Istoria delle guerre gottiche/Libro terzo/Capo XL
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Traduzione dal greco di Giuseppe Rossi (1838)
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CAPO XL.
Scorreria degli Sclabeni, e loro trepidazione all’udire la mandata in Italia di Germano vincitore un tempo degli Ante. Morto il duce imperiale i suoi figli e Giovanni vengono eletti a capitanare le truppe. Liberio afferra a Siracusa. Artabano soggiace a tempestosa fortuna. I Gotti partonsi dalla Sicilia per consiglio di Spino. Altro scorrimento degli Sclabeni. Strage, e quindi vittoria de’ Romani.
I. Germano esercitava in Sardica, città dell’Illirico, le truppe, ed era sul compiere un validissimo apprestamento di guerra quando turbe di Sclabeni, forti di numero sì da mancarne altro esempio, direttesi alla frontiera del romano impero e valicato il fiume Istro apparvero in Naiso. Qui pochi di essi appartatisi dal corpo e procedendo alla spicciolata vaganti s’avvennero ad un romano drappello; fatti prigionieri ed interrogati con quale intendimento avessero traghettato il fiume, dichiararono essere per camminare innanzi mirando alla conquista, assediatene le mura, di Tessalonica, e delle varie città a lei dintorno. L’imperatore, all’udirne, scrive tutto sgomentato a Germano che, sospesa l’andata in Italia, vada in cambio a soccorrere quel presidio ed i prossimani luoghi, opponendosi con ogni diligenza all’assalimento degli Sclabeni. Ma intanto che il condottiero sta sopra sè, colpa degli improvvisi mutamenti, avvertiti i barbari del costui arrivo in Sardica dannosi in preda al timore, essendone appo loro divolgatissimo il nome, ed eccone il motivo. Quando Giustiniano, zio di lui, pervenne al trono, gli Ante contigui agli Sclabeni, passato l’Istro, appresentaronsi in molto numero ed armata mano sulle terre imperiali. Ora Germano, di que’ dì eletto maestro de’ militi per tutta la Tracia, pigliato a combatterli diede loro grandi sconfitte, e per poco non giunse a disterminarli; tanto bastò a farlo salire in altissima rinomanza presso tutti que’ popoli, ed in ispecie presso la nazione dei vinti. Costoro adunque temendone, memori de’ tollerati mali, e sapendolo condottiero di fiorentissimo esercito, come colui che moveva da Bizanzio contro Totila ed i Gotti, presto troncato il cammino alla volta di Tessalonica, nè più osando incontrar battaglia entrano, superati i monti dell’Illirico, nella Dalmazia. Germano pertanto rassicuratosi da questo lato impone a’ suoi di affardellare, quasi tra due giorni volesse correre la via dell’Italia. Se non che nel breve intervallo colpito da malattia spirò in poc’ora, vittima di repentina morte. Fu egli di sommo valore, ottimo capitano di eserciti, ed assai abile nello sbrigare col suo talento i più complicati affari; durante la pace e ne’ prosperi tempi era osservantissimo delle leggi de’ civili statuti, e d’incorrotta fede nel tener ragione. Prestava danaro vuoi pure in copia a chiunque ne lo richiedesse, guardandosi dal ricevere un che di merito. Nel palazzo e nel foro assai gravemente conversava; ed in casa era mai sempre un convitatore grazioso, liberale e dotto. Non sapendo che si fossero umani rispetti opponevasi alla introduzione di nuovi abusi nella corte, ed abborriva le società ed amicizie co’ faziosi del circo bizantino, quantunque per ambizione di onori molti si contaminassero di que’ goffi desiderj; ma di lui basti.
II. L’imperatore contristatissimo di tanta perdita ordinò a Giovanni, da lato maschile nipote di Vitaliano e genero di Germano, che unitamente ai figli dello spento duce si partisse coll’esercito per l’Italia. Costoro adunque pigliarono il cammino della Dalmazia coll’intendimento di svernare ne’ Saloni, estimando inopportuno il tempo a girarne il seno, ed impediti a far vela dalla mancanza di pronte navi. Liberio sin qui all’oscuro degli imperiali cambiamenti in riguardo alla capitananza dell’armata veleggiò a Siracusa cinta da nemico assedio, e rotti i barbari a guardia del porto entròvvi con tutto il navilio. Non guari dopo Artabano venuto a Cefalenia e fatto consapevole che i Romani dalla Dalmazia aveano dirizzate le prode ver la Sicilia, mettesi anch’egli, alzate di colta le áncore, per la medesima via traversando il mare nomato Adriatico. Già poco distava dalla Calabria quando, suscitatasi fiera burrasca, tutti i suoi vascelli furono dispersi da veementissimo contrario vento, con timore non molti di essi urtando que’ lidi cadessero in potere de’ nemici; ma differentemente il fato dispose, imperciocchè gli uni in balia d’impetuoso vento e malissimo conci retrocedettero nel Peloponneso, gli altri affondarono, ed il resto giunse a buon porto. La nave montata da Artabano, rotto l’albero dalla procella, corse gravissimo pericolo; non di meno alla fine riparò, trasportata dalla foga delle onde, all’isola Melita1. Così Artabano fuor d’ogni speranza ebbe salute.
III. Liberio dopo tali avvenimenti non avendo più forze per assalire e combattere il nemico, ed osservato che la vittuaglia non potrebbe lungo tempo sovvenire ai bisogni de’ molti seco rinchiusi, fatta vela di là con tutto il presidio navigò di segreto a Panormo. Totila ed i Gotti allora, posta a saccomanno quasi interamente la Sicilia, caricarono lor navi d’enorme quantità di cavalli ed altro bestiame, di grano e biade comunque, delle ricchezze in fine, grandissime per verità, ivi raccolte, ed all’improvviso voltarono le prode verso l’Italia istigativi dal seguente motivo. Il re avea inalzato alla questura un originario di Spoleto per nome Spino. Questi soggiornando in Catania, città spoglia di mura, cadde in potere degli imperiali; allora il re bramosissimo di redimerlo, proposene il cambio con illustre romana prigioniera, se non che gli altri dichiararono fuor di proporzione la permuta d’un magistrato con donna. Il mancipio adunque pigliato a temere di sua vita promise loro che persuaderebbe a Totila di trasferire l’esercito in Italia, ed obbligatovisi con giuramento indusseli ad accogliere la reale proposta. Tornato per tanto libero espose a Totila, non appena venutogli innanzi, che male i Gotti provvedevano a sè stessi col indugiare nell’isola dopo averla messa quasi totalmente a ruba, per cupidigia di conservare le poche munizioni da loro guardate; gli soggiunse inoltre con asseveranti parole che nella sua prigionia aveva inteso la morte di Germano, imperial nipote, e l’arrivo in Dalmazia dell’esercito di lui ora capitanato da Giovanni e Giustiniano, genero l’uno l’altro figlio del defunto, i quali raffardellerebbero di netto e porrebbonsi a correre la via de’ Liguri per avere con repentino impeto la prole e le donne de’ Gotti e predarne le ricchezze. «È meglio, diceva, prevenirne i divisamenti procacciando svernare co’ nostri in fidata regione; imperocchè ove riusciamo a vincerli potremo di poi franchi da timori e molestie tornare al possesso dell’isola.» Totila seguitone il consiglio lasciò truppe in quattro de’ più forti luoghi, e navigò col resto per dar fondo in Italia; tanto operossi nella Sicilia.
IV. Giovanni e l’imperiale esercito pervenuti nella Dalmazia stabilirono svernare ne’ Saloni per indi trasferirsi direttamente sul far di primavera a Ravenna. Gli Sclabeni poi, tanto quelli venuti da prima sul tenere di Augusto, quanto gli altri unitisi loro, valicato il fiume Istro, non guari dopo andarono a man salva predando il romano impero. Nè mancavan sospetti che Totila con molto danaro avesseli aizzati contro a’ Romani per impedire a Giustiniano Augusto il provvedere, com’era il caso, alla gottica guerra. Io m’asterrò dall’affermare che gli antedetti barbari così operassero vuoi per gratificare a Totila, vuoi di lor posta; certo si è che apportarono con tripartito esercito immensi danni a tutta Europa, di corsa mettendo a ferro e fuoco la regione, ed intertenendovisi il verno, liberi da nemico timore non altrimenti che sulle proprie terre. L’imperatore destinò a combatterli valentissime truppe aventi alla testa molti duci e principalmente Constanziano, Arazio, Nazare, Giustino, primogenito di Germano, e Giovanni soprannomato Faga; Scolastico, altro dei palatini eunuchi, a tutti imperava. Questo esercito appressatosi ad Adrianopoli, mediterranea città della Tracia e lontana da Bizanzio cinque giornate di cammino, scontrò parte della nemica fazione, la quale non sapea come procedere impacciata dall’enorme quantità delle suppellettili, degli armenti e de’ prigionieri condotti seco; ella osteggiava su d’un monte apprestandosi occultamente all’aringo. I Romani attendati nella pianura e lungamente indugiativi levaronsi coll’ultima sfrontatezza ed ardire contro ai duci rimproverandoli che mentre, in virtù del grado, egli abbondavano di cibo non si prendessero il minor pensiero dei soldatelli affivoliti dalla fame, nè volessero venire all’armi. Scossi gli offesi da sì acerbe querele escono a campo: ferve la pugna, ed alla fine son costretti a piegare colla perdita di molti valentissimi guerrieri; gli stessi comandanti in punto di cadere nelle mani de’ barbari tornaronsi del meglio loro in fuga. Gli Sclabeni, pigliata l’insegna di Constanziano e fattisi spreggiatori dei vinti, procederono a guastare la nomata Astica regione sino allora non tocca, quindi ricchissima sorgente di bottino, e compiutone il generale saccheggiamento vennero ai Muri lunghi distanti da Bizanzio poco più d’una giornata di cammino. Se non che gli imperiali incoratisi raggiungonne parte, e con assalimento improvviso e molta strage sbaragliatala ricuperano gran numero di prigionieri ad una col vessillo di Constanziano. Tutti questi barbari di poi restituironsi col rimanente bottino alle proprie case.
Note
- ↑ Malta.