Istoria delle guerre persiane/Libro primo/Capo IX
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Traduzione dal greco di Giuseppe Rossi (1833)
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CAPO IX.
I. Areobindo in forza d’un ordine imperiale calcò la via di Bizanzio1, e gli altri capitani portatisi nel cuor del verno ad assediare Amida più volte cercarono di espugnarne le mura, e sempre indarno; avrebbonla tuttavia forse avuta per fame se accorti si fossero della grandissima e generale carestia di che pativano i chiusi là entro, e se, non curanti le voci d’un qualche persiano soccorso e le lamentele de’ soldati stanchi pe’ disagi della stagione e per le fatiche dell’assedio, non avessero stabilito di abbandonarla frettolosamente. Quando invece il presidio avvegnachè privo d’ogni risorsa studiavasi a tutta possa di occultare le angustie sue, facendo anzi sembiante di vivere nell’opulenza, onde incontrare all’uopo d’una capitolazione miglior fortuna. Ed in effetto si convenne di poi tra le due parti, così almeno divulgò la fama, che le truppe del re cederebbero la città ai Romani contro il pagamento di mille libbre d’oro; ed il prezzo fu versato nelle mani del figlio di Glone, rimaso costui vittima d’un tradimento, come prendo a narrare.
II. Stando i Romani a campo vicin della città, un del contado, solito entrarvi furtivamente con pane, frutta e cacciagione, di che facea gran mercato al comandante Glone, andò a Patrizio colla promessa di darglielo prigioniero in una con dugento Persiani, se ne riportasse parola d’un guiderdone corrispondente all’impresa; ed il romano duce tosto rispose che impegnavagli, quanto è al premio, sua fede. Or quegli laceratesi le vesti corre alla città, e con gli occhi pieni di menzognere lagrime e divellendosi la chioma va a trovare Glone e gli dice: «Nel condurti, mio signore, dalla villa copia di cibi veggomi dai ladri (che menan lor giorni pe’ campi vagando), sopraffatto, spogliato ed acerbamente percosso. E di tai ladri sono pur troppo questi vili Romani abbandonatisi alla rapina, e ad ogni maniera di ribalderia contro i poveri abitatori della campagna, sfogando sopr’essi quel livore che non osano mandar fuora cimentandosi con soldatesche pari loro. Ma ove lo brami eccoti il mezzo di porgere aiuto a noi, e di provvedere a te stesso ed alla tua gente: se tu col nuovo giorno uscirai ad insidiarli pe’ dintorni di queste mura, ammasserai copiosa preda, solendo i malvagi a piccole frotte di quattro o cinque individui bazzicare colà e dar molestia a chiunque parasi loro innanzi». Glone prestando fede alla narrazione interrogollo sul numero dei Persiani ch’e’ giudicherebbe conveniente a punire l’ardimentosa genia; ed ei replicò cinquanta guerrieri sembrargli oltr’al bisogno, non comparendovi mai i nemici in numero maggiore di cinque alla volta; nullameno volendo procedere con più cautela, sarebbe prudente cosa addoppiarne il numero, e non avrebbesi al certo danno coll’arrivare ai dugento, perocchè il di troppo in simiglianti faccende non fu mai dannoso. Il governatore, datagli lode, risolve prender seco dugento cavalieri, ed invita il contadino a servir loro di scorta; ma quegli rispondeva che avrebbero dell’opera sua miglior servigio quando il facessero precedere a scoprire terreno, e vedendo i Romani e’ tornerebbe di lancio coll’avviso perchè si esca ad attaccarli. Consentitosi da Glone alla proposta, il fellone corre veloce al campo di Patrizio colla riferta delle ordite trame, e questi messi in punto all’ora stabilita mille2 Romani e fidatone a due capi scelti tra le sue guardie il comando, intima loro di subito partire col villano, il quale non appena ebbeli posti in aguato entro di paludoso e boschereccio luogo vicin del borgo Tilasamo3, alla distanza di quaranta stadj da Amida, si volge incontanente ad avvertire Glone che giunta era la opportunità di sorprendere gli sbandati, e co’ dugento Persiani il menò seco. Ma trascorso il terreno dove erano le insidie con tale scaltrezza dileguossi da tutta quella comitiva che nè il comandante nè la truppa s’accorsero del fuggir suo; tornato da quinci ai Romani e chiamatili fuor dell’aguato mostrò loro il nemico. Glone mirandoli procedere contro di sè forte maravigliossi dell’inaspettato caso, e non sapea che si fare nel grave pericolo, impossibile addivenendo il retrocedere con chi di già alle spalle guardava i passi, o l’avanzare non ferendo gli sguardi suoi che armi romane. Attelò adunque la poca oste per cimentarsi cogli assalitori, ma oppressi dal costoro numero ebbero tutti a lasciarvi miseramente la vita.
III. Il figlio di Glone, addoloratissimo per la perdita del genitore, arse pieno d’ira la chiesa di S. Simeone, dove quegli era morto: unico esempio di tal fatta, non avendo mai nè Cavado, nè Glone, nè altri distrutto cosa alcuna col ferro o col fuoco, sia entro Amida sia fuori delle costei mura. E qui torneremo a bomba.
IV. I Romani adunque riebbero Amida4, rimasa due anni soggetta al re persiano, sborsando la prefata somma.
V. Entrativi però grandemente arrossirono del poco loro coraggio e della incredibile frugalità dei nemici, sendosi dal calcolo della vittuaglia trovata nella città e degli individui usciti argomentato, che il presidio avesse cibarie per nulla più di sette giorni, quantunque Glone ed il figlio suo nel farne la distribuzione andassero per lungo tempo in guisa circospetti, che la misura accordata era ben minore di quanta ne occorre a soddisfare non istentatamente i bisogni della vita. I Romani poi colà rinchiusi non ebbero durante l’assedio, come già scrivea5, alcun soccorso, di maniera che vidersi costretti a trangugiare non consueti cibi, e sin ridotti alla crudele necessità di sbramare lor fame con le umane carni. I duci osservando l’insieme di tante maravigliose circostanze rimproverarono alle truppe la intolleranza loro nei disagi dell’assedio, lasciandosi per essa fuggire la opportunità di venire nuovamente al possesso d’Amida e di condurre prigioniero il figlio di Glone con tanti altri ragguardevolissimi Persiani, e contaminando la gloria del nome romano con una macchia siccome quella di ricevere a prezzo la città assediata.
VI. Dopo di che i Persiani stanchi del lungo pugnare contro gli Unni fecero con l’opera di Celere e di Aspendio una tregua di sette anni coll’imperatore6, e quindi i capitani d’ambi i popoli vennero indietro cogli eserciti. Così ebbe fine questa guerra, dalla quale passeremo a narrare gli avvenimenti delle Porte Caspie.
Note
- ↑ Su la derivazione di tal nome leggi Esichio, Delle origini di Constantinopoli, o sia, Frammento della Storia universale.
- ↑ Due mila (Cousin).
- ↑ O Tialasame, come si legge presso qualche autore.
- ↑ Le sue mura, tanto maggiori quanto minori, prossime a diroccare per la vetustà, furono quindi fortificate, quasi di nuovo edificandole, dall’imperatore Giustiniano (lib. ii, degli Edifizj).
- ↑ Cap. 7, di questo libro.
- ↑ Anno dell’era volgare 510.