L'Argentina vista come è/Nelle campagne argentine «peoni» e «medieri»
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NELLE CAMPAGNE ARGENTINE
“PEONI„ E “MEDIERI„.1
La nostra emigrazione è nella massima parte composta di agricoltori, e l'agricoltura forma la più grande risorsa presente e futura della Repubblica Argentina. Lasciamo dunque un poco, lettore mio, le città con i loro governi, le loro amministrazioni, i loro tribunali, le loro collettività straniere — e relative associazioni — lasciamo la vita «civile» fra le passeggiate, le avenidas, i clubs, le bische, i teatri, gl'ippodromi che conosciamo già abbastanza e andiamo in cerca di tutti quei nostri connazionali che non si vedono nei grandi centri perchè lavorano dispersi per i campi, che non danno nell'occhio perchè sono umili, attaccati alla terra e del colore della terra. Essi sono la maggioranza. Sono essi che empiono le navi partenti dai nostri porti. La parola «emigranti» evoca alla nostra mente la loro folla misera e forte. Sono essi che i nuovi paesi invitano, perchè essi sono la ricchezza, l'unica vera ricchezza. Eppure sono gli ultimi ad essere visti da chi arriva laggiù, perchè al primo momento si scorge solo una folla di affaristi, di politicanti, di banchieri, di commercianti, d'industriali, di borsisti. Sono la maggioranza, ma le loro voci lontane non si odono; essi vengono gettati sui campi come si getta il seme. Il loro còmpito principale è quello di dare il frutto, darlo per tutti, e, se ne avanza, anche per loro.
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L'emigrante che sbarca col solo patrimonio delle sue braccia è un peon. Il peon — italianizzato in peone — è l'essere più umile che esista. È qualche cosa meno di un uomo: è una macchina da lavoro della forza d'un uomo. Il peone fa di tutto: è facchino, manuale, spazzino. Vive alla giornata, oggi trasporta le pietre nei cantieri, domani trasporta i covoni sui campi. Gira sempre in traccia di lavoro; passa da colonia a colonia, da provincia a provincia, ben felice quando un'occupazione lunga lo fissa in qualche parte. Viaggia quasi sempre a piedi come l'Ebreo Errante, ma senza le scarpe leggendarie, perchè le sue si logorano.
Durante i lavori della campagna trova facilmente a vendere le sue braccia, se però qualche flagello non ha distrutto i raccolti. Quando sulle grandi aie le trebbiatrici rumorose ed ansimanti divorano i covoni, ed il frumento scorre via dal loro fianco come un liquido d'oro, una folla d'uomini s'affatica intorno alle macchine, porge loro i bocconi, raccoglie il grano nei sacchi che poi trasporta sui carri enormi. Sono centinaia di peoni. Da dove vengono? Nessuno si cura di saperlo; nessuno domanda il loro nome. Giungono a branchi, attirati dal frumento come le formiche. Sono accettati fino a che ve n'è bisogno; vengono contati e distribuiti al lavoro sotto la sorveglianza di capataz. Ricevono un nutrimento che varia — a seconda dei luoghi — ma che è invariabilmente cattivo; bevono acqua calda e quasi sempre melmosa, raramente mescolata con un po' di caña — acquavite ricavata dalla distillazione della canna di zucchero. Il loro lavoro è aspro, terribile, sotto al sole torrido. Hanno un salario che può andare dal mezzo peso al giorno fino ai due pesos. Quando il raccolto è cattivo, il salario diminuisce. Quest'anno un numero grandissimo di peoni lavora nelle estancias per il solo cibo, ossia per il permesso di vivere.
I peoni più fortunati sono quelli che trovano un lavoro fisso; essi ricevono quindici, venti pesos al mese, ed hanno il vitto.
Purtroppo non è rarissimo il caso di peoni ai quali viene rifiutata la mercede pattuita. Finito il lavoro vengono qualche volta scacciati. Si sa bene che le loro proteste non sono ascoltate.
Vivono come le bestie, dormono in molti dentro un tugurio, che nella città è una camera di conventillo e in campagna una capanna od anche una semplice tettoia. Se ammalano cadono nelle mani di una curandera (poter chiamare il medico nelle campagne argentine è un lusso), la quale lega loro dei nastri rossi al polso per guarirli dalla febbre palustre, cava loro qualche libbra di sangue se accusano un grande male alla testa, fanno loro ingoiare le cose più strane e repugnanti per guarirli da un po' di tutto. E muoiono così, sul loro giaciglio.
Il peone che ha una famiglia, non sempre ne è unito. È il primo consiglio che gli emigranti poveri ricevono dalle «Guide» distribuite in Italia, e dagli impiegati dell'Hôtel de Inmigrantes: separatevi dalla vostra famiglia; le donne trovano facilmente ad occuparsi in Buenos Aires! Ed essi e le loro donne si separano: partono alla ricerca del lavoro per vie diverse che talvolta non s'incontrano più.
Il sogno del peone è divenire mediero, ossia affittuario di un pezzo di terra. Talvolta riesce a mettere da parte un po' di denaro, qualche centinaio di pesos, realizza il suo sogno. Le economie del peone sono il risultato di una vita miserabile, sordida, piena di sacrificî inauditi, di avvilimenti e di rinuncie spesso vergognosi. Se nella patria s'imponessero questi lavoratori una parte dei sacrificî che compiono sotto la sferza del bisogno laggiù, e se dedicassero alla loro terra soltanto un po' di quelle fatiche crudeli, alle quali li costringe la necessità in America, allora l'Italia sarebbe senza dubbio il più ricco paese del mondo.
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Il mediero prende in affitto una o due concessioni (la concessione è un quadrato di 860 metri di lato). Si fabbrica con le sue mani una capanna di legno e di fango seccato a mattoni, ricoperta di una lastra di zinco o di paglia. L'abitazione di terra è tradizionale; vi sono città come Mendoza, per esempio, che sono quasi interamente costruite così. Non è raro, viaggiando per la campagna, di vedere dentro un ristretto recinto dei cavalli che corrono per tutti i versi spaventati da gridi e da colpi di frusta. Lo strano torneo dura delle ore, e non è facile capire a prima vista che quelle brave bestie con i loro nobili caracollamenti hanno il modesto ufficio d'impastare il fango per costruirne delle case.
La vita del mediero è meno incerta di quella del peone, ma non meno dura. Egli vive isolato in mezzo alla sterminata pianura. Spesso il centro di popolazione più vicino dista delle leghe. Una visita del medico costa venti pesos alla lega (50 lire). In caso di malattia ogni cura efficace è impossibile. Nell'estate, quando il grande calore corrompe l'acqua dei pozzi, il tifo ed il vaiolo mietono intere famiglie. In quella triste stagione è comune il vedere attaccato alla porta delle casupole un cencio nero, che si agita al vento tropicale soffiante dal Brasile e dal Paraguay caldo come il soffio d'una fornace. Quel cencio nero che sembra un uccellaccio di malaugurio agonizzante, significa che la morte è passata da lì: è il segno del lutto. La durezza delle condizioni fatte dal proprietario costringe il mediero a coltivare molta più terra di quanto sarebbe in grado di fare. Questo rende i lavori campestri eccessivamente faticosi. Il padrone sfrutta il mediero, e questi sfrutta la terra. La coltivazione si riduce allo strappare al suolo quanto più prodotto è possibile col minimo di lavoro, in proporzione alla superficie. Una famiglia normale coltiva circa cento ettari di terra. Le operazioni campestri debbono ridursi a due sole, per mancanza di tempo e di forza: la semina e la raccolta. La terra non sente la cura continua, operosa, della mano dell'uomo; non viene rinvigorita dalle concimazioni, nè liberata dalle male erbe. Si spossa rapidamente; dopo otto dieci anni, la sua forza produttrice declina rapidamente. L'uomo è costretto ad abbandonarla; essa ritorna pascolo; il deserto la invade di nuovo. Il proprietario è molto ricco, e poco gl'importa di sostituire l'agricoltura con la pastorizia nelle terre sfruttate; ma il mediero, salvo casi non troppo comuni, è sempre povero. Esso abbandona i campi ingrati in cerca di nuovo lavoro, ma con molto coraggio e molte illusioni di meno. È incalcolabile il numero di medieri che in quest'anno di misero raccolto sono tornati ad essere peoni. Ricordo d'averne incontrati tanti e tanti nelle colonie di Santa Fè e di Rosario, tragiche figure di affamati. Sono venute le annate di buon raccolto, ma essi non hanno potuto profittare della prosperità. La ricchezza strappata alla terra con tanta fatica, è passata per le loro mani senza lasciarvi nulla, mentre intorno a loro si sono andati arrotondando dei patrimonî. È necessario fermarci ad illustrare brevemente lo sfruttamento del quale è vittima la grande massa di questi poveri lavoratori dei campi.
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La condizione più comune fatta dai proprietarî ai medieri è quella detta della terzeria. Il mediero deve mettere del proprio gli attrezzi da lavoro — che in una coltivazione estensiva consistono in macchine agricole che rappresentano un discreto capitale — deve mettere gli animali da lavoro, e infine le sementi; e deve consegnare al padrone una quantità del prodotto totale variante dal 25 al 30%. Questa parte del prodotto deve essere posta in sacchi nuovi, e portata a spese del mediero fino sui vagoni della più vicina stazione ferroviaria.
Il mediero si pone generalmente al lavoro senza capitali o con capitali insufficienti. Le macchine e il resto deve acquistarli a credito; deve anche acquistare le prime sementi. Tutto questo o gli viene anticipato dal proprietario, oppure fornito da un almacenero. In tutti e due i casi i prezzi sono gravati inumanamente. L'ombra di questo debito si proietta su tutte le prime annate di lavoro, durante le quali è necessario eseguire opere preparatorie, come la scavazione dei pozzi, la costruzione delle stalle e dell'abitazione, e il frutto della terra è minimo. Il mediero ha bisogno di farsi anticipare il vitto fino ai primi raccolti. Nulla di più facile: egli ha offerte da tutte le parti: vi saranno i prodotti che pagheranno tutto. I commercianti delle campagne, tenitori di strani magazzini dove si trova di tutto, dalla trebbiatrice alla pasta da minestra e dal grano ai cappelli, si affrettano a divenire creditori, e porre così una specie d’ipoteca sul lavoro del mediero. L’agricoltore è quasi sempre ignaro dei prezzi; la sua diffidenza è dissipata presto dall’apparente fiducia di cui è fatto segno. Egli non si accorge che non è a lui che si presta, ma alla terra. Se il raccolto si presenta bene, egli vede aumentarsi il debito; quando passa per il pueblo (piccolo centro) viene assediato d’offerte dal suo fornitore; gli si imbottisce il carro di stoffe per le sue donne, di conserve alimentari, di un po’ di tutto. Egli è sedotto da questa effimera abbondanza. Si abitua a non misurare più le sue forze, fino al momento che il debito non lo ha ridotto allo stato di strumento facitore di ricchezza; egli come una pompa assorbe dalla terra i suoi tesori per dissetare avide bocche.
Nei tempi del raccolto, che richiede grande rapidità per non compromettere il prodotto, egli non può bastare da solo con la sua famiglia a compire i lavori campestri sulle grandi estensioni che è costretto a coltivare; ha bisogno di peoni, le cui mercedi sono a suo carico. Le spese aumentano. Le distanze poi rendono qualche volta disastroso il trasporto. Tutte queste difficoltà sono superate quando la terra vergine compensa ad usura i suoi sudori. Ma allorchè sopraggiunge la cattiva annata, quando dal Gran Chaco, che sembra la misteriosa patria dei flagelli, vengono i nuvoli di cavallette e si rovesciano sui suoi campi, quando la tormenta li inonda di sabbia arida, quando la siccità li brucia, oppure quando la terra stanca e spossata dallo sfruttamento continuo rifiuta i suoi doni, allora la miseria terribile sopraggiunge. Tutti gli uccelli di rapina piombano sulla casa del mediero. Egli è vittima di tutti gli agguati legali e non legali, di tutte le infamie. Se il paese traversa economicamente un periodo critico, come ora, i creditori sono inesorabili. L’agricoltore paga mille per uno. I suoi attrezzi, i suoi bestiami, il suo grano sono sequestrati, la sua casa saccheggiata. Queste operazioni si compiono alla prima alba, come i delitti, perchè nessuna opposizione sia possibile. La legge non lo consente, ma lo consentono dei giudici, e basta.
Il mediero ritorna più miserabile di quel che non fosse prima, poichè spesse volte alla sua miseria materiale si aggiunge una ben più grave miseria morale. Il suo lavoro non è stato continuo; egli non si è occupato delle coltivazioni di frutta, di erbaggi, di ortaggi, i cui prodotti non poteva smerciare facilmente data la distanza dei mercati, e che richiedevano lunghe cure prima della produzione, lenta ed aleatoria. Nessun affetto alla terra lo portava ad arricchirla di vigne e di frutteti, che richiedono un capitale non piccolo, e che avrebbe potuto abbandonare forse da un momento all’altro prima di ricavarne i frutti. Egli non voleva che il guadagno immediato, il più gran guadagno. Grano, mais, lino, ecco le tre uniche coltivazioni, le più semplici. Tra il faticoso lavoro dell’aratura e quello tremendo del raccolto passavano lunghi mesi di ozio assoluto, d’inazione bruta. Il paziente lavoro di tutti i giorni non ha più tenuto occupato il suo spirito; dalla fatica bestiale passava alla disoccupazione ancora più bestiale. L’aspettativa fatalistica del raccolto lo ha reso apatico; è divenuto mezzo gaucho nell’anima, stemprato e stanco; senza il sollievo ed il conforto di una vita civile ha perduto la grande forza della volontà, si arrende alla sciagura, cede, è vinto.
Questa è la sorte disgraziatamente comune a tanti nostri emigranti, ma non a tutti, per fortuna. Vi sono alcuni proprietarî (molto pochi in verità) che fanno ai loro medieri patti più umani, che forniscono loro una parte degli attrezzi, un carro, i cavalli, oppure che stabiliscono il rimborso onestamente. Vi sono agricoltori che riescono a mantenersi con le loro forze, che vivono sempre nel sacrificio della più stretta economia, che dopo varî anni di lavoro giungono a capitalizzare due, tre, quattromila pesos, sottraendoli all’ingordigia delittuosa dei soliti uccelli di rapina. Essi, al primo rallentarsi della produzione, cercano altri campi per loro conto, e divengono coloni.
Il colono rappresenta l’ultima trasformazione dell’emigrante. Diventando colono, lo straniero cessa virtualmente d’essere straniero, perchè si attacca definitivamente alla terra. Il colono è la vera forza.
Fare d’ogni emigrato agricoltore un colono, questo è il problema che la Repubblica Argentina s’impone; ma la sua soluzione finora non fu cercata che fra i miraggi della teoria.
I coloni e la colonizzazione c’interessano vivamente perchè sopra essi si basa l’avvenire della nostra emigrazione, non solo, ma bensì l’avvenire stesso dell’Argentina, e non sarà discaro al lettore che ad essi dedichiamo la lettera seguente.
Note
- ↑ Dal Corriere della Sera del 15 agosto 1902.