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186 l’argentina e gli italiani


una folla di affaristi, di politicanti, di banchieri, di commercianti, d'industriali, di borsisti. Sono la maggioranza, ma le loro voci lontane non si odono; essi vengono gettati sui campi come si getta il seme. Il loro còmpito principale è quello di dare il frutto, darlo per tutti, e, se ne avanza, anche per loro.



L'emigrante che sbarca col solo patrimonio delle sue braccia è un peon. Il peon — italianizzato in peone — è l'essere più umile che esista. È qualche cosa meno di un uomo: è una macchina da lavoro della forza d'un uomo. Il peone fa di tutto: è facchino, manuale, spazzino. Vive alla giornata, oggi trasporta le pietre nei cantieri, domani trasporta i covoni sui campi. Gira sempre in traccia di lavoro; passa da colonia a colonia, da provincia a provincia, ben felice quando un'occupazione lunga lo fissa in qualche parte. Viaggia quasi sempre a piedi come l'Ebreo Errante, ma senza le scarpe leggendarie, perchè le sue si logorano.

Durante i lavori della campagna trova facilmente a vendere le sue braccia, se però qualche flagello non ha distrutto i raccolti. Quando sulle grandi aie le trebbiatrici rumorose ed ansimanti divorano i covoni, ed il frumento scorre via dal loro fianco come un liquido d'oro, una folla d'uomini s'affatica intorno alle macchine, porge loro i bocconi, raccoglie il grano nei sacchi che poi trasporta sui carri enormi. Sono centinaia di peoni. Da dove vengono? Nessuno si cura di saperlo; nessuno domanda il loro nome. Giungono a branchi, attirati dal frumento come le formiche. Sono