L'Argentina vista come è/Errori e difetti dell'emigrazione italiana
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ERRORI E DIFETTI
DELL'EMIGRAZIONE ITALIANA.1
Pochi popoli pagano al mondo un tributo d'emigrazione più grave dell'italiano; e pure la nostra stessa emigrazione sembra dimostrare — contraddizione strana — che noi manchiamo delle migliori qualità di popolo emigratore.
La massa dei nostri emigranti non ha preparazione, non conosce nulla del paese dove approda, e trova tutto inaspettato; non ha coscienza della sua forza e del suo valore; non è plasmata nè da una coltura, nè da una educazione, e si forma facilmente sopra un altro stampo; ha una verginità intellettuale che la rende duttile. Per una profonda ignoranza di cui noi in Italia, purtroppo, abbiamo la colpa e la responsabilità, la massa degli emigranti non conosce nemmeno il suo stesso paese, ne ignora le glorie e le grandezze, e non può sentire perciò l'orgoglio di essere italiana, non può provare quell'infinita soddisfazione della superiorità di razza che crea le pacifiche conquiste. Di fronte ad un nuovo popolo, in un nuovo ambiente, la cui brillante appariscenza la sua semplice mente non può sondare, essa si sente inferiore; ritiene come un torto proprio l’essere diversa; ne prova umiliazione, e tende a far scomparire ogni diversità modificandosi. E tutto questo perchè la nostra è una emigrazione di braccia, un'esportazione di muscoli, e troppo poco — in proporzione — d'intelligenza. Gli intelligenti nelle masse sono come i graduati nell'esercito, una piccola minoranza che guida, non fosse altro con l'esempio, che unisce in un'azione comune. Togliete gli ufficiali ad un esercito d’eroi, ed avrete la fuga più vergognosa. L'esercito dei nostri emigranti manca di ufficiali, e si sbanda, e si arrende alla spicciolata, subito, cedendo bene spesso quell'arma potente che si chiama «dignità nazionale».
Gli apprezzamenti che vado facendo si riferiscono al complesso della nostra emigrazione, s'intende; grazie a Dio si trovano per tutto dei fieri italiani, i quali prima d'ogni altro riconosceranno la loro dolorosa impotenza di fronte alla massa. Dopo d'avere constatato i trionfi gloriosi del lavoro italiano nell'Argentina, possiamo bene rilevare spassionatamente qualche nostro difetto, nel quale si possono trovare le cause di alcuni mali della nostra emigrazione.
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L'emigrazione nostra, così com'è, fa pensare all'esportazione d'una materia prima destinata ad essere trasformata ed adoperata. Subisce tutte le influenze senza resistere perchè è ignorante, cioè debole, e miserrima, cioè disarmata. In queste condizioni appena giunge ad immettersi nella nuova società, ne occupa l'infimo posto, ossia il più disprezzato. Laggiù nella scala delle posizioni sociali vi è un gradino di più, in basso: dopo il povero viene l'immigrante. Esso è più povero del povero nella conoscenza dell'ambiente e delle condizioni della sua nuova vita. Esso non potrà elevarsi che col lavoro, la sobrietà ed il risparmio. Questo significa che sarà costretto ad una vita di sacrificî, di gretterie e di umiliazioni, la quale, in mezzo al lusso dell'ambiente argentino e alla grandiosità dissipatrice dei «figli del paese», formerà un contrasto stridente che porrà l'emigrante sotto una luce ancora più dispregevole.
Osserviamo un emigrante qualunque, un emigrante «tipo» — piemontese o calabrese, poco importa — che arriva dal suo campo in cerca della fortuna. È umile per necessità, timido per ignoranza, si presta ad essere sfruttato e malmenato in silenzio perchè non conosce i suoi diritti — del resto comprende ben presto che il reclamare per i torti ricevuti è inutile, se non rovinoso, e che egli è solo e abbandonato. — Egli ammira tutto perchè nulla ha visto mai. Ciò che è diverso per lui è migliore. Conserverà della Patria una nostalgia istintiva, l'amore per i luoghi ove si è nati, quell'amore che il tempo ed i ricordi rendono sempre più dolce: amerà ricordarla, ma più andrà avanti con gli anni e meno conoscerà la vera grandezza e le glorie del suo Paese, perchè nella sua mente l'idea della Madre Patria non sarà altro che l'idea del suo passato. Vedrà lontano una casupola, un villaggio, una valletta; la sua casa, il suo villaggio, la sua valle. Quella è l'Italia; tutto il resto è vago, incompreso, indefinito. Talvolta si accorge che la sua qualità di straniero lo esclude da mille benefizî, lo priva di garanzie e di diritti; si trova come un veltro estraneo alla muta che lo guarda bieca e ringhiosa intorno alla curée. Allora, raramente, ma non troppo, e se i suoi mezzi e la sua posizione lo permettono, cerca di cambiar manto, di rendersi più simile che sia possibile ai fortunati, cerca di cancellare le traccie di italianità che gli sono rimaste, e comincia dal modificare il proprio nome. Si chiama Chiesa si cambia in Iglesia; se si chiama Speroni si trasforma in Espuelas; e si vede così un Montagna divenire señor Montaña, un Bibolini cambiarsi in Bibolian. — Disgraziatamente non mancano esempî!
Questo emigrante sarà doppiamente prezioso per il paese che lo acquista, ma quale sostegno potrà essere al nostro prestigio nazionale?
Quanto dico è amaro a dirsi, ma più amaro ancora a tacersi. Del resto, la causa di questi mali è qui, è in Italia, ed in Italia soltanto può esservi la cura.
L'animo del nostro paese è rimasto estraneo all'emigrazione; questa non rappresenta l'espansione d'un organismo esuberante di vitalità, ma piuttosto un male specializzato d'una sua parte. Essa non ci ha preoccupato che di tanto in tanto per un sentimento umanitario, e niente più. Non abbiamo pensato a sorreggerla, a dirigerla, a illuminarla. L'emigrazione nostra è come sangue vivo sgorgante dalla piaga incurata della nostra miseria e della nostra ignoranza. La piaga è vecchia e non ci dà dolore, e poco ci curiamo se questo po' di sangue nostro cade, si disperde, va a male. Non abbiamo veduto tutto il buono e tutto il cattivo che dalla nostra emigrazione poteva venire. Ben altrimenti dovevamo invigilarla e proteggerla, farle sentire lo sguardo della Madre Patria fiso sopra di lei; darle un ampio stato maggiore d'intelligenti.
Dalla Germania, dall'Inghilterra emigrano masse di giovani che escono da scuole create apposta per aprire gli occhi, che si sparpagliano per il mondo a battere sempre nuove vie per dove in breve s'incanalano i commerci delle loro patrie, delle quali così s'aumenta il prestigio e la potenza ovunque. Nuove regioni sono sondate, studiate, e ad esse dirette le masse emigratrici nella proporzione e nella composizione necessarie.
I rarissimi giovani colti frammisti all'emigrazione italiana, non partono ordinariamente — salvo onorevoli eccezioni — che quando vedono fallito l'ultimo tentativo per ottenere un umile impiego, sia pure a mille e cento. Vanno senza idee, senza progetti, senza appoggi e senza mezzi, travolti nel turbine della miseria, e privi perciò di quella grande forza che è l'indipendenza. Talvolta cadono per non rialzarsi più, talora invece riescono a formarsi una posizione; ma imparano laggiù, alla scuola della vita, quanto il paese nativo non s'è curato d'insegnar loro, ed è naturale che si modifichino, che si adattino all'ambiente; non possono serbarsi italianamente puri, e nello istesso tempo lottare per il pane in un ambiente dove sentono l'ostilità mordente, sorda, continua e tenace contro lo straniero.
Nessun uomo può rinunziare allo spirito di conservazione. L'emigrazione italiana ha perciò poche guide e pochi esempî, e viene a mancare così di quella mirabile coesione che è la caratteristica di altre emigrazioni.
Aggiungete la impunità che la cattiva giustizia assicura così spesso al «figlio del paese» quando commette reati a danno d'italiani — i quali sopportano tutto in espiazione di quel peccato originale che è l'essere gringo — aggiungete l'inazione diplomatica che lascia i nostri connazionali esposti all'arbitrio, al sopruso e alla brutalità, ed avrete un'idea della posizione forzatamente umile dell'emigrato italiano.
È per questo che noi laggiù non abbiamo sempre troppa fierezza, e non facciamo mostra di un'eccessiva dignità nazionale. Un anno e mezzo fa, poco tempo dopo che al Brasile si era data una sanguinosa caccia all'Italiano — pagata poi con un po' di denaro, senza nessuna soddisfazione per la bandiera italiana che la folla aveva oltraggiato trascinandola nel fango — il Presidente del Brasile, Campos Salles, si è recato a Buenos Aires. Moltissime Società italiane con bandiera e musica andarono a riceverlo, qualcuna di quelle Società diede persino feste in suo onore, e alla sera le facciate delle sedi sociali furono illuminate. Un ricco signore italiano giunse persino ad offrire la sua casa per ospitarvi il Presidente brasiliano, offerta che, si capisce, venne senza indugio accettata. E come questo, troppi altri «omaggi» inconsiderati rendiamo. In tutto ciò vi è molta ingenuità, molta incoscienza, desiderio di far cosa gradita, entusiasmo impulsivo e incoerente. Siamo latini anche noi; una bandiera spiegata e un festone di lampadine elettriche bastano spesso a farci gridare evviva. C'è il buon cuore, il cuore italiano, perchè con quello si nasce e si muore, ma non c'è il carattere italiano, perchè il carattere si forma; e, disgraziatamente, in Italia non è popolarizzato il mistero della sua formazione. Le nostre masse povere che emigrano sono moralmente amorfe.
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I danni che a noi derivano da questa emigrazione sono materiali e morali. I materiali: l'Italia che ha nell'Argentina più d'un milione dei suoi figli — ossia un quarto della popolazione della Repubblica — non contando i loro discendenti, non occupa nell'importazione di quel paese che il quarto posto, e il settimo nell'esportazione. I danni morali sono molto più gravi: laggiù si giudica del nostro paese in base all'emigrazione.
Gli Argentini stimano la Spagna perchè ne sono figli, l'Inghilterra perchè ne sono debitori, la Francia perchè ne sono satelliti, la Germania perchè ne sono clienti, gli Stati Uniti perchè ne sono ammiratori e imitatori. Dell'Italia sanno poco (la coltura storica e artistica non è in verità il loro forte), fuorchè essa manda laggiù bastimenti carichi di suoi figli, attivi, infaticabili, preziosi, sì, ma poveri e umili, due qualità straordinariamente disprezzabili, specialmente in un paese dove il denaro e l'orgoglio sono tutto. L'Italia è generalmente raffigurata dalla massa criolla come un paese di affamati, saturo di popolazione — quasi una piccola Cina — che ha bisogno di tendere la mano alla ricca e progredita America. Basta vedere le allegorie politiche dei giornali illustrati, nelle quali v'entri l'Italia, per capire, niente altro che dal gesto di magnifica protezione dell'Argentina verso l'Italia più piccina di lei, quale è il pensiero di quella gente, sui rapporti dei due paesi.
Ricordo che un giorno il direttore del più popolare giornale della sera, parlando con me di politica europea, mi sosteneva col massimo convincimento che l'Italia deve l'essersi salvata dalla crisi economica, di recente e dolorosa memoria, precisamente all'... Argentina. L'Argentina ci avrebbe salvato prima portandoci via dei disoccupati e degli affamati che avrebbero fatto la rivoluzione, poi economicamente con i... risparmî mandati a casa dagli emigranti e con lo sbocco dato ai nostri prodotti. L'egregio direttore ripeteva ciò che in più occasioni aveva scritto e ciò che la massa dei suoi lettori pensa.
Un giovanotto della migliore società bonearense, di ritorno da un viaggio in Europa, o meglio a Parigi, rispondendo ad un amico mio che gli vantava la vita napoletana, al sentire la parola paseos — passeggi — esclamò, con un sorriso indescrivibile:
— Caramba, me abria gustado ver los napolitanos in coche! — Perbacco, mi sarebbe piaciuto vedere dei napoletani in carrozza!
Un altro aneddoto ancora più caratteristico. Il figlio d'un ministro argentino si trovava a Napoli con un amico italiano, ora stimatissimo professore di latino a Buenos Aires, e passeggiando per la città, meravigliato del concorso elegante, esclamò: — Ma qua sono tutti stranieri! — L'amico rispose distrattamente che ci sono sempre molti stranieri a Napoli. Alla sera, al San Carlo, il figlio del ministro non si era ancora seduto nella sua poltrona, che girando lo sguardo sorpreso intorno alla sala ripetè:
— Però todos, todos estranjeros!
— Ah, no! — rispose l'amico comprendendo finalmente — sono napoletani, tutti napoletani, che Dio ti benedica!
La sua mente non concepiva dei napoletani in abito nero e delle napoletane in décolletée e brillanti, riuniti in una splendida sala da teatro. Per lui, come per la maggiorità de' suoi concittadini, «napolitano» era quasi sinonimo di venditore ambulante, di lustrascarpe e di spazzaturaio.
È facile immaginare quanto questa, diciamo così, poca considerazione dei nativi contribuisca a deprimere maggiormente il morale del nostro emigrante. L'Argentino, per la sua natura spagnolesca — che sotto certi aspetti può anche avere alcunchè di simpatico — è superlativamente orgoglioso, e convinto della sua indiscutibile superiorità sopra tutti gli altri umani dell'universo — ed è abituato a sentirselo dire. Anche nelle sue dimostrazioni di amicizia e di simpatia vi è sempre un'aria di degnazione, di protezione; nella sua cordialità c'è della benevolenza; si pone a vos ordenes per una forma di squisita e cavalleresca educazione, ma non riconosce nè ordenes nè deseos se la sua vanità non è solleticata; egli può concedere, mai cedere. Nelle transazioni fra uno straniero e un «figlio del paese» vi è sempre il carattere di transazioni fra inferiore e superiore, anche se avvolti nel velo soave di una educazione inappuntabile. Per di più, se gli argentini colti, quelli che formano la minoranza dirigente, sentono nella prosperità in cui vivono i vantaggi incalcolabili della nostra emigrazione, e la desiderano e la provocano, la massa povera criolla, quella che vive disseminata nella campagna, ne sente invece i danni. Una volta era padrona della Pampa, che la nutriva senza la dolorosa necessità del lavoro. Ora, dove è l'italiano enlazare un bue diventa un furto; il colono difende i frutti del suo lavoro, e il gaucho è costretto per vivere a lavorare nell'estancias qualche mese dell'anno; ciò offende la sua dignità. Egli ha rancore contro il gringo, e di quando in quando all'occasione si vendica a colpi di rivoltella, troppo spesso impunito.
La situazione dei lavoratori italiani, specialmente nei campi, è in certo modo simile a quella degli ebrei in alcune nazioni d'Europa, i quali fanno liberamente i loro affari, ma un'ostilità blanda e latente li circonda. Alla prima occasione si sentono gridare in faccia la parola «ebreo» come un'ingiuria. Laggiù si grida: gringo.
L'italiano si chiama gringo, un vocabolo dispregiativo, che non ha la traduzione. Non se ne sa nemmeno l'origine; alcuni credono che venga da griego-greco. Parrebbe che una volta, in uno dei primi anni del secolo passato, sbarcasse al Plata una comitiva di cavalieri d'industria greci, che rubarono mezzo mondo e poi presero il largo. Da allora si sarebbero chiamati griegos gli stranieri, quasi come per dirsi: — In guardia amico! — Da griego gringo; e questo appellativo è restato quasi esclusivamente sulle spalle degli Italiani. Non sono molti anni che rappresentava un'ingiuria mortale, ma poi i gringos sono diventati tanti che la parola ha perduto molto dell'acerbo significato, restando una semplice espressione disprezzante, come potrebbe essere da noi il vocabolo «stranieraccio». In forma amichevole gringo si cambia in gringuito. Spesso invece è seguito da un immondo qualificativo decentemente intraducibile e pure tanto comune laggiù, che pare non abbia altro scopo che di riportare la parola gringo all'antico ingiurioso significato.
Un argentino si offende se viene chiamato gringo. Tutti gl'Italiani indistintamente sono gringos. L'appellativo è usato correntemente. Dei gringos il più dispregiato è il tano. Tano è la corruzione di «napoletano». Tutti i meridionali sono «tani». Questa parola non è molto usata nelle classi decentes; se ne fa abuso nel volgo, specialmente della campagna. Siccome i poveri emigranti meridionali, calabresi, abruzzesi, napoletani, siciliani, sono i più miseri e i più incolti, la parola tano poco a poco è venuta a designare l'ultimo gradino dell'umiltà umana. Dire tano è come dire «miserabile!» Di questa parola non esiste un vezzeggiativo in tanito: tano è sempre dispregiativo assoluto. L'Argentino irritato vi dice in faccia gringo: irato vi grida tano. Ciò significa che le parole equivalenti a italiano e napoletano occupano un posto nel vocabolario delle ingiurie. E il nostro orgoglio non ne può essere lusingato.
Nel teatro criollo, che è una derivazione recente dell'antico teatro spagnolo, s'incontra spesso il tano. Come in tutti i teatri primitivi i caratteri dei personaggi rimangono stereotipati attraverso le diverse commedie, formando quasi delle maschere; fra queste maschere il tano fornisce il diversivo allegro; è burlato da tutti, parla a strafalcioni; è un po' il «servo sciocco» delle antiche scene italiane, ma più servo e più sciocco, per di più ladro e.... bastonato. Questo solo basterebbe a farci comprendere la strana depressione del nostro prestigio.
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Fra chi è nato al di qua e chi è nato al di là dell'Atlantico v'è una barriera invisibile che l'Argentino sente e apprezza; ed attribuisce alla propria generosità e alla propria bontà il non farla sempre valere. Esso si ammira in buona fede; dice e scrive in fondo in fondo così: «tutta questa gente moriva di fame nel suo paese, è venuta qua, ed io non la scaccio; come sono buono, generoso, ospitale!» Tutti hanno interesse di ripetergli in coro «come siete buono, generoso, ospitale!» — e la barriera invisibile persiste minacciosa.
Oh! facciamo una buona volta i calcoli di questa ospitalità generosa, vediamo da quale parte sono gli utili maggiori, immaginiamo che cosa sarebbe quel paese senza di noi, ed osserviamo ciò che è; vediamo chi crea la sua ricchezza, vediamo chi produce e chi spende, chi suda e chi gode, chi fa e chi disfà. Smettiamo di mentire, perchè la nostra dignità ne ha sofferto abbastanza.
Il nostro lavoro è richiesto: si domandano braccia. — «Che cosa guarirà mai la profonda crisi argentina?» — chiedevo un giorno al senatore Canè, uno dei più colti politici argentini. — «Non c'è che un rimedio: l'emigrazione» — mi rispose. Dunque da una parte si chiede l'emigrazione, dall'altra vi è la potenza di soddisfare la domanda. Si può ben trattare come parti contraenti, mettere delle condizioni, volere delle garanzie, pretendere un po' di giustizia per i nostri poveri connazionali, in cambio della immensa forza che noi diamo, e che noi dovremmo dirigere.
La vera Italia è sconosciuta o misconosciuta laggiù: la sua voce timida vi fu raramente udita; ascoltata mai. Il solo fatto di chiedere niente altro che il mantenimento delle calpestate promesse costituzionali, come il «diritto alla vita, all'onore, alla libertà, all'eguaglianza, alla proprietà e alla sicurezza», ci porrebbe immediatamente in una ben diversa situazione morale.
«Parla? dunque vive!»
- ↑ Dal Corriere della Sera del 6 luglio 1902.