Istoria delle guerre gottiche/Libro quarto/Capo XXX
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Traduzione dal greco di Giuseppe Rossi (1838)
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CAPO XXX.
Arringhe di Narsete e di Totila.
I. Poco dopo le antedette cose ambo gli eserciti si apprestarono alla pugna, e Narsete raccolte le sue truppe fe’ loro tali parole: «Queglino che inferiori di numero espongonsi ad incontrar battaglia può darsi vadano bisognosi di esortazioni ed incoraggiamento onde perlomeno fatti con lunga diceria più animosi degli avversarj conducano a buon fine la contesa. Ma voi, o guerrieri, in atto di venire alle mani con genti al cui numero, valore e guerresco apparato soprastate non poco, siete d’una sol cosa in bisogno, di uscire in campo, dirollavi, protetti dal Nume. Con fervorosissime preci adunque imploratene il soccorso, ed avvalorati gli animi vostri da generoso sdegno portatevi a disterminare questi ladri, i quali sottrattisi colla fuga al grande imperatore, cui furono già tempo soggetti, e sceltosi dal volgo un tiranno a capo lungamente afflissero il nostro suolo commettendovi colla massima inverecondia le ribalderie loro. A buon diritto in vero sarebbesi ognuno creduto ch’e’, se pur vanno di qualche ingegno forniti, non avrebbero unquemai osato sfidarci alle armi; voglionsi non di meno con mal consigliata audacia metter fine alla vita, e sedotti evidentemente da furiosa baldanza esporre ad infallibile morte; nè, per Dio, giugne a tanto lor audacia da ripromettersi straodinarj eventi, e maggiori della comune aspettazione; ma ben si vede che lo stesso Nume li guida a pagare il giusto fio delle malvagità commesse, da che l’uomo per decreto divino sentenziato ad ammenda comunque va di per sè ad incontrarla. Voi entrate nell’arringo difensori di ben regolata e ferma repubblica, eglino scosso il giogo delle leggi sono tutti nel macchinare novità; sfiduciati inoltre di trasmettere agli eredi qualche parte delle usurpazioni loro, e persuasissimi che seco abbia termine ogni cosa tale vivono da non portare più in più d’un giorno le proprie speranze. Sono quindi meritevoli di altissimo dispregio, imperciocchè la virtù diserta le società prive di ordine e di commendevoli statuti; la vittoria pertanto, fedele compagna di lei, si tiene ben lontana da loro;» così Narsete. Il re vedendo i suoi tutti intenti ad ammirare l’esercito romano, chiamatili a parlamento, ne conforta gli animi dicendo:
II. «Qui vi ho ragunato, commilitoni, col proposito di arringarvi per l’ultima volta, poichè dopo l’imminente battaglia, siccome penso, non occorreranno altre militari concioni, ma con essa avrà fine la guerra. E per verità sì noi che Giustiniano Augusto addivenuti siamo deboli ed esausti di forze in causa delle fatiche, delle pugne e delle miserie in cui da gran pezza ci ravvolgiamo; ne incuori tuttavia a durare gli sconci della guerra il pensiero che ove in oggi riportiamo vittoria sopra il nemico, tosto ci verrà meno il bisogno di prendere nuovamente le armi, dopo tante stragi soavissima riuscendo agli uomini la pace; nè là dove e’ s’ebbero a lottare con ogni maniera di travaglio osano mettersi a nuovi pericoli, e se da fortissima necessità sienvi costretti gli animi loro, spaventati dalla memoria dei sofferti patimenti ne provano tutto il mal cuore. La mercè di queste considerazioni esponetevi, o prodi, con grandissimo coraggio al cimento, per mostrarvi in esso quali in realtà voi siete, nè ad altri tempi serbate un che del vostro alto valore. Incontrate pur con fermezza qualunque difficoltà sia per appresentarvisi, nè rendavi circospetti il pensiero che non abbiano col presente arringo ad aver fine le nostre pene. Datevi pur entro non curando armi e cavalli, affatto disutili le cose la dimane per noi; la fortuna, scempiatici per ogni modo, ha rinchiuso in questo sol giorno tutte le nostre speranze, siate adunque valorosi ed uscite coraggiosamente in campo. Queglino la cui sorte raccomandata ad un capello guardinsi dal rimanere menomo istante tranquilli, conciossiachè perduto il bello ogni conato anche grandissimo invanisce, la natura abborrendo parto comunque fuor di stagione; sfuggita pertanto la opportunità è mestieri che tutto l’operato di poi riesca intempestivo. È quindi mio avviso che voi attendiate ad afferrare scaltramente i partiti di cui vi fornirà la buona ventura, per combattere da prodi, e così poscia fruire de’ vantaggi che saranno per conseguitarne. Ma soprattutto vorrei imprimere nelle menti vostre il male gravissimo che ne coglierebbe fuggendo; col volgere degli omeri, abbandonata l’ordinanza, sol mirasi alla propria salvezza, ma se alla fuga tengon dietro inevitabili danni, il perseverante nella pugna meglio di chi l’abbandona a sè provvede. Non curate inoltre la folta schiera nemica, marmaglia ragunaticcia di svariatissime genti; di tali eserciti, opera il più dell’oro, non sono di fede e costante valore, poichè vuol natura che quanti hannovi popoli tanta siane la discrepanza de’ consigli. Non vi date a credere che gli Unni, i Langobardi e gli Eruli quivi da immenso danaro trascinati sieno per combattere infino all’estremo della vita, chè certamente non l’hanno così a vile da estimarla meno dell’ottenuto danaro: vivomi sicuro in cambio che dopo bella guerresca mostra e’ non si scalderanno di soverchio nella tenzone, memori della già snocciolata mercede e della obbedienza dovuta ai comandi segreti de’ proprj duci. Imperciocchè non le sole cose di guerra, ma pur quelle riputate soavissime dal volgo se in virtù di prezzo o qual tu vuoi forza vengano eseguite e non da sua posta increscono mai sempre e stimansi intollerabili, colpa lo stringente legame. Pieni adunque la mente di questi pensieri facciamoci ad assalire il nemico.»