Istoria delle guerre vandaliche/Libro primo/Capo XV
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CAPO XV.
I. Col venturo giorno Belisario udito che parecchi guerrieri ivano scorrazzando la campagna e rubando le frutta, mandò tosto a punirli, e quindi raccolto l’esercito disse: «Ell’è mai sempre turpe e detestabil cosa, perchè alla giustizia contraria, l’usar violenza ed il pascersi dell’altrui; oggi però di tali colpe addivenir possono funestissime in guisa da vie più dovercene astenere per gli effetti loro, che non, se fosse lecito il proferirlo, per amore della giustizia stessa. E sallo Iddio che l’unica mia speranza nel condurvi sopra questi lidi era di conciliarmi tanto i naturali suoi abitatori, quanto faceva mestieri perchè addivenissero in grazia nostra disleali e molesti ai Vandali, dopo di che non avremmo più temuto scorrerie, o sofferto disagio comunque. Voi al contrario sì operando quasi li affezionaste agli Africani, e rendeste noi tutti i costoro nemici, essendo legge di natura che gli offesi abborriscano gli autori de’ tollerati mali. Come dunque anteporre alla vostra salvezza ed alla copia d’ogni bene pochissimo danaro, con che potete mai sempre aver di tutto a gola dai legittimi padroni? i quali non voglionsi per noi menomamente offendere se di amicarli ne sta a cuore. Ora dunque mercè la indiscrezion vostra saremo guerreggiati e dagli Africani e dai Vandali, e che peggio si è dallo stesso Nume, il cui soccorso mancherà di continuo agl’ingiusti. Laonde guardatevi bene per l’avvenire da ogni maniera di furto e dalla seduzione d’un sì pericoloso guadagno, potendo un’esatta disciplina moltissimo contribuire alla nostra salvezza, e le ribalderie di pochi metterci tutti a ripentaglio d’una ignomimosa morte. Non di meno se farete da quinci innanzi opere conformi alle mie esortazioni placherete il Nume, riporterete la benevolenza degli Africani, e trionferete in breve tempo del barbaro Gilimero:» qui tacque e sciolse l’adunanza.
II. Eravi lungo il cammino presso al mare e ad una sola giornata dal campo la città di Siletto1, già da gran pezza smantellata di muro, avendo in cambio gli abitatori munito le proprie case per guarentirle dai saccheggi de’ Maurusii, e il duce spedivvi l’astiere Buriade2 con alcuni pavesai ad annunciar loro ch’e’ verrebbe a combatterli; ove però fosse di buon grado accolto non molesterebbeli punto, anzi ne migliorerebbe d’assai la condizione, e di più li renderebbe al tutto liberi. Gl’inviati giunti a poca distanza da lei sul calar delle tenebre passarono la notte ascosi in certa vallea, ed all’apparir dell’alba rinvenendo alcune carrette della campagna dirizzate a quella volta, montanle, e così a loro bell’agio ed inosservati entranvi dentro. Quindi rischiaratosi il giorno adunano con perfetta calma il vescovo ed i principali cittadini per esporre l’ambasceria del romano duce, e questi consegnano di subito le chiavi delle porte affinchè siengli presentate.
III. Nel giorno medesimo il soprastante ai pubblici cavalli della città fecene al campo romano, colà rifuggito, di suo pieno arbitrio la consegna. Belisario inoltre impossessatosi d’uno dei corrieri africani, così nomati dal portare al galoppo le regie lettere, non ebbelo a vile, ma regalatolo in cambio generosamente affidogli le scritte da Giustiniano imperatore ai Vandali, perchè nelle città venissero consegnate ai costoro prefetti; e vi si leggeva: «L’animo nostro è ben lontano dal volere la schiavitù dei Vandali, o rotti gli accordi stabiliti con Gizerico; siamo qui soltanto per liberarvi da un tiranno, il quale spoglio affatto d’ogni riguardo verso il testamento del suo predecessore ha messo in catene il vostro re, toltigli già di vita per odio estremo alcuni de’ parenti, ed altri, privati degli occhi e della libertà, serbali a tormenti più acerbi che non la morte stessa. Unitevi pertanto a noi e cercate scuotere il giogo di sì crudele tirannia. Che se attenderete a vivere pacificamente vi promettiamo in ogni cosa aiuto, impegnandovi sopra ciò avanti il Nume la fede nostra»: così le scritte; ma il corriere temendo pubblicarle, e facendone appena e di nascoso partecipe qualche suo amico, ingannò le grandi speranze riposte in esse.
IV. Dopo le narrate cose il duce consegnò trecento bellicosissimi pavesai a Giovanni di schiatta armena, prefetto delle spese domestiche, valoroso e prudente al sommo, ordinandogli di precedere con essi l’esercito ad una distanza non maggiore di venti stadj, e scoprendo il nemico di mandargliene tosto avviso affinchè e’ possa disporsi a combatterlo. Inviò parimente un egual numero di Massageti a battere, discostandosi anche più dei primi, la via da sinistra, ed egli col nerbo delle truppe rimase indietro nell’aspettazione d’essere tra poco attaccato da Gilimero che venivagli da tergo pel sentiero d’Ermione3; di nulla paventava a destra sendo fiancheggiato dal lido. Fe inoltre comando che il navilio procedesse continuamente di conserto colle truppe, al qual uopo i nocchieri se spinti da gagliardissimo vento ammainerebbero le vele maggiori per iscemarne la foga, e se in calma perfetta darebbero di mano coraggiosamente ai remi per sollecitare il cammino. Terminate queste faccende, e messo in ordinanza l’esercito calcò la via di Cartagine.
V. Entrato in Siletto raccomandò una seconda volta alle truppe la disciplina, il non commettere ingiustizie, il tenere a sè le mani, ed il temperarsi da ogn’altra azione fuor di proposito e disdicevole ad uomo onesto, e mostrandosi egli stesso facile e grazioso con tutti riuscì a cattivarsi quegli Africani. Il soldato poi, addivenuto circospettissimo nel suo operare, s’aggirava in mezzo ai nemici come se quelle fossero tuttavia le patrie terre; nè gli agricoltori al mirarlo fuggivano od ascondevansi, ma più presto offrivangli i prodotti delle campagne loro, commerciavan seco, e rendevangli mille servigi. Le nostre marce giornaliere non soverchiavano gli ottanta stadj, ed erano seguite da tranquillissime notti o in luoghi abitati, o entro gli accampamenti. Di tal fatta, passate le città Lepti e Adrumeto4, giugnemmo a Gressa5, borgata a trecentocinquanta stadj da Cartagine, e dov’era la reggia del Vandalo; nè immaginar potrebbesi delizia più bella, essendo tutto il suo terreno abbondante di acqua, adorno di boschi, ricco d’ogni maniera d’alberi, e questi di soavissime frutta in guisa fecondi, che sebbene l’esercito quivi a campo ne prendesse una satolla, pure non vi rimase traccia della sua ghiottornia.
VI. Gilimero avuto in Ermione il nostro appressarsi scrive in Cartagine a suo fratello Ammata che dia morte a Ilderico ed a tutti i prigioni di regal sangue o comunque parenti del monarca; gli ordina contemporaneamente di tenere apparecchiati i Vandali e quanti eranvi di presidio, acciocchè i Romani colti in luogo stretto presso Decimo, borgata della città, ed accerchiati da ambi gli eserciti debbano, senza modo allo scampo, com’entro una rete perire. Ammata, giusta il comando uccide Ilderico, Evagene e quanti eranvi Africani, favoreggiatori delle costoro parti; quindi appresta i Vandali affinchè al primo cenno sien pronti a combattere. Gilimero poi venivaci furtivamente dalle spalle desideroso che non ne avessimo alcun sentore: ma la notte medesima in cui l’esercito stanziò a Gressa gli esploratori suoi azzuffaronsi co’ nostri, i quali subito retrocedendo ne chiarirono dell’avvenuto. Di qui inoltrati perdemmo di vista il navilio a cagione degli altissimi scogli allargantisi in grande giro nel mare, e d’un promontorio6 con la borgata Ermea dappresso. Laonde Belisario fe avvertito Archelao, questore dell’esercito, che a dugento stadj da Cartagine gittasse le ancore per rimanervi in aspettazione d’altro suo comando; e noi partimmo da Gressa nella fiducia di arrivare dopo quattro giorni a Decimo, lontano dalla nostra meta non più di settanta stadj.
Note
- ↑ Luogo d’incognita situazione giusta l’Ortelio.
- ↑ Moraide secondo altri testi.
- ↑ Luogo d’incognita situazione giusta l’Ortelio.
- ↑ Lepti: soprannomata minore da Tolemeo per distinguerla dalla gran Lepti della Pentapolitana; male però argomenterebbesi da questo suo epiteto che fosse ben piccola cosa, quando ebbe invece rinomanza di splendida città. Plinio la chiama liberum oppidum, ed Irzio liberam civitatem et immunem. Nella Tavola Augustana di più avea il segno delle maggiori città, e Cesare vi pose un presidio di sei coorti. Strabone la ricorda con questi termini: «Subito dopo (Abrotono città) segue Neapoli, o con altro nome Lepti» (lib. xvii). Dai geografi moderni è detta Nabel. — Adrumento: metropoli della Bizacene; e da Plinio messa come l’altra nel numero delle città libere: Hic (Bizacii) oppida libera, Leptis, Adrumetum, Ruspino, Thapsus. Tolemeo e l’autore dell’antico Itinerario la chiamano Colonia. Strabone dice: «Melite, altra isola, è distante da Cossura stadii cinquecento; poscia viene Adrume città, provveduta anche di porto» (lib. xvii).
- ↑ Luogo d’incognita situazione giusta l’Ortelio.
- ↑ Ermeo o di mercurio, la cui parte interna, dai geografi moderni detta Ras-Addar, nomavasi dagli antichi promontorio Bello. (V. Danville ed Heyne, Opusc. acad., vol. iii, ec.). Di questo leggiamo in Polibio: «Ora il promontorio Bello è quello che giace avanti Cartagine e guarda verso settentrione, oltre il quale verso mezzogiorno vietano i Cartaginesi a’ Romani di andar con navi lunghe, non volendo essi, a ciò che mi sembra, che conoscesservi luoghi presso alla Bissati (Bizacene) e alla Sirti minore che chiamano emporj per la fertilità del terreno, ec.». Il quale divieto pe’ Romani fu uno de’ patti stipulati nella prima convenzione tra essi ed i Cartaginesi sotto il consolato di Giunio Bruto e di Marco Orazio (anni di R. 245); eccone le parole: Non navighino i Romani nè i loro alleati più là del promontorio Bello, ove da burrasca o da nemici non vi fossero costretti: che se alcuno vi fosse forzatamente portato non gli sia lecito di comperare o di prendere alcuna cosa fuorchè ciò che gli occorresse per assettare la nave o per uso di sagrificio. Entro cinque giorni se ne vada chi ha colà approdato (tom. ii, lib. iii, trad. di G. B. Kohen).