Istoria delle guerre gottiche/Libro terzo/Capo XXXVIII

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CAPO XXXVIII.

Gli Sclabeni valicano l’Istro e l’Ebro, battono le romane truppe, inveiscono contro Asbade ed espugnano la città di Topero. — Somma crudeltà loro.

I. Di que’ tempi l’esercito degli Sclabeni, pari a tremila individui, a tutto suo agio valicato il fiume Istro e quindi l’Ebro pigliò, dividendosi, due strade. L’una delle parti sommava di mille ottocento armati, e l’altra compivane l’intero numero. I romani duci nell’Illirico e nella Tracia sorpresi alla spicciolata da costoro toccarono fuor d’ogni aspettativa grave perdita, molti avendone morte, e campando il resto con precipitosa fuga la vita. I barbari, sebbene contassero assai minor gente degli imperiali, usciti vittoriosi mandarono truppe a combattere Asbade lancia di Giustiniano Augusto, ascritto ai così detti Candidati e prefetto de’ cavalieri, molti e coraggiosissimi, dimoranti ab antico in Tzuruli, castello de’ Traci; messi in rotta pur questi ne uccisero in buon dato e fecero prigione lo stesso duce sottrattosi vergognosamente dalla mischia, nè lo spensero in allora per gittarlo quindi nel fuoco, tagliatagli da prima a liste la pelle della schiena. Dopo sì orrenda strage impunemente guastarono tutta la Tracia e l’Illiria occupando coll’assedio molti castelli, avvegnachè per lo innanzi non avessero mai osato battere mura, nè venire a battaglia in campo; nè tampoco s’erano dati giammai a scorrazzare le terre [p. 420 modifica]imperiali. Che anzi non saprebbesi affermare di averli veduti con esercito in tempi anteriori di qua dal fiume Istro.

II. I vincitori d’Asbade posto dappertutto a ruba il continente sino al mare espugnarono eziandio una città con presidio, Topero n’è il nome e vuol annoverarsi la principale tra le marittime della Tracia, nè viaggerai più di quindici giorni per passare da lei a Bisanzio; di questo modo poi ne vennero in possesso. Una piccola turba di essi fecesi a provocare i Romani a guardia dei merli sopra la porta volta ad Oriente; laonde il presidio opinando che tutta la nemica forza stesse quivi raccolta, impugnate di netto le armi scagliasi lor contro. I barbari allora facendo viste di grave temenza pigliando a rinculare, ma non appena la guernigione si fu dilungata ben bene dalle mura quegli in agguato balzan fuori e chiudonle da tergo la via, mentre i simulanti fuga volta la fronte piglian di nuovo a combatterla, e dopo crudo scempio inoltrano alle porte. I cittadini, quantunque privi di truppa e nella massima costernazione, respingono da principio con bravura gli assaltori versando lor sopra oglio bollente mescolato con pece, ed ogni età investendoli con pietre, cosicchè per poco non si sottrassero dall’imminente pericolo, ma poscia il nemico avventando un nembo di frecce pervenne a dipopolare i merli e coll’aiuto delle scale ad avere in poter suo la città, ove uccisi gli idonei alle armi, un quindici mila o in quel torno, e posta ogni cosa a ferro e fuoco riduce al servaggio donne e fanciulli. Con pari fierezza l’altro esercito dal dì che mise [p. 421 modifica]piede su quel de’ Romani trucidò senza riguardo all’età chiunque capitavagli innanzi, lasciando nell’Illirico e nella Tracia il suolo per ogni dove lastricato d’insepolti cadaveri. Nè a dar morte adoperavano spada, asta od altro de’ consueti mezzi, ma ficcati profondamente in terra acutissimi pali e sovrappostevi a sedere lor vittime attendevano, premendole con grandissima forza, che le punte di quelli apertosi un varco sino alle viscere spegnesserne a furia di tormenti la vita. Piantavano anche tal fiata nel suolo quattro grossi legni e legativi piedi e mani dei prigionieri percuotevanne replicatamente con bastoni le cervici, morendoli a foggia di cani, serpenti o altra belva comunque; non rade volte eziandio ammonticchiatili in tugurj co’ buoi e colle pecore, di troppo lento passo per condurle in patria, faceanli spietatamente consumare dalle fiamme; di questo modo eran soliti martoriare que’ miserandi prigionieri. Sazj da ultimo ambo gli eserciti e quasi ebbri di tanto sangue versato, risolverono di largire ad essi la vita, e quindi ripatriarono con miriadi infinite di schiavi1.

Note

  1. È uopo condonare al retore e sofista cotanto enfatica espressione.