo, hanno pochissima parte.
Marcantonio. E pur talvolta si son visti essempli in contrario, che le donne piú abbin possuto ne’ figliuoli che i padri; e non solamente ne’ figliuoli, ma ancora ne’ mariti loro. E, per non avere a cercare d’essemplo piú discosto, ti debbi ricordar come Aridosio mio fratello ed io fummo allevati in un medesimo modo e da li medesimi padre e madre; e nel medesimo tempo pigliammo moglie: della quale egli ha auto Tiberio, Erminio e Cassandra; e noi ancor nissuno. D’allora in qua, lui cominciò a diventare avaro ed a posporre ogni piacere ed onore allo accumulare: tanto che è ridotto meschino come vedi. Io, Dio grazia, mi son mantenuto con quello stile di vivere che da mio padre mi fu lasciato. E di questa sua mutazione non si può allegare altre ragioni e non si può pensare che sia stato altro che la moglie; la qual tu sai quant’era meschina, perfida e dappoca. E mai non ebbe Aridosio la maggior ventura che quando la mori: benché a lui paresse far grandissima perdita, perché di giá s’era accommodato a’ sua costumi.
Lucrezia. Oh infelici donne, le quali, a detto vostro, son causa di tutti e’ mali e solo allora fanno aventurate e felici le case quando inespettatamente le si muoiono!
Marcantonio. E che altro vuoi tu che sia stato causa di sua tanta mutazione e che di liberale l’abbi fatto miserissimo? perché, insino a questo tempo, sai come egli era vissuto. Però io ringrazio la sorte che piú presto a lui che a me abbia mandato tanto male, la quale nelle cose del mondo può el tutto: che io mi ricordo nostro padre, piú volte, dubitare se a me o a lui te o lei dava; poi si risolvette in modo che io m’ho da lodare grandemente e lui da dolere. E, se ben lui ha aúti tre figliuoli (che certo è gran felicitá) ed io nissuno ne sia per avere, lui volentieri ci ha dato Erminio suo minore e noi per figliuolo carissimo lo tenghiamo e, come se fatto lo avessimo, l’amiamo; e piú, forse, perché né tu né io di lui abbiamo avuti quei fastidi che de’ putti piccoli s’hanno.
Lucrezia. Non dir cosi, che quelli non son fastidi ma, secondo ch’io penso, son cure da far passare e’ fastidi. Pur, io ringrazio Dio che, da poi che non gli è piaciuto che io abbia figliuoli, ha fatto che ci siamo imbattuti in un giovane quale è Erminio: del quale, se ben noi gli abbiamo a lasciare la roba nostra e nella fede sua ed al suo governo ci abbiamo a rimettere quando piú vecchi saremo, se l’amor non mi inganna, mi par da poterne sperare ogni bene. Ma io ho paura, Marcantonio mio, che tu non gli lasci troppo la briglia in sul collo e che poi a tua posta non lo possa ritenere, perché tu lo lasci senza pensieri o di studi o di faccende. Solo attende a’ cavalli, a’ cani o all’amore o, insomma, solo a quelle cose che l’animo gli detta. Onde io mi dubito che, passato questo fervore della sua gioventú, forte si abbia a pentire d’avere invano consumato el tempo. E forse si dorrá di te che non li prò vedesti quando potevi.
Marcantonio. Io mi maraviglio assai e di te e di tutti quelli che pensono che i figliuoli si possin ritirare dalle loro inclinazioni o con le busse o con le minacce; perché sappi certo che, s’io volessi proibir a Erminio tutt’i sua piaceri, ch’io farei peggio. Ma bisogna, col concederli una cosa che importi poco e che a lui sia a cuore, proibirgnene un’altra che importi assai e cosi avvezzarlo che mi obbedisca, non per paura, ma per amore: perché quelli che fanno ben per paura lo fanno tanto quant’ e’ pensono che si possa risapere; e, quando pensono poter far male nascosamente, lo fanno. Guarda Tiberio come suo padre gli ha le mani in capo continuamente ! Lo tiene in villa con la sorella perché non spenda e perché non pratichi nella città dove dice che son molte commodità di far male. Niente di manco son poche notti che egli non venga in Lucca. E pur questa ho inteso che ci è stato ed ha messo a romor mezza questa città per avere una stiava del Ruffo, qui vicin a noi. E fa dell’altre cose molto peggiori di quelle di Erminio, perché gli è necessario che la gioventù abbia il luogo suo. Se, adunque, queste cose i giovani l’hanno a fare, quant’ è meglio avvezzargli che non s’abbino a vergognare dai padri, ma da loro stessi, faccendo cose brutte! E pensa però Aridosio, per tenerlo in villa, che non voglia spendere e far le cose da giovane? Io so che fa e l’uno e l’altro, e senza rispetto. E quel buon uomo, con ogni estrema miseria, attend’a accumulare! Insino lavora la terra di sua mano! E, se sapessi che venissi, la notte, in Lucca o che gli spendessi pure un soldo, si darebbe al diavolo. E cosi vivono tutti mal contenti: insin a quella povera figliuola, la qual è già grande e da marito, che è disperata perché, per non s’aver a cavare di mano la dote, non gli vuol dare marito. E trovasi contanti, in un borsotto, dumila scudi e’ quali porta sempre seco; ed ha una cura estrema che io non gli vegga, perché non fo mai altro che gridarlo che lascia invecchiare in casa la mia nipote. Lui mi risponde che è povero e che non gli può dar la dote: credo vorrebbe che io gne ne dessi del mio. E, quando si duol meco di Tiberio e che Erminio lo svia, gli dico che gli doverrebbe dar moglie. Ei mi replica che bisogna considerare molto bene, che, a questi tempi, mettersi una bocca più in casa importa un mondo. Ed, insomma, non pensa ad altro che avanzare: ed allora gli parrebbe avere allevato bene el suo figliuolo che l’avessi fatto simile a’ sui costumi.
Lucrezia. I’ non vorrei giá che tu fussi strano verso Erminio com’Aridosio verso Tiberio; ma ben vorrei che gli vietassi certe cose. Come sarebbe a dire, i’ho inteso (non so se è vero) ch’egli è innamorato d’una monaca, qua, di Santa Susanna. Part’egli però che sia conveniente far queste cose? le quale ed a Dio ed agli uomini dispiacciono. Sappi che la gli dá un gran carico; ed a te, che lo comporti.
Marcantonio. Di questo non ne so alcuna cosa. E certo, quando e’ fussi vero, non me ne parrebbe molto bene e con ogni rimedio cercherei stórnelo: benché alla gioventú si comporti n piú cose che tu forse non pensi. Ma io ho caro che me n’abbia fatt’avvertito, perché ne voglio ritrovare l’intero; e di poi piglierò quel partito che meglio mi parrá. Ed ecco a punto di qua el suo servo Lucido che sa ciò che e’ pensa e ciò che e’ sogna. Lui, meglio che alcun altro, me lo potrá dire.
Lucrezia. Tu lo faresti prima dire a questa porta. Tu non conosci Lucido.
Marcantonio. Pur proverrò. Ma vanne in casa, che piú da te che da me si guarda: ed io poi ti ragguaglierò.
SCENA II
Lucido e Marcantonio.
Lucido. E’ par che la fortuna sempre si diletti di fare venire voglia agli uomini di quelle cose che son piú difficili a ottenersi. Io non credo che a Lucca sia donna alcuna che non avessi di grazia el fare piacere a Erminio; e lui si è innamorato di costei, la quale, non che lui la possa godere, bisogna che con mille respetti gli parli. Ed ènne guasto, fradicio, morto, che altro non pensa e non parla che Fiammetta.
Marcantonio. E’ parla da sé di questo.
Lucido. Adesso mi manda a vedere come la sta, quel ch’ella fa ed a racomandarsi a lei. Ed, ogni giorno, ho questa gita, per l’amor di Dio e de’ servi suoi.
Marcantonio. Il vo’ chiamare avanti che pigli altro viaggio.
Lucido! o Lucido!
Lucido. Chi mi chiama? Oh Marcantonio! Che comandate?
Marcantonio. Che è di Erminio, che iersera non tornò a cena?
Lucido. Cenò e dormi con Tiberio in casa Aridosio.
Marcantonio. E tu dove vai? a portar qualche imbasciata al munisterio?
Lucido. Che monasterio?
Marcantonio. Oh! Fattene nuovo meco, bestia!
Lucido. E che sapete voi di monasterio? * Marcantonio. Sonne quel che tu.
Lucido. A dirvi il vero, mi mandava a saper s’ella voleva niente.
Marcantonio. In veritá, che Erminio, in questo, mi fa torto; perché tu sai se io lo compiaccio e piú presto l’aiuto nelle sue voglie e ne’ sua amori che sono in qualche parte ragionevoli. Ma questo ha troppo del disonesto. E’ do verrebbe pure avere rispetto all’onore suo e mio: perché il carico è dato a me, che lo lasso fare. E’ par che a Lucca manchino le donne da cavarsi le sue voglie, che e’ si abbi a andare infin ne’ munisteri!
Lucido. Io gli ho detto questo medesimo piú volte: e lui, parte, sei conosce; ma voi sapete, Marcantonio, che l’amor non ha legge. Ed è un gran tempo che gli cominciò a volere bene. E lei è una bellissima figliuola, nobile e virtuosa, che forse, se voi la vedessi, gli aresti piú compassione che non gli avete. E siate certo che prima sarebbe possibil fare diventare Erminio un altro uomo che farli dimenticare questo amore. E vo’ vi dire piú avanti: che l’animo suo sarebbe di pigliarla per moglie.
Marcantonio. Mai piú senti’ dire che le monache si pigliassin per moglie.
Lucido. Oh! La non è monaca, che non è ancor velata; e non vorrebbe essere. Ma la sera, s’ella crepassi: perché l’ha una buona ereditá; e le monache l’hanno adocchiata; e, se ben la mettessi Tali, mai potrebbe uscire del monasterio, tal guardia gli fanno!
Marcantonio. Ben. Non essendo monaca, è cosa piú scusabile. Ma dimmi: di chi è ella figliuola? e che buona ereditá di’ tu?
Lucido. Ell’è de’ Cennami; e non ha né padre né madre; e le monache son sua tutrici; ed ha bonissima ereditá, secondo che io intendo. Ed altro non vi so dire.
Marcantonio. Basta questo. Conforta pure Erminio a levarsi da questa impresa che, in veritá, non è né utile né onorevole. E, s’egli ha voglia di moglie, e delle belle e delle ricche non gli mancheranno.
Lucido. Gli mancherá questa che lui sopra tutte l’altre desidera.
Marcantonio. Io mi avvedrò se tu arai fatto seco el debito tuo.
Lucido. Lo farò per obedirvi, non per ch’io speri far frutto.
Marcantonio. Voglio andare insino in piazza. Fa’ che, come io torno, sia in ordine di desinare.
Lucido. Sará fatto. Oh che padre è questo dabbene! Io credo che, se potessi, che di sua mano la caverebbe di monasterio per metterla a canto a Erminio. Oh! Se e’ sapessi la pena che e’ porta per costei, n’arebbe piú di lui dispiacere: che il poveretto teme di non vituperare lei, il monasterio e sé ad un tratto; perché l’è di lui gravida e si vicina al parto che ogni giorno, ogni ora è la sua. E modo non si può trovare o di cavarla o farla partorire segretamente; né via che egli si possa ritrovare piú seco. E, insomma, bisogna berla; ed Erminio mi dice che io pensi e che io ripensi. E’ bisognava che pensassi lui a farlo in modo che non se ne avesse a pentire! Ma, guastando, s’impara. E ringrazi Iddio che non ha a fare con un padre come è Aridosio. Ma, or che io mi ricordo, Tiberio debbe essere ancor qui intorno a Ruffo; e non si ricorda di tornare in villa. E, se suo padre s’avvede che non vi sia, trotterá quaggiú per stordirci tutti quanti. Ecco appunto di qua Tiberio che e’ par che e’ pensi ad ogni altra cosa che all’andarsene in villa.
SCENA III
Tiberio, Livia, Ruffo, Lucido.
Tiberio. Sazierommi io mai, anima mia, di vederti, parlarti e di toccarti?
Livia. Se tu non ti sazierai, resterá da te; perché io so’ tua e sempre sarò.
Ruffo. Cotesto non dir tu: che mia sei, e non sua. Allora che ei m’ara dati e’ danari, sua sarai.
Tiberio. Oh uomo nato per farmi morire!
Ruffo. Omo nato per far morire me sei tu, perché, non mi dando i miei danari, mi fai morire; che questa è la mia possessione e la mia bottega, senza la quale viver non posso.
Tiberio. Io ti darò, s’hai pazienzia, quel che vuoi; ma lasciami un po’ stare in pace.
Ruffo. Allora sarai tu sua. Ma, in questo mentre, ce n’andremo a casa. Vienne, Livia.
Livia. Tiberio, io mi ti raccomando.
Lucido. Guarda s’ei sa fare l’arte questo scanna- uomini!
Tiberio. Oh! Non pensar d’avere a usare tanta presunzione!
Ruffo. Vorrò vedere chi mi vieterá che del mio non ne possa fare a mio modo!
Tiberio. Intendo di pagarti avanti che da me ti parta.
Ruffo. Oh! Da che resta?
Tiberio. Provveggo il resto de’ danari.
Ruffo. Oh! oh! Io sto fresco, se s’hanno a provedere e’ danari! Domattina verrá per essa uno che mi ha dato l’arra.
Lucido. I’ non posso piú patire questo assassino. Può fare Iddio che tu parli si arrogantemente con un giovane da bene?
Ruffo. Oh! Che direstú, s’io non gne ne volessi vendere?
Lucido. Oh! Guarda, Ruffo, che non ci venga voglia d’averla per forza e senza danari: che tu sai bene che i tuo’ pari non hanno ragione con li uomini da bene.
Tiberio. Ascolta, Lucido. Quando io volessi fare cotesto (che potrei), egli arebbe causa di dolersi. Ma io lo vo’ pagare insino a un quattrino.
Ruffo. Se questo fusse, noi non aremmo che disputare.
Tiberio. Tu hai aver da me cinquanta scudi: non è cosi?
Ruffo. Si, se vuoi Livia.
Tiberio. Mezzi te li do adesso e il resto domani.
Ruffo. Li voglio tutti ora, che n’ho bisogno.
Tiberio. I’ non credo che mai al mondo fussi il piú arrogante poltrone di costui.
Ruffo. Tiberio, abbi pazienzia. Chi ha bisogno fa cosi.
Lucido. Comportalo insino a stasera.
Ruffo. Non posso.
Livia. Eh! Ruffo, per amor mio.
Ruffo. L’hai trovato! Appunto per amor tuo!
Tiberio. Orsú, Ruffo! Jo ti prometto da vero gentiluomo che stasera, a ventiquattro ore, arai i tua danari.
Ruffo. Chi mi sicura?
Tiberio. Non t’ho io detto che mezzi te li do adesso e mezzi stasera?
Ruffo. Di quelli di adesso sarò io sicuro quando dati me li arai. Ma di quelli altri?
Tiberio. La mia fede.
Ruffo. D’ogni altra cosa sono a vezzo a stare alla fede che de’ danari.
Tiberio. E se io non posso dartegli?
Ruffo. Non dico che me li dia; ma che mi lassi andar con costei.
Lucido. E che! Non s’ha egli a credere a uno uomo da bene,*ter quattro ore, venticinque ducati?
Ruffo. In fine, io son invecchiato in questa usanza.
Tiberio. Ascolta. Io ti do adesso questi venticinque. Se stasera non ti do el resto, vattene a mio padre, che è in villa, e dilli la cosa come la sta. E, se ti vien bene, dilli che io te l’ho tolta per forza (ch’io vorrei innanzi la febbre che egli avessi a sapere niente di queste cose) e richiedigli Livia. Lui subito verrá quaggiú e renderattela. Tu sai come gli è fatto. Se tu la rihai, e’ venticinque scudi sieno tua. E certo, se gran fatto non è, la non sará peggiorata venticinque scudi. E cosí sarai sicuro o d’essere pagato in tutto o di riaver Livia e venticinque ducati vantaggio.
Ruffo. A questo sono io contento: ma non voglio aspettar piú che insino a venti ore.
Tiberio. Sino a quanto tu vuoi, pur che tu mi ti levi dinanzi. To’: annoveragli.
Ruffo. Gli annoverai poco fa, e basta. Ma non ti doler di me; che, se e’ danari non vengono, io farò con tuo padre quanto noi siamo rimasti d’accordo.
Tiberio. Vatti con Dio, in malora. Fa’ quel che ti piace.
Ruffo. Dove t’ho io a trovare? , Tiberio. In piazza.
Ruffo. Addio.
Livia. Oh! E’ mi si è levat’una macina d’in sul cuore.
Tiberio. E a me d’in sull’anima. Oh! Possoti io guardare e toccare senza che ’l Ruffo mi tiri da l’altro canto.
Lucido. Al trovare de’ danari ti voglio!
Tiberio. Qualche cosa sará, Lucido. Se si pensassi tanto alle cose, non si farebbe mai niente. Io so che tu m’aiuterai e penserai a qualche modo che noi gli troviamo.
Lucido. Io penserò pur troppo; ma il caso sarebbe a pensare a qualche cosa che riuscissi. Ma dimmi: tu non ti ricordi di tornare in villa? come pensi tu di farla col tuo padre, s’ei s’avvede che tu sia venuto a Lucca a tante brighe? Ci mancherá questa! avere a placare quella bestia ed, in un medesimo di, avere a trovar venticinque ducati! che tant’è possibile far l’uno e l’altro quanto tener el Ruffo che, passato le venti ore, non vada a gridare a tuo padre e dicali che tu l’hai sforzato e toltoli costei. E, la prima cosa, te la torrá e renderagnene; e tu ne andrai bene, se non ti caccerá via.
Tiberio. Potrá egli mai fare ch’io non mi sia goduta Livia mia?
Lucido. Ei potrá ben fare che tu non la goda mai piú.
Tiberio. Starò pur seco un pezzo. Chi gode un tratto non stenta sempre. Lucido, io mi ti raccomando. Pensa tu a qualche cosa che ovvii a tanti mali. Noi, intanto, ce ne andremo qui in casa e aspetteremo Erminio che ci ha detto di venir a desinare con esso noi.
SCENA IV
Lucido solo.
Gli è ben vero che non è cosa che facci piú impazzar gli uomini che l’amore. Tiberio è cosí savio giovane quanto sia in questa cittá. E adesso, accecato, non vede quello si facci: perché nascosamente di villa è venuto qui e non si cura che lo risappi suo padre. E tant’è la rabbia di quel vecchio che io credo lo direderá, s’ei sa che ei sia venuto ed a che fare; perché, né maggior mjsero né maggior ippocrito fu mai. Ei non vuole che Tiberio guardi, non che tocchi, una donna. E lui, d’un santo vantaggio! E, oltre a questo, ha impegnato sé e li amici sua per fare venticinque scudi e, inoltre, ne ha promessi venticinque altri a venti ore: cosa che, s’ei non li ruba, non la può osservare in alcun modo. E parli avere pensato a ogni cosa quando ei dice ch’io vi pensi. Ma, se non fussi Erminio che m’ha comandato che io serva Tiberio come lui proprio, enterrei appunto in questo laberinto! Per Dio, la cosa torna bene: le fatiche e le brighe tocchino a me; e i piaceri a loro. Ma ecco di qua Erminio che m’ha fare un cappello perch’io non ho fatto la sua imbasciata. Dirò d’averla fatta; che le risposte son tutte ad un modo: che sta bene e che si raccomanda a lui. Ma e’ vien parlando. Vogl’intendere quel che dice.
SCENA V
Erminio e Lucido.
Erminio. Che peggior sorte mi potev’egli intervenire? Sorte crudele! Io non credo ch’egli accascili di cento a uno, che, alla prima volta, ingravidi una donna.
Lucido. Forse che ei parla o pensa mai ad altro?
Erminio. Ma quello che piú m’affligge è che io mi dubito che, per il gran dolor della vergogna, la non si faccia qualche male. Oh Dio! Tu solo puoi fare che la lo facci secretamente I e che, ad un tratto, la non vituperi sé e me ed il monasterio.
Lucido. Dio non ha altra faccenda che far la guardadonna alla Fiammetta!
Erminio. Almanco non li volessi io tanto bene! E, pur quando io potessi non gne ne volere, gne ne vorrei in ogni modo. Quel di ch’io non ho nuove di lei vivere non posso. Ed ancora Lucido non torna; ed è dua ore che io lo mandai.
Lucido. Quanto piú sto peggio è; che le bugie, o ora o poi, gli ho a dire. Buon di, patrone.
Erminio. Tu mi tratti sempre a questo modo. Quell’imbasciate che tu sai che io desidero saper prima che l’altre tu indugi a farmele sapere piú che tutte l’altre.
Lucido. Voi sapete come le son fatte. Innanzi che le comparischino alla ruota e che l’abbin finita la risposta, gli è sera. Di poi, vostro padre, Tiberio e ’l Ruffo, al tornare, m’hanno tenuto qui a bada tre ore.
Erminio. Tuttavia hai ragione tu e io el torto. Ma indugia un po’ piú a dirmi come la sta!
Lucido. I’ ve lo farò dir a Tiberio, quanto noi siamo stati a combatter col Ruffo.
Erminio. Dimmi, in malora, come la sta.
Lucido. E che! A un modo.
Erminio. Non t’ha ella detto che tu mi dica qualche cosa?
Lucido. Si raccomanda a voi.
Erminio. E non altro?
Lucido. Non altro.
Erminio. Come sta ella di mala voglia?
Lucido. El solito.
Erminio. Queste son molto asciutte risposte.
Lucido. I’ ve le do come l’ha date a me.
Erminio. Disset’ella che io l’andassi a vedere?
Lucido. La non m’ha detto altro.
Erminio. Oh Dio! La poverina debbe essere fuor di sé.
Lucido. Fuor di te sei tu.
Erminio. Che ho io a far, Lucido?
Lucido. Adesso avete a desinare. Poi penseremo quel che sia da fare. Io vi ricordo che ’l darsi tanto dispiacere delle cose non serve ad altro che a farsi male.
Erminio. I’ non posso far altro. Tu hai un bel dir, tu, che non ci hai passione nissuna!
Lucido. Dunque credete voi che le vostre passioni non sien passioni ancor a me? V vi giuro che, tutta questa notte, non ho mai dormito per pensare a qualche via che vi liberi da tanta molestia e vi contenti. Ed ancora non mi dispero di poter trovar qualcosa di buono.
Erminio. Eh! Dio el volessi!
Lucido. Andiamo adesso a desinare, che Tiberio v’aspetta.
Erminio. E dove è Tiberio?
Lucido. Lá drento, colla sua bracciata. E fate conto che adesso sono a’ ferri.
Erminio. Oh infelice a me! Lui, che non ha commoditá nissuna e che ha un padre si ritroso, senza danari, senza pratiche, si gode li sua amori; ed a me, che ho tutte queste cose ed ogni omo propizio, mi mancano colla speranza insieme d’averli piú a godere.
Lucido. Lassatela adesso passare e desinate in pace. Poi penseremo a qualche cosa. Voi sapete che la fortuna aiuta i giovani.
Erminio. Tu hai una gran cura che questo desinar non si freddi. Per l’amor di Dio, va’ ordina. Io son qui innanzi all’uscio. Chiamami.
Lucido. Questo importa un po’ piú.
Erminio. Io vo meco medesimo spesso pensando quella che, nello amore, sia di queste dua piú infelice condizione: o l’amare senza essere amato; o, amando e sendo amato, e desiderando una medesima cosa, essere proibito da muri, ferri, porte e guardie, come io provo con Fiammetta mia la qual so che non ha altro desiderio che trovarsi meco. Ed al fine io mi risolvo che la mia è piú infelice sorte: perché, non ostante che ci sia el contento di saper d’esser amato da chi io amo, egli è tanto il dispiacere, quando io considero che fra lei e me non è altro che ci proibisca i nostri desidèri che tanto di ferro, che io resto morto. E vommi asimigliando a Tantalo il quale, stando in ^ continua sete, con i labbri tocca un rivo d’acqua fresca né per ciò ne mandò mai giú una goccia. E cosí io, stando con continuo desiderio di ritrovarmi con Fiammetta mia, me li accosto tanto ch’ogni po’ piú saria contento né per ciò toccare o baciare la posso. Oh! Almanco fussi stata la comparazione in tutto simile! che, cosí come Tantalo l’acqua mai ha gustato, io mai lei avessi gustata; che adesso arei molto minor dispiacere. Vedi a quel che io son condotto! A desiderare di non avere fatto quello che io desidererei di fare piú che di vivere: non per levar in tutto, ma per scemare el mio dolore.
Lucido. Venite a veder, Erminio, se volete ridere.
Erminio. Che cosa mi fará ridere? Bisognerá bene che sia da ridere!
Lucido. Tiberio e Livia, che stanno in letto e fanno le maggior bravate che voi sentissi mai. Lui vuole amazzar suo padre, s’ei torna di villa; lei el Ruffo, come e’ viene per il resto de’ danari. E cosi, infuriati, dicono le piú belle cose del mondo. Ma vi prometto che si sfurieranno, se fanno a questo modo. Ma venite drento, che ogni cosa è in ordine.
Erminio. Oh! Se son in letto, non si voglion e’ levare?
Lucido. Voglion desinare e cenare e dormire li.
Erminio. E loro savi.