Istoria delle guerre vandaliche/Libro secondo/Capo II
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CAPO II.
I. Belisario dopo l’aringa fece in quel dì medesimo partire tutta la cavalleria, men cinquecento, e diede all’armeno Giovanni i pavesai ed il segno, chiamato dai Romani bando, ingiugnendogli di badaluccare quando ne avesse la opportunità; e col nuovo giorno tenne lor dietro menando seco il nerbo de’ fanti ed i cinquecento cavalieri. I Massageti intanto avevano diliberato in consiglio, per serbare apparentemente lor fede ai Romani ed a’ Vandali, di non voltar mantello che ai riportarsi dai primi qualche vantaggio, fermi nel proposito di seguire la parte per cui propenderebbe la vittoria. L’oste romana trovati, marciando, i Vandali in Tricamaro1, lunge cenquaranta stadj da Cartagine, piantovvi il campo dappresso.
II. Qui avanzatasi di molto la notte apparvero le punte delle romane lance attorniate da fuoco, in guisa che il ferro sembravane candente. Pochi per verità mirarono il prodigio, e questi furonne assai intimoriti non sapendo interpetrarlo; mostratosi però dopo lungo tempo in Italia, fu subito ritenuto presagio della vittoria.
III. Nel dì vegnente Gilimero comandò che si trasportassero i fanciulli, le donne ed ogni altra suppellettile in mezzo del campo, e quindi chiamate a parlamento le truppe cominciò: «Non solo gloria ed imperio, o Vandali, oggi concorrono ad armare il nostro braccio, di maniera che vinti siane dato almeno di rimanere sotto i patrii tetti, godendovi le proprie cose ed accomodandoci nel resto alla fortuna; ma tali angustie ne premono che disperata la vittoria o lasceremo, estinti, il nemico padrone de’ figli, delle mogli, d’ogni nostro bene, e fin di tutta questa regione, o incontreremo vivendo cordoglio anche maggiore, costretti a vedere colle nostre luci medesime il compimento di sì inudite sciagure. Se giugneremo in cambio a conquidere i ferocissimi Romani potremo lusingarci di condurre pacifica, onorata e ben comoda vita, e di testare alle nostre famiglie una perpetua felicità; renderemo di più il vandalico nome illustre ed il perduto trono alla nazione, cui oggi sovrasta danno gravissimo sopra quanti de’ tempi andati volessi qui ricordare, e per istornarlo appunto da lei ora noi, soli depositarj delle sue speranze, tentiamo la sorte delle armi. Laonde a conseguire il bramato scopo ciascun di voi spogli il suo animo d’ogni effeminatezza, ed anteponga nel difendere la persona il morir generosamente ad una turpe disfatta, non avendovi pericolo idoneo a sgomentare colui che abborre l’infamia. Innanzi tutto però sgomberate le menti di qualunque rimembranza dell’ultimo combattimento, dove andammo col peggio non per vostra infingardaggine ma per malignità della fortuna, mai ferma nelle umane vicende, anzi inconstantissima ognora. Dirò pure a nostra gloria che nel valore superiamo di molto il nemico, e che di numero siamo ben dieci tanti; ma quello che in ispecie deve renderci maggiori di noi stessi è lo splendore degli antenati nostri e la sovranità da quelli di generazione in generazione pervenutaci, delle quali cose turpe sarebbe il rimaner privi col tralignare dalla virtù loro. Tacerò inoltre le lamentazioni delle nostre mogli e le lagrime della prole, al cui aspetto quasi disanimato sentomi venir meno la parola. Solo e per ultimo vi ricorderò che vana è ogni nostra lusinga di riabbracciare questi oggetti a noi carissimi se non torniamo co’ trofei della vittoria. Pugnate adunque, o Vandali, sollecitandovi tante e sì gravi cagioni, da forti, e guardatevi dall’apporre inonorata macchia alla prosapia ed al nome di Gizerico».
Gilimero poscia comandò a Zazone di parlamentare separatamente i Vandali tornati dalla Sardegna; e questi appartatosi alquanto aringolli nel modo qui appresso:
«Egli è certo a non dubitarne, o commilitoni, che i Vandali tutti debbonsi mostrare prodissimi nella ventura lotta per le cose qui ricordate dal re nostro; a voi però sopra gli altri si converrà il non comparire tralignati dal vostro primo valore, siccome coloro che trionfando nell’ultimo certame sul principato della Sardegna lo ritornaste nel vandalico regno; anzi v’è d’uopo battagliare con animo assai maggiore sovrastando ora gravissima sciagura a tutta la nostra repubblica, dacchè quanto è più grande la causa del combattimento tanto vuolsi far pruova di sublime coraggio dai combattenti. E di vero se il fato avessevi morto pugnando per l’isola, prezzo de’ vostri giorni sarebbe stata la signoria d’un sol luogo; ma con quanto più ardire non dovete oggi cimentarli per la somma del regno? essendo che necessitati a guerreggiare in causa di lei non v’ha più mezzo di perdere onoratamente la battaglia se non se perdendo con essa la vita. Operando inoltre da prodi a voi soli ascriverete la vittoria testè riportata sul tiranno Goda, impigrendovi al contrario ne cederete ogni diritto alla fortuna. Havvi ben anche un nuovo motivo perchè nel prossimo certame dobbiate essere più ardimentosi degli altri Vandali, ed è ch’eglino vittime già di avversa sorte rimangonsi timidi e inerti, quando che voi salvi ed esultanti ancora del trionfo nulla sapreste addurre per sottrarvi dall’incontrare più virilmente il pericolo. E qui viene a proposito l’aggiugnere che abbandonando il campo vincitori potrete attribuirvi la maggior gloria di questa giornata; anzi verrete celebrati da tutti come la più ferma difesa della nostra gente, non sembrando verisimile che i debellati una volta sien quindi protetti da migliore fortuna. Pieni adunque la mente di sì nobili pensieri datevi prima di tutto ad implorare l’assistenza del Nume, esortate poscia le mogli e la prole meste e lagrimanti a starsi di buon animo, e fattivi confortatori degli altri Vandali uscite seco loro da valorosi a campo».